Come e perchè la fede cristiana è fondata sulla ragione

1. Chiarimenti preliminari                                                                                             

Il dirlo in modo netto e lapidario potrà apparire forse provocatorio o addirittura scandaloso, ma è giunto il tempo di provare ad aprire qualche pagina innovatrice intorno alla natura della fede cristiana, della quale ultima è noto il rapporto talvolta conflittuale o antagonistico o semplicemente propedeutico con la ragione e la razionalità dei filosofi ma della quale soprattutto nessuno mai ha osato riconoscere un preciso fondamento di razionalità, come se la Rivelazione divina tutto potesse e possa essere tranne che una potentissima, inedita e luminosa, anche se sconvolgente, manifestazione di razionalità.  

E’ universalmente noto che Dio come Logos significa Dio come Parola, come Pensiero, come Ragione. Perciò, «La Parola», nella sua complessa, articolata, profonda e sofisticata struttura linguistica, discorsiva, etica e infine spirituale, ma non la parola di origine e derivazione storiche, bensì la parola del “principio” e dell’“eterno”, la parola ontologica, che tutto contiene sia in atto che in potenza e di cui lo spazio e il tempo storici, come tutte le creazioni culturali che vi hanno luogo, sono solo una piccola e breve anche se essenziale e significativa parentesi, è la luce del mondo, la guida a tutte le verità, la chiave di tutti i misteri, lo specchio dell’invisibile rifratto anche se molti non vi si soffermano con la dovuta attenzione. Quella parola divina è parola di vita e di verità e, mentre gli uomini, con le loro minuscole, seppur talvolta preziose ed esaltanti sillabe di conoscenza e di vita, passano, essa rimane a beneficio di quanti in ogni epoca storica, anche dopo comprensibili e faticosi travagli interiori o ingiustificati ritardi, vi si vogliano accostare.

Riconoscere che Cristo è il Logos, la Ragione, il senso originario e ultimo di tutte le cose, nella loro più elevata dimensione di universalità, significa per i cristiani riconoscere che la fede in Cristo non può non essere fondata sulla ragione. Se Cristo-Dio è non uno dei tanti logoi prodotti storicamente ma è il Logos per antonomasia, con una valenza di assolutezza ontologica comprensiva della stessa effettualità storico-umana, e quindi il Logos che, attraversando e incrociandosi continuamente con il cammino storico dell’umanità, ne ispira processi o dinamiche di scoperta senza mai lasciarsi rinchiudere nelle categorie o nei modelli di pensiero e di ricerca via via elaborati dall’ingegno e dallo spirito umani, chi dichiara la sua fede in Cristo non può poi sostenere, pur trattandosi di problematica complessa e sempre dibattuta nei secoli, che la fede religiosa e più specificamente la fede cristiano-cattolica non sia fondata sulla ragione.  

Anche perché, se non sulla ragione, su cos’altro dovrebbe fondarsi? Sulla semplice istintualità, sulla pura emotività, su generiche tendenze sentimentali, o addirittura su qualcosa che abbia a che fare con l’irrazionalità, con la inintelligibilità, e in definitiva con una realtà divina completamente oscura ed enigmatica, sostanzialmente indefinibile e indecifrabile, avvolta in un mistero totalmente inaccessibile e impenetrabile da renderla simile ad una semplice invenzione della mente? Ora, è del tutto evidente che, come insegnano circa due millenni di indagine filosofica e teologica, l’orizzonte della fede non sia completo o perfetto appannaggio della ragione e che la razionalità umana vi si possa esercitare solo compatibilmente con quegli accessi conoscitivi consentiti dalla divinità che, in quanto tale, pur continuamente rivelandosi alle creature soprattutto attraverso la rivelazione evangelica di Cristo, non può che circondarsi e rimanere protetta da ampie zone di mistero e da una fitta coltre di insondabile enigmaticità.

Ma chi crede in Cristo, non può non credere nel fondamento squisitamente razionale delle sue verità, dei suoi insegnamenti, delle sue norme o regole di vita, anche se il significato della sua complessiva lectio evangelica e salvifica non sembra acquisibile in modo immediato e agevole ma attraverso una riflessione, una meditazione, uno studio, un’esperienza pratica, che possono durare anche tutta una vita; non può non credere nella portata realmente veritativa e dunque necessariamente razionale del suo messaggio religioso, ivi compresi i presupposti e le implicazioni trascendenti e sovrannaturali da cui esso risulta costituito, anche perché il Cristo è ad esseri pensanti, raziocinanti, dotati essenzialmente delle due facoltà dell’intendere tanto per via intuitiva quanto per via discorsiva e del volere sostenuto dal giudizio, che si rivolge e destina la sua predicazione, non certo ad esseri privi di ragione e meramente istintivi, impulsivi, nonché incapaci di capire, di comprendere se non per via di immaginazione, di fantasia, di credenze basate sul pregiudizio o su fatti presunti e mai corroborati su alcun genere di riscontro empirico.

Cristo, è la domanda di fondo, è esistito storicamente, la sua vita e la sua opera hanno una indiscutibile dimensione storica, i suoi discorsi come le sue opere prodigiose, tra le quali soprattutto la sua stessa risurrezione corporea, hanno potuto disporre di testimonianze non solo veritiere ma spesso anche autorevoli e inequivocabili? La risposta del cristiano è e deve essere incontrovertibilmente positiva: anche noi, credenti di questo tempo, fondiamo la nostra fede su precisi e inoppugnabili dati di fatto, proprio come inoppugnabili, anche se di natura diversa, sono i dati di fatto, teorico-sperimentali, della scienza, sebbene non già quest’ultima in quanto forma universale di conoscenza ma taluni suoi artefici o esponenti non riconoscano validità epistemica ai contenuti spirituali dell’annuncio di Cristo e della stessa fede in Cristo: in realtà, così come la scienza è fondata sulla razionalità, peraltro pur sempre e necessariamente approssimativa, dei suoi dati, anche la fede è fondata sulla razionalità storico-empirica di tutti gli antefatti teorici e pratici da cui è sorta. E se la razionalità scientifica è eminentemente intersoggettiva, non meno significativa e anzi molto più ampia, è la base intersoggettiva della fede religiosa e cristiana.

Certo, le verità e le realtà spirituali insegnate e trasmesse da Cristo e dai suoi apostoli non sono e non possono essere soggette a quei riscontri empirico-sperimentali, a quella misurazione quantitativa, a quei criteri di esattezza, di verifica e riproducibilità, cui invece devono sottostare e sottoporsi tutti quei fenomeni materiali, cosmici o astronomici, che si cerca di spiegare in senso per l’appunto scientifico, anche se beninteso le verità e le realtà, in massima parte immateriali, della fede non sono affatto prive di qualunque riscontro fattuale, di qualunque possibilità di calcolo logico-ipotetico (se una X prende il posto di Dio molti dati biblici e teologici, per esempio, potrebbero essere trattati all’interno di diversi scenari al momento immaginari ma non per questo necessariamente inesistenti o irrealizzabili), come avviene in campo matematico i cui valori quantitativi sono del tutto immateriali, ideali, intuitivi o puramente logico-deduttivi, e infine di qualunque pratica sperimentale volta ad accertare in qualche modo la sussistenza  almeno relativa o indiziaria di fenomeni generalmente ritenuti inverificabili e scientificamente indimostrabili: già la cosiddetta scoperta della “particella di Dio” potrebbe forse insegnare qualcosa.

Ma, d’altra parte, la scienza è in continua evoluzione ed è sempre molto azzardato, come la stessa storia della scienza insegna, voler fissare in modo netto e categorico i confini tra scienza e non scienza: in fondo, ancora nel XVI° secolo, la teoria astronomica dominante era quella geocentrica e il povero Copernico elaborava la teoria eliocentrica in senso meramente matematico e quindi ipotetico in attesa che, non molto tempo dopo, Galilei ne dimostrasse finalmente la fondatezza scientifica in sede sperimentale.

Non bisogna avere fretta per quanto riguarda i tanti e ancora irrisolti misteri della realtà naturale, e a maggior ragione non bisogna avere fretta per quanto si riferisce ai tanti e ancora momentaneamente irrisolti misteri dello spirito e della fede, del trascendente e del sovrannaturale. Il sapere cristiano è un sapere religioso, sapienziale, infuso da Gesù nel cuore e nella mente degli uomini in funzione della loro salvezza, non certo in funzione del progresso conoscitivo e scientifico. Esso non si sostituisce ai saperi storici, epistemici, tecnici, pratici dell’umanità, ma questo non toglie che tale sapere esprima una forma di razionalità non solo non inferiore e non necessariamente antagonistica rispetto a quella di altre discipline umane ma, in linea di principio, anche compatibile con quest’ultime e funzionale al loro sviluppo.

Un’attenta e analitica riflessione sulla storia della cultura umana non può che mostrare le particolari, talvolta sottili ma significative connessioni che intercorrono tra sapere biblico-religioso o evangelico-cristiano e tutta una serie di opere, invenzioni, riflessioni e interrogazioni, studi e trattati, scoperte mirabili, realizzati o sviluppatisi all’interno delle diverse e molteplici aree dello scibile umano, tanto che, se si volesse dare veramente prova di rigore, non dovrebbe sembrare temerario chiedersi se, per caso, quel sapere critico, figlio dell’età moderna e tante volte, specialmente nel tempo presente, contrapposto ad ogni forma di sapere dogmatico e religioso, sia venuto producendosi sul piano storico semplicemente in opposizione ad una certa varietà di rappresentazioni religiose o non anche come conseguenza, come effetto di uno spirito critico, problematico, destabilizzante, talvolta persino enigmatico e corrosivo, nascosto o annidato in molte pagine apparentemente innocue e memorabili solo per la bellezza lirica dei loro presunti racconti mitici; di uno spirito quindi intrinsecamente inquisitivo, caustico o tagliente, e sempre comunque coinvolgente e stimolante, che, nel corso di intensi e appassionati dibattiti e dispute secolari, non confinati solo in chiostri conventuali o in aule ed accademie chiesastiche sottoposti ad un rigido e non sempre illuminato controllo ecclesiastico, non poteva alla lunga non concorrere ad impregnare di sé, vale a dire di anticonformismo e spregiudicatezza critica, tutti quegli ambiti disciplinari e specialistici che, per un motivo o per l’altro, si sarebbero dovuto spesso confrontare con le narrazioni bibliche e che quasi mai avrebbero potuto astenersi dall’interrogarsi su questioni metafisiche, teologiche e spirituali, originatesi da una lettura e da uno studio sempre più sistematici delle Sacre Scritture.

Peraltro, basta scorrere l’indice degli scienziati più illustri tra ‘500 e ‘700, di quelli cioè che ebbero il privilegio e la responsabilità di dare alla luce e poi di far crescere e alimentare in modo serio e sano il corpo della scienza moderna, per rendersi conto di quante siano le personalità religiose e cristiane di spicco che avrebbero contribuito a creare la libertà e l’autonomia della ricerca scientifica non in polemica ma anzi spesso in collaborazione con il sapere e la saggezza della conoscenza religiosa e teologica. Si dà, pertanto, una razionalità religiosa, dotata di sue forme tipiche e specifiche di studio e di ricerca, e su tale razionalità è appunto fondata la fede evangelica e cristiana, così come si dà una razionalità scientifica, anch’essa autonoma nei suoi metodi e nelle sue strategie di ricerca ma non necessariamente conflittuale con la razionalità su cui è fondata la fede, anche perchè l’intera impresa razionale della scienza è a sua volta, e al pari di qualsivoglia concezione della realtà e del sapere, fondata su un presupposto logicamente non dimostrabile ovvero su un atto di fede, quello per cui il reale sia oggettivamente conoscibile, anche se non indipendentemente dai metodi e dagli strumenti con cui esso venga indagato. Che poi la scienza abbia avuto il merito di demistificare qua e là, sotto determinati aspetti, la narrazione biblica, è vero, così come è vero che, biblicamente, la ragione è pur sempre, insieme alla vita, il dono divino più prezioso, ed è del tutto normale che essa possa e debba esercitare una funzione di controllo sulle stesse rappresentazioni e descrizioni bibliche ed extrabiblica della fede cristiana.

2. La fede tra razionalità atea e razionalità religiosa

Naturalmente il ragionamento fin qui fatto non può essere lo stesso di tanti laici atei contemporanei che si sentono evidentemente sminuiti, nella loro presunta funzione di esclusivi e rigorosi custodi del vero oggettivo e universale, da qualunque tipo di accostamento tra scienza e fede, di cui negano infatti la possibilità stessa di un sia pur minimo rapporto. Proprio in questi giorni mi è caduto sotto gli occhi un articolo in cui si esaltava la critica feuerbachiana della religione (F. Minazzi, L’annientamento del concetto di dio nella riflessione antropologico-critica di Feuerbach, in “Materiali di estetica” n. 5-2, 2018, pp. 81-108), fondata, com’è noto, sulla tesi secondo la quale «non è Dio a creare l’uomo ma è l’uomo che crea ipostaticamente Dio, avendo Dio la funzione certo illusoria ma comunque consolatoria e appagante di garantire in un al di là il perfetto soddisfacimento di tutti quei bisogni esistenziali di amore, libertà, giustizia ed eguaglianza che in questo mondo restano sempre largamente o totalmente insoddisfatti, per cui l’uomo vive come sdoppiato in una realtà alienata, in una realtà altra da sé e dalle sue oggettive e materiali necessità di vita» (ivi, p. 84).

Ma se questa ipotesi feuerbachiana può rivelarsi utile e pertinente in tutta una serie di esperienze religiose individuali e collettive, senza che invece sia possibile riconoscerne l’attendibilità quando si pretende di applicarla per via di generalizzazione, lo studioso nostrano, che ha ritenuto di riproporla per l’oggi, nonostante le diverse e pesanti repliche storiche ottonovecentesche a tutti i tentativi filosofici di mettere fuori gioco la religiosità, le ragioni della fede, la razionalità stessa della fede e del pensiero cristiano-cattolici, è invece non solo convinto di aver fatto un’opera assolutamente meritoria nel lanciare il pensatore tedesco nella lotta contemporanea del vasto schieramento laicista, materialista, scientista e ateo, contro uno schieramento cattolico in apparente difficoltà, non tanto di argomentazioni quanto proprio di motivazioni spirituali, ma si spinge anche e addirittura ad essere persino più realista del re, vale a dire dello stesso Feuerbach, in quanto, a differenza di quest’ultimo, il filosofo della scienza Fabio Minazzi, dall’alto della sua maturità intellettuale, dichiara di voler scrivere deliberatamente la parola Dio con la d minuscola negli stessi brani feuerbachiani in cui essa appare alternativamente sia con la minuscola che con la maiuscola, ritenendo che la “prassi grafica cattolica”, basata sull’uso della D maiuscola e talvolta incautamente adottata anche da pensatori non credenti come per esempio lo stesso Feuerbach, sia «profondamente intollerante e, de facto, totalitaria, proprio nella misura in cui sottintende – tacitamente, ma in modo sistematico e pervasivo – che il vero ed unico “dio vero” sarebbe, appunto, solo quello della tradizione cattolica, mentre tutti gli altri concetti di dio, elaborati dalle altre e differenti tradizioni religiose (cristiane e non), non avrebbero, intrinsecamente, alcun autentico valore veritativo» (ibidem).

E’ raccapricciante, ma è così: questo accademico giudica intollerante, autoritaria, unilaterale, dogmatica, non solo la grafica cristiana e cattolica ma l’intero cristianesimo, specialmente nella sua forma istituzionale cattolica, per il semplice fatto che esso rivendichi di essere custode e depositario dell’unica e vera Parola di Dio, di essere testimone dell’unico vero Dio anche rispetto a tutte le altre confessioni religiose, solo frammentariamente dotate di un qualche valore veritativo ma non di un valore veritativo compiuto, perfetto e definitivo.

Ma non fanno forse la stessa cosa tutte le confessioni religiose esistenti al mondo? Può forse una qualunque fede religiosa, cristiana, ebraica, islamica, induista, buddhista, confuciana, e via dicendo, essere disposta a concedere che il proprio Dio non sia nè superiore, nè inferiore, nè migliore nè peggiore delle divinità altrui, a condividere con altre religioni la verità divina? Non è evidente che l’esistenza stessa di tante concezioni religiose debba spiegarsi proprio con uno spirito di differenziazione piuttosto che di integrazione religiosa e che ognuna di esse muova dal convincimento e dal presupposto che la propria fede, rispetto a quella altrui, rappresenti la più fedele espressione della realtà, della volontà e della verità divine? Che c’entrano qui quelle parole di tolleranza, di liberalità, di antidogmaticità invocate a sproposito da Minazzi?

E non sussiste, peraltro, una dinamica analoga a questa, anche per quanto riguarda la scienza, ovvero il modello più universale di razionalità, apparentemente così cara a questo accademico? La scienza, infatti, integra ma al tempo stesso seleziona i dati, procedendo metodologicamente per prova e disprova, e nella formazione delle teorie non c’è dialettica unificatrice, non c’è sintesi, ma c’è solo separazione, esclusione, scarto di determinati elementi o fatti epistemici rispetto ad altri. La scienza, d’altra parte, è intersoggettiva, collaborativa, partecipativa, oltre che fondata costantemente su una relazione di reciproco condizionamento tra esperienza e ragione, ma, per quanto possa essere ampio il numero di esperti che concorrono alla elaborazione delle teorie e alla scoperta delle verità scientifiche, per quanto possa risultare aperto, serrato, fecondo, pluralistico, il confronto tra i vari punti di vista, tra modelli teorici alternativi, tra strategie rivali di ricerca, è pur vero che, alla fine di ogni ciclo euristico-sperimentale e di ogni programma di lavoro, la stessa comunità scientifica non può evitare di stabilire cosa sia scientifico e cosa non lo sia, o almeno cosa sia più o meno scientifico, e nel pronunciarsi in tal senso, si assume la responsabilità delle sue affermazioni e delle sue scelte, sia in sede teorica che in sede tecnologica e medico-farmacologica, che ad un certo punto diventano definitive e incontestabili, anche se, durante la ricerca, tendano ad affiorare, come non di rado accade, punti virtuali di criticità, che solo il caso e la prassi corrente, e non già la logica e la strumentazione scientifiche, si incaricheranno poi, nel corso del tempo, di confermare o invalidare come essenziali e non omissibili punti epistemici di svolta.

Si dirà però che è proprio questa la dinamica propria dell’impresa scientifica, suscettibile cioè di sempre correggersi, di rivedere e integrare i suoi dati e le sue opzioni, riconoscendosi sempre fallibile, relativa, progressiva e antidogmatica. Tuttavia, pur nell’attribuirsi tali caratteristiche di apertura, pluralità, revisione, la tendenza largamente prevalente del mondo scientifico in ogni epoca storica è pur sempre quella di identificare la razionalità con la razionalità scientifica, di ridurre l’idea del razionale alle sue forme fenomenologiche, di presentare il punto di vista della scienza, e della scienza così come è venuta sviluppandosi e costituendosi sino ad un determinato stadio del complessivo processo storico di sviluppo, come il punto di vista più universale e qualificante della ragione come tale. E’ quello che io contestavo nel 1989 a Reggio Emilia, nel corso di un convegno di studi dedicato ad Antonio Banfi, quando al relatore che aveva appunto sostenuto la superiorità della ragione scientifica rispetto a qualunque altra manifestazione possibile o reale di razionalità, io eccepii: “ma non le sembra che, così argomentando, lei finisca per fare della scienza una dittatura? Sarà ancora compatibile l’asserita struttura democratica della scienza con questa sua vocazione a ritenersi, in modo incontrovertibile, capace di rappresentare e produrre il meglio della razionalità umana? Non c’è il rischio di assolutizzare troppo unilateralmente il valore della scienza?”.

Il relatore era il famoso fisico italiano Carlo Bernardini, il quale, dopo un attimo di riflessione ma senza scomporsi, ebbe a rispondere: “Se la scienza è dittatoriale, non ci possiamo fare niente, fà quello che deve fare”! Possibile commento: la dittatura religiosa non va bene, perché si tratta di fede, di realtà psicologiche, intime, private, di cianfrusaglie metafisiche che non hanno alcun sostanziale significato razionale, mentre la dittatura della scienza è comprensibile e giustificabile alla luce di quello che la scienza dice e fa, sulla base di un criterio logico-sperimentale di verità secondo il quale una certa cosa deve poter risultare o vera o falsa, senza alcuna possibilità di mediazione con il suo contrario o opposto. E’ così che la scienza rende possibile il progresso materiale e spirituale del genere umano. In questo senso, il sapere scientifico conosce inevitabilmente momenti di chiusura coincidenti con le fasi selettive e decisionali del giudizio, momenti di non ulteriore inclusività critico-integrativa, di unilateralità e di discriminazione epistemica soprattutto in relazione ad istanze o ad ipotesi di ricerca solo virtualmente valide ma non ancora verificabili.

Di qui anche un rischio strisciante di autoritarismo, di dogmatismo, di fideismo, di intolleranza, che viene insinuandosi persino nelle pratiche e nei protocolli più sofisticati della ricerca, donde il possibile, periodico profilarsi di un’immagine della scienza non molto più antidogmatica, democratica, pluralistica, tollerante, di quella del sapere religioso o teologico. Questo spiega perchè un ignoto astronomo-matematico greco del III secolo a. C., di nome Aristarco,  dovette attendere circa diciotto secoli prima che la scienza potesse confermare la fondatezza della sua intuizione eliocentrica, e perché in generale proprio un ricorrente e interno fenomeno di radicalizzazione storico-ideologica di scuole e correnti di pensiero, di orientamenti logico-metodologici, epistemologici, tecnologici, dell’universo scientifico, renda di fatto possibile il persistere di insufficienze, errori e ritardi teorico-scientifici non dichiarati e non sempre riconosciuti con tempestività ma reali e soprattutto preclusivi di sviluppi conoscitivi e pratici alternativi a quelli già esistenti e di essi probabilmente più significativi, proficui ed efficaci.

Dunque, se le cose non sono molto dissimili da come qui vengono rappresentate, a prescindere da sempre possibili critiche malevole che non mancherebbero neppure se questa scrittura fosse molto più ineccepibile di quanto forse non sia, non vedo come si possa pretendere di rinfacciare al cattolicesimo una concezione totalitaria, unilaterale, chiusa, arrogante e non dialogica della verità. La concezione cattolica della verità è, in realtà, basata, nel quadro della storia generale dell’umanità, su una storia specifica di pensiero e di fede in virtù della quale diverse generazioni di uomini e donne sono venute formandosi alla scuola di Cristo e della sua Chiesa apostolica, e in questa scuola essi sono venuti apprendendo il significato e il valore del Logos divino, della Ragione divina, della Logica divina della salvezza, che non sono affatto antitetici alle arti e ai saperi umani, alle tecniche conoscitive del mondo storico-culturale né al desiderio e al bisogno di approfondimento critico che sono scritti nella natura stessa del genere umano, ma semmai propedeutici e soprattutto funzionali ad essi e ad un completo, pieno, quanto più possibile vantaggioso estrinsecarsi delle loro potenzialità creative.

Ma chi, per scelta deliberata, resta sordo alle ragioni, pure probabilisticamente fondate e legittime, della fede religiosa e cristiana, non resiste poi alla tentazione di sminuire persino l’opera di colui che, a giusta ragione, è stato unanimemente considerato e celebrato come il padre fondatore della moderna rivoluzione scientifica: Galileo Galilei. Che, francamente, è un approccio critico sospetto allo scienziato pisano, dotato di tratti umani e caratteriali non molto dissimili da quelli dello stesso Minazzi, che, non meno del primo, avrebbe sempre brigato in alcune delle più rinomate corti accademiche italiane, al fine di ottenere una cattedra universitaria del più alto grado, mostrandosi al tempo stesso meschino e avaro di riconoscimenti per studiosi validi quanto o più di lui: nel caso di Galilei, si ricorderà come egli fosse scortese e anzi villano nei confronti di Keplero (il più grande e riconosciuto astronomo del suo tempo), che, dopo averne esaltato le scoperte scientifiche, gli aveva chiesto di inviargli una delle sue famose lenti astronomiche, ottenendo però in cambio solo un silenzio tanto sprezzante quanto ingiustificato. Minazzi, sebbene di statura intellettuale incomparabilmente inferiore a quella del filosofo-matematico pisano, ha molto di questo modo altezzoso e strafottente di porsi nei riguardi di colleghi o studiosi spesso anche più capaci e brillanti di lui. Di conseguenza, può darsi che egli tenti inconsciamente di esorcizzare questo pericolo di essere affetto da sussiegosità intellettuale e da una certa mediocrità morale, destinata peraltro a riflettersi in qualche modo sulla sua attività intellettuale, attraverso una presa di distanza piuttosto forzata da Galileo sul piano filosofico e scientifico.

Forzata, perché non è concepibile che lo si possa tacciare, come fa disinvoltamente il professore varesino, di non essere approdato ad «una concezione relativa e critica della conoscenza scientifica», a causa del fatto che le realtà o gli enti matematici in quanto tali sarebbero dotati di quegli stessi caratteri di assolutezza, immutabilità, eternità e acronicità, generalmente attribuiti al tradizionale concetto cristiano e cattolico di un Dio atemporale e assoluto, nel quale indubbiamente Galilei riponeva la sua fede sincera. E’ infatti vero che, per quest’ultimo, il matematico, la cui mente è pur sempre “opera” del Creatore e “riflesso” della mente divina,  conosce, in senso intensivo anche se non estensivo (intensive non extensive), le cose indagate con il medesimo grado di verità con cui le conosce Dio, laddove per l’appunto, in senso estensivo, si legge testualmente nei “Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo”, «cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo».

Ma non si capisce perché mai in tal modo Galilei, come sostiene Minazzi, avrebbe finito per approdare ad una concezione assoluta e immodificabile della e delle conoscenze scientifiche, quando invece per lui il problema era piuttosto quello di distanziarsi polemicamente da quei criteri e schemi della filosofia medievale della natura che, con quel continuo riferimento a “potenze” e “atti”, a “essenze”, “sostanze” e “accidenti”, e insomma a nozioni metafisiche di stampo aristotelico, avevano reso un pessimo servizio alla causa della scienza della natura. L’obiettivo galileiano, nel momento in cui egli accosta, non in modo assoluto ma relativo, il sapere umano a quello divino, non è l’assolutizzazione della conoscenza scientifica ma semplicemente, e ben più efficacemente, la contrapposizione del metodo matematico, interessato al puro dato quantitativo, e per questo stesso motivo euristicamente ed epistemicamente più esatto e rigoroso di qualunque altra tecnica spuria di ricerca radicata semplicemente nella tradizionale metafisica scolastica di derivazione aristotelica. Il reale diventa intellegibile solo in virtù dell’approccio matematico, non certo in virtù di un approccio metafisico, forse utile per questioni di natura spirituale, ma non certo ai fini di una conoscenza razionale e scientifica della natura.

Il platonismo matematico galileiano è perciò funzionale ad uno smantellamento di tutte quelle teorie o suggestioni metafisiche astruse e improduttive, come anche di tutte quelle pratiche empiriche estemporanee, frammentarie, disordinate anche se talvolta, e sia pure per circostanze del tutto fortuite o casuali, non completamente prive di senso scientifico e di interessanti implicazioni tecnico-conoscitive, che avevano segnato per secoli la scienza medievale, non già ad un tentativo di sacralizzazione religiosa del sapere scientifico e di assolutizzazione della conoscenza matematica. Al contrario di quel che, a causa del loro pregiudizio religioso e anticattolico, sono tentati di pensare Minazzi e compagni scientisti di cordata, la scienza galileiana è una scienza universale ma relativa, approssimativa e sempre suscettibile di revisione, anche se sulla base di princìpi logici e metodologici ben fermi e inderogabili (Sempre utile e istruttivo, sul rivoluzionario apporto della scienza matematica galileiana allo studio scientifico dei fenomeni fisico-naturali  e alla scienza moderna complessivamente considerata, rimane il contributo agile, acuto e rigoroso ad un tempo, come quello di un grande anche se troppo presto dimenticato matematico e accademico italiano: Carlo Felice Manara, La matematica nel pensiero galileiano, in “Nel quarto centenario della nascita di Galileo Galilei”, Milano, Vita e pensiero, 1966,     pp. 103-113, proprio mentre cominciava a delinearsi l’egemonia geymonatiana nell’area degli studi di filosofia della scienza).

Al di là del significato strettamente tecnico della legge galileiana della relatività, secondo la quale l’accelerazione non varia nei sistemi di riferimento inerziali, che sono sistemi che si muovono con moto rettilineo uniforme rispetto ad un altro sistema dello stesso tipo, resta il significato teorico generale della relatività galileiana, significato che può venire articolandosi nei seguenti punti: la scienza galileiana è relativa in quanto, già per quanto riguarda «le matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica», Galilei precisa che di esse «l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni in più, perché le sa tutte», anche se «di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obbiettiva, perché arriva a comprendere la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore» (Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, giornata I), parole in cui francamente non si nota alcun particolare elemento di scandalo, soprattutto alla luce della strategia galileiana di politica della scienza volta a rovesciare i quadri pseudoconoscitivi del vecchio e ancora predominante sistema aristotelico e a liberare definitivamente la ricerca scientifica, per via matematica, dal tradizionale assoggettamento alla metafisica e alla teologia; è relativa, perché dunque c’è sempre molto da conoscere e il conoscere stesso è inesauribile; è relativa, perché essa dipende pur sempre ed esclusivamente da “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni”; è relativa perchè essa, per quanto rechi in sè una traccia significativa della conoscenza divina, è tuttavia imparagonabile per ampiezza ed estensione alla scienza di Dio (laicamente traducibile anche come scienza possibile o come scienza idea-limite); è relativa, perché altro è il sapere finito e progressivo della scienza, il sapere che ha per oggetto solo fenomeni osservabili, sperimentabili, misurabili e quantificabili per via matematica, altro il sapere assoluto ed eterno della fede religiosa, che ha per oggetto le eterne ed assolute verità annunciate da Cristo, sebbene la fede religiosa medesima sorga e si sviluppi non già alla luce di generiche, astratte e indefinite credenze religiose, bensì alla luce di una ben precisa e oggettiva esperienza collettiva della divinità, che ha agito come persona, in una persona o attraverso una persona storica, e della sua prodigiosa opera redentiva che è venuta attuandosi in un determinato spazio e in un determinato tempo della storia del mondo.

Per questo, e sulla base di quella specifica storia salvifica dotata di una consistente base di intersoggettività, la fede in Cristo può rinnovarsi ancora oggi a stretto contatto di gomito con concrete e quotidiane esperienze di vita e con la mente di esseri umani sempre costretta a ragionare e a riflettere. La scienza è infine relativa e per niente immodificabile ed eterna — Galilei non lo dice ma, in quanto credente, non poteva non saperlo — anche perché, come tutto ciò che ha un inizio, anche il suo enorme patrimonio di conoscenze, tecniche, scoperte, è sempre suscettibile di essere annientato e risucchiato nel nulla.

Tutto ciò chiarito e precisato, è altrettanto errato e fuorviante sostenere, ancora una volta sulla scorta del pensiero feuerbachiano, che «l’amore si identifica soltanto con la ragione, non con la fede», non solo perché l’amore, prima di essere un fatto di ragione, muove da un sentimento di fiducia verso la persona o una qualunque realtà che venga prescelta quale oggetto del nostro amore, ma anche perchè è manifestamente gratuito asserire che «l’amore come la ragione, è per sua natura libero, universale», mentre «la fede invece» sarebbe «gretta, limitata». Dunque, anche la fede feuerbachiana nella forza demistificante della ragione e nella causa emancipativa dell’umanità  sarebbe “gretta” e “limitata” o essa, ed eventualmente per quali motivi,  deve considerarsi come una di quelle eccezioni che confermano la regola? Certo, altro è la fede nella ragione storica e immanente degli uomini, altro è la fede in una Ragione trascendente e sovrannaturale non impersonale ma capace di incarnarsi storicamente, e in una Ragione che contenga in sé, per così dire, i codici genetici, ontologici e spirituali dell’umana razionalità, ma, checché ne pensasse il filosofo tedesco, non esiste ad oggi alcuna prova logica ed empirica del fatto che l’intero mondo storico del genere umano, ivi compresa la complessa e articolata razionalità che vi si manifesta, sia autosufficiente e, al di là dei possibili usi terreni cui viene sottoposto, non abbia origini, radici e possibili destinazioni altre ed eterogenee rispetto a quelle di natura storico-umana.

E, in ogni caso, se è certo giustificata la fede nella capacità conoscitiva della ragione, non meno chiare ed evidenti appaiono le ragioni della fede religiosa, la quale, sia nei suoi possibili effetti virtuosi e salutari, sia nei suoi possibili effetti deteriori e patologici, resta saldamente radicata nella più profonda realtà materiale, fisica, psichico-corporea e cerebrale, quindi anche intellettuale, razionale e relazionale dell’uomo. Poiché, d’altra parte, la fede in Cristo non può che approdare ad un’idea di razionalità serena, rigorosa ed equilibrata, non c’è dubbio che solo dove «regna la ragione», regni anche l’amore e che ragione e “amore universale” formino un tutt’uno inseparabile. C’è tuttavia un’obiezione di Feuerbach apparentemente formidabile contro “la fede religiosa positiva”, quella per cui «l’inferno» non sarebbe «stato creato» nè dall’amore, nè dalla ragione, ma dalla fede: non dall’amore perché per l’amore sarebbe “un’atrocità”, non dall’amore che lo ritiene “un assurdo”.

A giudicare da come vanno le cose in questo mondo, si potrebbe forse eccepire che, in realtà, la ragione e l’amore degli esseri umani sono risultati ad oggi storicamente capaci di produrre, insieme a qualche prezioso frammento di sana convivenza e felicità, soprattutto catastrofi, lutti e indicibili sofferenze per una moltitudine di persone e di popoli: scenari, per l’appunto, infernali, che evidentemente non esistono solo nell’al di là. Ma, dal momento che per molti l’inferno minacciato dalle Sacre Scritture e dallo stesso Gesù è incomparabilmente più terribile e doloroso di qualunque possibile o reale inferno terreno, il cristiano può e deve solo limitarsi a chiedere: per quale ragione sostenete che l’inferno non rientri nè in una logica razionale, nè in una logica di amore? La giustizia secondo verità rientra o non rientra nell’etica della ragione e dell’amore? Quando avrete risposto, perchè a queste domande non avete mai risposto in un pubblico e democratico contraddittorio, anch’io continuerò o ricomincerò ad argomentare.

3. Il rapporto della fede cristiana con la ragione e l’esperienza

Per razionalità non si può intendere semplicemente la ragione ridotta alla sua funzione dimostrativa o alla sua capacità di accertamento empirico, in quanto essa è comprensiva anche di ogni forma di esperienza che si riveli vitale per l’uomo, come ad esempio la nitida percezione e la lucida e coerente testimonianza di determinate verità e di determinati valori morali  e spirituali, che nel caso del credente cristiano-cattolico non possono non essere anche e soprattutto verità e valori evangelici. Un punto di vista relativistico dovrebbe riconoscere che anche il credo e l’esperienza dei cattolici esprimano almeno aspetti e significati parziali di quella verità universale che oggi più che mai è venuta caratterizzandosi come verità delle differenze, delle diversità, delle soggettività, e quindi come verità di un mondo pluralistico, articolato e complesso, anche sotto il profilo etico-valoriale.

Ma, di fatto, accade che il relativismo contemporaneo tutto propenda a comprendere e a legittimare tranne che la fede e la cultura cattoliche, alle quali con grande difficoltà viene riconosciuto, nel mondo civile e democratico attuale, quel diritto di cittadinanza molto più facilmente concesso a moltissime altre espressioni del pensiero e del sapere contemporanei: perché, si dice, il pensiero cattolico è dogmatico, autoritario, retrivo e repressivo, e soprattutto irrazionale per via di una sua chiusura aprioristica alle verità e alle conquiste della ricerca scientifica che, passo dopo passo, viene sgretolando quel castello di falsità metafisiche e teologiche che ha da sempre costituito la base, in vero sempre più fragile, di un fideismo sempre più stancamente celebrato dal e nel mondo cattolico.

Qualcosa di vero probabilmente c’è sul piano storico-fenomenologico, ma il pensiero cattolico, molto più variegato e articolato di quanto spesso erroneamente si pensa, non è riducibile a talune sue manifestazioni storiche, alle sue forme fenomenologiche più mediocri o scadenti. Intanto, esso non ha nulla da spartire con quel fideismo proprio di spiriti infantili e immaturi e peraltro tipico non solo del sentire religioso ma anche di tanto presunto razionalismo critico e scientifico; in secondo luogo, la religione cristiana nasce e si afferma storicamente non come una religione tra altre religioni ma come la religione del Logos divino, come la religione di una Ragione non solo universale ma anche trascendente, di una Ragione rivelatasi nella vita e nella predicazione di Cristo, e quindi come la religione dell’unico vero Dio, come la migliore delle religioni esistenti.

Il cristianesimo, perciò, sin dalle origini non mostra alcun interesse ad essere semplicemente integrato, tollerato, in senso sincretistico, nel sistema imperiale romano, in quanto rivendica apertamente, già nei primi secoli della sua storia, la sua superiorità razionale rispetto alle religioni pagane e a qualunque altra divinità. Una rivendicazione del genere non poteva non comportare prima il sospetto, poi l’aperta e violenta persecuzione dello Stato imperiale romano contro i cristiani, accusati di non sentire alcun vero obbligo di fedeltà verso l’imperatore. Molti dei contenuti della religione cristiana, come ad esempio Dio creatore, la Santissima Trinità,  l’incarnazione di Dio, la verginità della madre di Cristo, non erano naturalmente dimostrabili ed erano creduti per fede, ma questa fede derivava non da vaghe e fantasiose credenze, non da fatti inverificabili e inattendibili, bensì dalla concreta, materialissima, corporea esperienza della persona storica del Cristo, che, mentre compieva miracoli, guarigioni, opere sorprendenti, si definiva figlio unigenito di Dio e quindi incarnazione stessa della divinità, parlava del Padre celeste e alludeva alla misteriosa relazione d’amore intercorrente tra sè, il Padre e lo Spirito Santo, non senza affidare infine alla madre Maria il ruolo sovrannaturale di Madre del genere umano.

La fede dei cristiani, in altri termini, era fondata su un dato di fatto inoppugnabile e incontrovertibile, non su fenomeni di allucinazione o semplice suggestione collettiva ma sulla constatazione non fittizia, diretta, immediata, con annesse e connesse esperienze personali di natura psichico-sensoriale, visiva, uditiva, percettiva, e infine anche intellettiva, di accadimenti non comuni, anzi straordinari e inauditi, e tuttavia reali e oggettivi, ivi compresa naturalmente la risurrezione di Cristo che avrebbe impresso un sigillo di eterna validità a tutta la sua opera, dai quali si sprigionava uno scenario del tutto inatteso e sconvolgente di verità e valori inediti e alternativi alle logiche dominanti del mondo.

La fede in Cristo era dunque fondata sulla assoluta certezza empirica e razionale di tanta gente, di diversa estrazione sociale e culturale, circa la natura sovrannaturale della sua persona e la totale affidabilità della sua pur misteriosa dottrina di salvezza. Ecco perché e in che senso non è vero che la fede in Cristo venga sviluppandosi su un terreno completamente privo di elementi o riscontri empirici, fattuali, sperimentali, e solo in un ambito generico e indefinito di coscienza e di intimità personali. Fides ex auditu significa proprio che la fede non proviene dai fantasmi della mente, da elucubrazioni mistiche di spiriti alienati, da forme patologiche o disturbate di ascetismo, ma viene dall’ascolto, da ciò che si è potuto sentire realmente, e, in senso esteso, da ciò che si è potuto vedere, osservare, magari anche toccare, sperimentare in lungo e in largo in tutta la sua carnale e spirituale esistenzialità storica.

L’origine, il punto di forza, lo zoccolo duro che mai potrà essere rimosso, della nostra fede in Cristo, di noi che crediamo, pur se con equilibrato spirito critico, nei documenti e nelle innumerevoli testimonianze della storia cristiana e della stessa tradizione religiosa della Chiesa, sono dati dalla sua base empirica e razionale, largamente e dinamicamente intersoggettiva e pertanto universalmente degna di fede. La fede in Cristo non deriva naturalmente da una pura analisi razionale se si prescinde da Cristo, ma l’“evidenza scientifica” di tale fede è tutta connessa al fatto che le verità dogmatiche da lui annunciate sono fondate sui fatti oggettivi della vita e dell’opera della persona storica di Cristo, sull’esperienza empirica che gruppi e talvolta masse di esseri umani hanno potuto fare ripetutamente dei suoi stupefacenti poteri, dei suoi carismi, dell’attendibilità delle sue predizioni e della validità epistemica almeno ipotetica del suo complessivo disegno escatologico.   

Liberissimi saranno scettici, agnostici, atei di ritenere una semplice “credenza” la fede cristiana, anche per il fatto che essa non sia oggetto di quel principio di “riproducibilità” sperimentale, che è anche uno dei dogmi della scienza contemporanea, benchè, a ben riflettere, appare piuttosto aprioristico per il momento sentenziare che i contenuti della fede cristiana non siano, in alcun caso, in alcun modo e in alcun tempo, anche scientificamente riproducibili; ma, in realtà, la cosiddetta credenza cristiana non coincide affatto con uno di quei contenuti cognitivi che qualcuno definisce “pigri e passivi” per indicare che essi vengono appresi e interiorizzati dal soggetto per motivi di cui esso non sarebbe consapevole, giacchè il motivo e la motivazione ultimi per cui il cristiano ritiene vera o veritiera la sua fede è che essa è radicalmente fondata su una convinzione ragionata, argomentata, e continuamente corroborata dal rigore storico e dalla riflessione critica: che, nella storia del mondo, con Gesù e dopo Gesù, hanno avuto luogo e si sono succeduti accadimenti talmente significativi e rivoluzionari, da non poter alimentare ragionevoli interrogativi circa la natura quanto meno singolare e misteriosa di un fenomeno spirituale e religioso di massa che avrebbe attraversato i secoli fino ad approdare, sia pure depotenziato e marginalizzato, a questo terzo millennio.

Noi cristiani crediamo in Cristo perché giudichiamo, in scienza e coscienza, che la sua figura umana e spirituale non presenta affatto caratteri di inaffidabilità, di insensatezza, di irrealismo e nichilismo religiosi, ma che in essa si viene anzi rivelando sapientemente la concreta e inedita possibilità di un sapere altro da forme ordinarie e abitudinarie, seppure colte e forbite, di ragionamento e di ricerca, di un sapere capace di aprire varchi di infinito nelle cose finite e di vita immortale nei vasti ma pur sempre caduchi e chiusi orizzonti di mortali esperienze terrene. Noi cristiani crediamo in Cristo perché i suoi discorsi come i suoi atti non mortificano ma esaltano la ragione umana, non promettono liberazione ma sono già essi stessi liberatori, quando illuminano e fortificano le coscienze, guariscono o risuscitano i corpi, sempre conferendo senso e valore non solo a vicende personali apparentemente disperate e destinate a sicura rovina ma persino ai contesti storico-mondani in cui sembrano regnare incontrastati e inamovibili l’assoluto non senso e il disvalore più infimo.

Non c’è una sola parola di Cristo che possa essere intesa come critica della ragione umana, della conoscenza, del sapere storico o delle arti mondane in quanto tali, non un suo solo monito che sia diretto a chi faccia uso, senza abusare, dei doni o dei carismi ricevuti da Dio e dalla natura, o a chi si sforzi di capire le cose del mondo e il cuore degli uomini facendo di entrambi profonda e umile esperienza. La sua salvezza non passa attraverso la negazione o la svalutazione della realtà esistente, ma attraverso una non fittizia comprensione di essa, attraverso una capacità di discernimento tra ciò che di essa è utile valorizzare e ciò che è invece necessario tagliare o eliminare. Nè si può ragionevolmente affermare che il sacrificio, la rinuncia, la dedizione che il suo messaggio salvifico indubbiamente comporta, siano in realtà funzionali a logiche penitenziali, repressive, rinunciatarie, e in ogni caso limitative delle capacità etiche e intellettive dei singoli, piuttosto che ad una prospettiva esistenziale in cui attitudini, meriti, competenze, in sostanza il meglio di ognuno, non trovino la loro ragion d’essere in un’esigenza autocelebrativa e puramente istituzionale ma in un serio e proficuo progetto emancipativo di reciproca integrazione, di comune arricchimento, di vicendevole fortificazione intellettuale, morale e spirituale. 

Insomma, a sostegno della “credenza” cristiana, della fede in Cristo e nei suoi insegnamenti, esiste tanta di quella storia e di quella storiografia, di quella formale e informale prassi empirica e razionale, tanto di quel coinvolgimento intellettuale e morale individuale e di massa, di quell’oggettivo e plurisecolare travaglio spirituale e religioso in rapporto a tutti gli ambiti del vivere civile e culturale, che solo gli stupidi, gli arroganti e i tronfi, possono continuare a sostenere che credere in Dio sia irrazionale. Peraltro, può l’infinito lasciarsi scoprire analiticamente, microscopicamente, tecnologicamente da strumenti finiti, limitati, imperfetti di indagine che, pur suscettibili di continui miglioramenti, non potranno che risultare sempre e necessariamente inadeguati al compito?

Non è che Dio non possa essere scoperto: già lui stesso ha pensato di rivelarsi abbastanza per mezzo del suo Logos ottenendo le adesioni di alcuni ma anche, come accade in tutte le accademie, le scuole, le aule, i laboratori e le stesse istituzioni filosofiche o scientifiche del mondo, il disinteresse o addirittura il disprezzo di molti. Dio può essere scoperto a condizione che lo si voglia realmente scoprire, con mezzi e modi inediti e solo parzialmente noti alla scienza acquisita, a condizione che il desiderio di Dio superi il desiderio della scoperta scientifica di Dio. Prima c’è la fede nella realtà oggettiva delle verità divine, e solo dopo può aver luogo un processo di lenta e faticosa scoperta della complessa, articolata e inesauribile identità divina, allo stesso modo di quel che accade nel sapere scientifico, dove prima bisogna aver fede nella conoscibilità del reale per poi procedere alla graduale esplorazione scientifica di esso.

D’altra parte, non si deve credere necessariamente in Dio, ma qui il problema è di capire che credere in Dio, in qualcosa che ipso facto non può essere misurato, calcolato, quantificato, dimostrato, non è affatto credere nell’irrazionale. Ci mancherebbe altro! Il povero Aristarco era un genio ma non potè dimostrare la sua intuizione eliocentrica, e dovette aspettare sottoterra ben 1800 anni per vedersene riconoscere dalla scienza la fondatezza. Per poter dimostrare l’oggettiva realtà del Signore Dio, per poterlo vedere cioè “faccia a faccia”, che è un tema verosimilmente molto più impegnativo di una semplice questione astronomica, sarà o non sarà ragionevole attendere fino alla fine del mondo? Dopotutto, già ora, un’ipotesi scientifica è possibile farla anche per l’entità divina. Se la causa dell’universo è X, bisogna studiare i modi scientifici per decifrare l’incognita; se la direzione e il punto finale di approdo della materia universale è y, occorre studiarla nella molteplicità delle sue dimensioni e delle sue variabili per assegnarle un valore sicuro. E’ troppo semplicistico o troppo complicato? Ma è risaputo che il lavoro scientifico è complesso, difficile, irto di difficoltà! Quanto più dovrà esserlo per raggiungere o ottenere la prova dell’esistenza e dell’onnipotenza di Dio!

La fede, la credenza, ogni tipo di fede o di credenza, non è mai priva di pensiero e di un moto razionale che la volontà può orientare, entro certi limiti, in direzioni diverse o alternative anche se spesso, per il loro identico o insufficiente grado di cogenza veritativa, non sia logicamente possibile decidere se siano vere o false o quale di esse possa essere più vera o più falsa. Chi crede, si tratti dello scienziato che crede nella comprensibilità del reale o del religioso che crede in una dimensione trascendente del sapere e di ogni sfera dell’attività morale e spirituale dell’uomo, pensa, pensa in modo diverso ma pensa con riferimento ad un comune mondo di esperienza, di conoscenza e di valori. Come scrive Agostino nel De praedestinatione sanctorum 2, 5, «colui che crede, pensa … credendo pensa, e pensando crede».

D’altra parte, tanto la fede dell’atto religioso quanto la fede del giudizio scientifico non sono riducibili ad attività puramente intellettiva: nel caso della prima perché è senz’altro possibile e legittimo un argomentare logico-concettuale in funzione dell’esistenza di Dio e di una prospettiva storico-esistenziale in cui la libertà umana sia felicemente condizionata da una ipotetica verità divina, che tuttavia non è ancora suscettibile di essere dimostrativamente e sperimentalmente provata al di sopra di ogni possibile margine di opinabilità, donde la necessità che, ai fini del credere in una realtà divina, il ragionamento sia ad un certo punto integrato da un apporto soggettivo di natura volitiva; nel caso della seconda, perché, se da una parte la conoscenza scientifica si basa su un fecondo rapporto tra ragione indagatrice ed esperienza sensibile o fattuale, dall’altra proprio questo nesso costituisce una condizione vincolante della ricerca scientifica che, pur progredendo cumulativamente e  indefinitamente nella conoscenza delle verità empiriche e fenomeniche e nell’allargamento dei suoi quadri teorici e delle sue congetture epistemiche, è costretta tuttavia ad affidarsi anche ad una grande fatica immaginativa, creativa, in un certo senso metafisica e quindi anche in questo caso volitiva, non più strettamente ancorata a oggettivi dati di fatto ma necessaria per poter continuare ad esplorare possibili o ipotetici scenari dell’universo e di vita trascendenti il piano della datità e dell’evidenza scientifica date ma non per questo necessariamente privi di consistenza logica e sperimentale.

Tutto ciò comporta altresì che la scienza, peraltro ben consapevole della relatività e della provvisorietà ineliminabili di tutte le sue conquiste, dinanzi a ciò che non entri significativamente e realisticamente nel raggio d’azione delle sue concrete possibilità indagatrici e sperimentali, deve semplicemente tacere, e tacere non in quanto il non dimostrabile, il non ancora dimostrabile, non abbia alcun senso, ma nel senso che esso non abbia o non abbia ancora senso scientifico secondo i parametri e i protocolli ufficiali o riconosciuti dalla comunità scientifica. Laddove si comprende, tuttavia, che non tutte le idee o le asserzioni, le metodologie, le tecniche di analisi o le congetture non ancora basate sull’evidenza (not based on evidence) siano per ciò stesso da considerare aprioristicamente come non suscettibili di sviluppi efficaci e volti ad aprire nuovi e sorprendenti varchi conoscitivi alla stessa ricerca scientifica.  

La fede nella scienza non si tramuta, pertanto, in scientismo, vale a dire in dogmatismo e fanatismo scientifici, solo a condizione che la sua complessiva gittata teoretica e cognitiva si limiti alle cose sperimentabili e logicamente dimostrabili, senza pretendere di trarne inferenze o conseguenze logicamente e razionalmente non dovute oppure possibili ma  non necessarie e dunque prive di evidenza veritativa. Allo stesso modo, la fede in Dio, nelle sue verità anche dogmatiche e nei suoi insegnamenti, non si tramuta in ottuso fideismo e quindi in irrazionalismo, solo a condizione che la sua tensione spirituale non preveda programmaticamente né contrapposizioni, né chiusure tra l’ordine delle cose conoscibili per via scientifica e l’ordine delle cose credute vere perché fondate sulla persona e sull’opera storiche di Cristo e sulla “rivelazione” da questi testimoniata, consegnata e trasmessa alla ragione e alla coscienza morale di una moltitudine di popoli e di persone passate, presenti e future. Tali concetti potranno apparire sufficientemente solidi e affidabili solo a coloro che non avanzino la pretesa di ridurre l’idea della razionalità umana all’idea di determinate e sia pure collaudate forme storiche di razionalità scientifica

4. Le ragioni della fede e la razionalità della fede

La fede religiosa non è solo fede di cose sperate, come scrive san Paolo, che però non appaiono, ma è anche fede di cose pensabili in quanto logicamente possibili. La fede cristiana, in particolare, trova certo nella “rivelazione” la sua vera ragion d’essere, il suo fondamento, la sua giustificazione: quindi, si potrebbe eccepire, non è radicata in qualcosa di razionale, in quel pensare per concetti o per mediazioni logico-concettuali che si originano dalla pura esperienza sensibile, che è un aspetto o una facoltà fondamentale e costitutiva della razionalità umana, ma in qualcosa di non sperimentato direttamente e di non scaturito né da processi argomentativi rigorosi, né da un articolato e qualificato confronto intersoggettivo, e in  una delle tante auctoritates di cui la storia della conoscenza umana in generale è sempre stata colma ma di cui si è dovuta anche gradualmente liberare per affinare sempre più le sue stesse strutture epistemiche e i suoi programmi teorico-sperimentali di ricerca e di scoperta. 

Senonchè, l’autore, l’artefice della “rivelazione” è una persona storica in carne e ossa, che ha vissuto e ha agito in un mondo spazio-temporale comune a tutti gli esseri umani, che è stata ritenuta affidabile e degna di essere ascoltata e frequentata da una notevole massa di individui, nonché anche meritevole, e almeno alla pari di alcune grandi “autorità” della storia della scienza, di essere considerata fonte autorevolissima del sapere religioso e della vita spirituale della sua epoca. Né è vero che tale persona, comunque straordinaria, abbia instillato quasi ipnoticamente nel cuore di molti suoi contemporanei una fede non sorretta da argomentazioni e prove, ovvero da un travaglio intellettuale e da un congruo numero di riscontri empirici, perché è esattamente vero il contrario e cioè che il Cristo ha aperto nella mentalità della sua epoca e delle epoche successive, con la sua parola, la sua sapienza, le sue stesse opere, inediti e rivoluzionari orizzonti conoscitivi e innovativi scenari di vita etica e spirituale. Gli apostoli, che più di chiunque altro, sarebbero stati particolarmente vicini agli insegnamenti e agli atti prodigiosi del Maestro, hanno creduto in lui, sia pure tra incomprensioni e incertezze della prima ora, solo per la forza argomentativa e dimostrativa della sua predicazione e la palmare, incontestabile, realistica, anche se misteriosa, veridicità dei fenomeni sovrannaturali cui egli dava luogo.

Non furono persone ingenue, sprovvedute, emotivamente fragili e inattendibili, a testimoniare e a trasmetterci le cose sensazionali di cui, ad opera di Gesù, avevano dovuto prendere atto la loro ragione e i loro stessi sensi, ma spiriti forti e temprati da una singolare e forse irripetibile esperienza di sapienza e di umanità, di audacia intellettuale e profondità spirituale. Sia pure indirettamente, furono l’incarnazione, la morte e la risurrezione del Logos divino ad allargare enormemente il concetto stesso del possibile, a rivoluzionare gli stessi princìpi, le stesse regole e gli schemi del pensiero in generale, ivi compreso il pensiero scientifico, che, nel volgere di circa un millennio e mezzo, avrebbe saputo realizzare invenzioni e scoperte portentose.

Gesù non restrinse la libertà e l’autonomia della ragione umana ma ne allargò notevolmente i confini, perché è con lui che, venendo a dilatarsi enormemente il concetto stesso di realtà, viene gettato nell’aiuola terrena un germe speciale di razionalità destinato a svilupparsi indefinitamente e ad articolarsi in forme sempre nuove, originali e feconde, sia pure tra rischi inevitabili di contaminazione letale.

Dunque, ci sono le ragioni della fede, e quindi la struttura, l’organizzazione, le finalità, la legittimità, le diverse forme storiche, della fede, ma poi c’è anche una dimensione trascendente e sovrannaturale che appartiene congenitamente alla stessa razionalità dell’uomo, non semplicemente ad una razionalità ancora infantile, immatura, superficiale, non evoluta, ma alla razionalità intesa nella sua essenzialità genetico-evolutiva, nella sua struttura psicologico-antropologica, nella sua ramificata processualità storico-esistenziale. La ragione umana è stata sempre colpita dall’ignoto, dal mistero, dagli enigmi della vita, ma le sue reazioni allo stupore che ne deriva non sono mai state unilaterali, uniformi, e ancor meno prevedibili e scontate, ma diversificate, eterogenee, spesso inattese e gravide di ulteriori e feconde aspettative culturali e religiose, in quanto il Cristo ha reso storicamente visibile l’invisibile, percepibile l’immateriale, reale e concreto il possibile e l’astratto, conferendo una perentoria e definitiva legittimazione razionale e spirituale a quel sentore, a quel bisogno, a quella aspettativa di trascendenza che, sin dagli albori della civiltà umana, erano stati espressi in modi non uniformi ma differenziati per modalità e valore, ora in forma inconscia, ora in forma intuitiva, ora in forma via via più riflessiva e sistematica, e sia pure tra persistenti tendenze antropomorfiche e indebite e confuse commistioni mentali tra sacro e profano, dalla complessiva e multiforme attività razionale degli uomini.

La razionalità inaugurata da Cristo è una razionalità larga, indefinita, percorribile non in una sola o in qualche direzione ma in molte e non programmabili direzioni, in virtù della quale può accadere che anche l’inverosimile venga rivelandosi più reale di tante realtà apparenti e ritenute oggettive. Ci sono i dogmi, le specifiche verità di fede, i misteri, certo! Ed è anche logico che ci siano in quanto non si dà forma o ambito di conoscenza e di esperienza, né settore del sapere e della tecnica, né sistema culturale e scientifico di qualunque genere, che non abbiano un loro orizzonte logico-metodologico, un loro confine con connessi e annessi parametri statutari, i loro paletti teoretici, oltre cui i poliedrici e salutari giochi della razionalità umana, lungi dal poter avvenire in forme intellegibili e in modi ordinati e rigorosi, siano inevitabilmente soppiantati da bizzarri, insensati o patologici usi della ragione stessa.   

Non c’è nulla di sensata razionalità umana, di proficua produttività tecnico-scientifica, di geniale e profonda creatività artistica e critico-culturale che, nel quadro del loro variegato e differenziato sviluppo storico-fenomenologico, non abbiano diritto di cittadinanza nell’infinito e pluridimensionale universo di pensiero e di vita quale viene prefigurandosi alla luce del Logos temporale ed eterno di Dio. In linea di principio è così, anche se la qualità di tutte le opere terrene sarà sempre condizionata dal duplice e contrapposto pericolo di una troppo misera spiritualizzazione del mondo e del corpo, secondo un’espressione materialistica leopardiana, e di una troppo misera corporeizzazione della coscienza e dello spirito (società liquida, consumistica, edonistica, scettica e mediatica), e non potrà non passare attraverso il vaglio insindacabile del giudizio divino. Ma la stessa fede, a seconda delle epoche storiche, delle particolari dinamiche ecclesiali e magisteriali, dei prevalenti modelli culturali e spirituali, è soggetta a questi rischi: di essere troppo spiritualizzata, disancorata da bisogni non solo spirituali ma innanzitutto materiali, psicologici, esistenziali, da esigenze vitali di sopravvivenza fisica e morale, da quel complesso e ribollente “mondo della vita” , in cui non è sempre semplice distinguere tra elementi materiali ed elementi immateriali, tra sfera istintiva e sfera razionale, tra forze pulsionali e idealità dotate di ineccepibile senso etico, tra libera ma non abusiva religiosità carismatica e disciplinata ma non burocratica religiosità normativa; oppure di essere troppo corporeizzata, materializzata, mercificata, volgarizzata, mediatizzata, usata e consumata, vissuta come una cosa che, per educazione, per abitudine o superstizione, non può mancare e si deve proprio fare.

Ma se la fede, la razionalità profetica, inattuale, anticonformista della fede evangelica originaria viene coniugandosi tendenzialmente, come oggi accade, con una mentalità sempre più indifferente e apatica di massa, con una razionalità à la page e “politicamente corretta”, con una razionalità laica puramente umanitaria, conformistica e chiusa sostanzialmente all’idea e alla promessa di un Regno di Dio, essa perde il suo valore e la sua funzione anche sotto il profilo rigorosamente etico-conoscitivo, cominciando piuttosto a risultare funzionale a quella logica alienante che tante volte, specie nel corso dell’ottocento, le era stata attribuita. La fede cristiana in se stessa, in sostanza, non è alternativa alla ragione e alla razionalità in generale ma si pone storicamente e dottrinariamente come dimensione costitutiva e orientativa di entrambe, anche nel caso in cui, come accade per tutti i grandi movimenti di pensiero, la si ritenesse oggettivamente bisognosa di approfondimenti, rivisitazioni o ripensamenti volti ad enuclearne e a farne emergere in modo più completo e profondo significati essenziali e aspetti veritativi ancora latenti o inespressi.

In questo senso, dunque, la fede non è altro dalla razionalità ma è espressione di razionalità, è anzi una delle tante possibili strategie di cui la ragione si avvale o può avvalersi nel quadro della sua sempre movimentata e problematica processualità critico-dialettica, che in quanto tale è altresì irriducibile a determinati modelli storici di razionalità tra essi competitivi e impegnati in una lotta fatta di conflitti o di mediazioni per l’egemonizzazione dell’intero sapere.

Piuttosto, se razionalità è messa in discussione di ogni dato esistente, di ogni teoria data, di ogni assetto costituito di sapere o di potere, non c’è probabilmente forma più radicale di razionalità del pensiero religioso cristiano, perché esso da una parte è attenta e analitica osservazione del reale fenomenico ed esistenziale, mentre dall’altra è interrogazione inesausta sulla o sulle sue strutture eidetiche, sul suo senso, sul suo valore; da una parte, è consapevolezza delle cose come sono, dall’altra è domanda su come le cose possono o potrebbero essere. Quanto all’orientamento trascendente di tale pensiero, la sua funzione è innanzitutto quella di sottolineare che problemi, enigmi, misteri non sono solo quelli che pongono il mondo e la vita già in qualche modo conosciuti e sperimentati dagli uomini, ma anche e soprattutto quelli che si riferiscono a mondi e a forme di vita ancora sconosciuti e non sperimentati; in secondo luogo, la sua funzione è anche quella di contestare frontalmente la principale certezza non già del sapere scientifico, le cui relative e provvisorie certezze riguardano solo cose quantificabili, misurabili, calcolabili, riproducibili e sperimentabili empiricamente, ma del pensiero irreligioso e ateistico di tutti i tempi, vale a dire quella per cui non ci sarebbe alcuna possibilità di vita oltre questa vita: che, a ben vedere, è un’affermazione apparentemente veritiera, ma sostanzialmente ingenua, acritica, dogmatica, e più dogmatica della promessa salvifico-escatologica relativa a “nuovi cieli e nuova terra” e ad un banchetto celeste di vita senza fine, in quanto l’autore di questa promessa è colui che, secondo una moltitudine di testimonianze attendibili e significative, senza le quali non sarebbe possibile spiegare né il cristianesimo come grandioso fenomeno storico e culturale, né la sopravvivenza della Chiesa cattolica rispetto a tante catastrofi della storia, ha dato ampia e concreta prova di straordinaria affidabilità e possiede la chiave di tutti i problemi, gli enigmi e i misteri di questo mondo e di qualunque altro possibile mondo esistente.

D’altra parte, le molteplici forme storiche della razionalità, quella “forte”, quella “debole”, quella “liquida” o nichilista, non costituiscono un problema per la razionalità della fede cristiana, nel senso che, in linea di principio e quindi escludendone le degenerazioni ideologiche cui di volta in volta sono risultate e risultano funzionali, tra le une e l’altra non sussistono motivi di incompatibilità, anche perché notoriamente dal punto di vista della fede non c’è niente a questo mondo che non sia ciclicamente e ferreamente sottoposto ora alla prospettiva di una ricerca quanto più universale possibile dei fondamenti e di una elaborazione di grandi visioni del mondo, ora al rifiuto soggettivistico e/o nichilistico di orizzonti forti o fortemente unitari e universalistici se non proprio totalitari oltre che alla rinuncia a porre o a riproporre la domanda sul senso e sul valore delle cose e persino sulle ragioni ultime del nascere e del morire, ora alla legge della relatività e della fallibilità del sapere e dello stesso sapere scientifico. Il cristiano crede che di assoluto ci sia solo Dio, le sue verità altre, le sue realtà escatologiche, e per questo stesso motivo egli non può che essere relativista sulle realtà fisiche e sui sistemi conoscitivi, scientifici e culturali del mondo: non nel senso che, per quanto riguarda il sapere, la cultura, l’etica, il diritto o l’economia, parole come oggettività, intersoggettività, esattezza, verificabilità, universalità, e simili, non abbiano significato e non assolvano, se non illusoriamente, alcuna funzione epistemica e anche normativa, ma nel senso che, per quanto rigorosi, utili o indispensabili al vivere e al progresso del genere umano, persino i paradigmi, i metodi, le procedure e le tecniche più sofisticati, raffinati e precisi, escogitati faticosamente e brillantemente dagli uomini, abbiano la loro cifra più vera nel fatto che la loro perfettibilità rappresenti solo l’altra faccia della loro strutturale e ineliminabile limitatezza o imperfezione.

La storia dei rapporti tra ragione e fede è molto complessa e articolata e probabilmente non si è ancora conclusa. Essa è stata tenuta implicitamente e in qualche misura presente anche in queste pagine finalizzate tuttavia a chiarire essenzialmente un concetto: che, sebbene per convenzione metodologica e culturale si sia soliti operare tra esse una distinzione netta e precisa, assegnando alla ragione il compito di individuare i criteri e le regole più oggettivi e rigorosi delle scienze fisico-naturali, di spiegare i processi logici e psicologici della mente, di cogliere analiticamente il complesso intreccio esistente tra i diversi ambiti del processo storico-culturale, senza presupposti metafisici e senza rinvii trascendenti, e assegnando invece alla fede il campo delle cose sacre, del trascendente e del sovrannaturale, delle pratiche spirituali e sacramentali, delle verità divine, delle realtà soteriologiche ed escatologiche, senza indebite intromissioni in tutti i piani orizzontali del vivere e del sapere storico-umani, in realtà, a livelli più profondi e meno scontati di quelli puramente fenomenici, il rapporto tra ragione e fede è ben più complesso e problematico, ben più intimo e nascosto, ben più “fisiologico” e dinamico di quanto non sia dato credere.

Intanto, va detto che la ragione non può fare a meno della fede, non della fede religiosa ma di un atto di fede, per il semplice fatto che non può fare a meno della fede in se stessa, perché per dare ragione di sé, del suo stesso dare ragione, deve presupporre necessariamente se stessa, deve credere in se stessa. D’altra parte, anche la ragione e le ragioni della fede cristiana necessitano di un implicito atto di fede nella razionalità del Logos divino e del suo dispiegarsi nella “rivelazione del Cristo”, in quanto, senza questo presupposto, la natura della fede sarebbe non semplicemente arazionale, come è ed è normale che sia sul piano dogmatico, ma irrazionale tout court, in quanto sarebbe un evidente controsenso il credere in qualcosa che, per definizione, non avesse alcun senso razionale anche sotto il profilo morale.   

La fede, sia pure con gradi via via diversi di valenza o pregnanza veritativa, è sempre alla base di qualunque espressione, articolazione, configurazione di pensiero: nel caso di una cultura pagana come di una cultura cristiana, di una cultura meccanicistica e immanentistica come di una cultura animistica o finalistica, di una cultura scientifica come di una cultura metafisica e spiritualistica. Ciò detto e ribadito, la fede cristiana, al pari delle conoscenze tecnico-scientifiche, resta saldamente fondata sul terreno della storia, della ragione, dell’esperienza, nascendo da esse, nutrendosi di esse e volgendosi poi a purificarle, a bonificarle, a trasfigurarle criticamente, moralmente e spiritualmente, in funzione di un compiuto e perfetto ordine di verità razionale e giustizia morale, di un mondo di perfezione spirituale, che riflettono la sapienza divina senza tuttavia poterla esaurire in se stessi, essendo la razionalità divina sempre oltre la razionalità umana da Dio creata.

Poco più di un ventennio fa, in un articolo su “Fede e ragione”, pubblicato insieme a Pier Paolo Rovatti su “Aut-Aut”, maggio-agosto 1999, n. 291-292, pp. 10-13, Giulio Giorello scriveva che scienza e religione fossero “inconciliabili”, per il semplice fatto che la scienza è fallibile, la religione è infallibile e che la loro inconciliabilità fosse dovuta, più esattamente, non tanto al fatto che la scienza faccia uso della ragione, mentre la religione sia fondata solo sulla fede, in quanto il rapporto tra ragione e fede, anche per Giorello, non era così schematico e lineare, come qui si è cercato di evidenziare, quanto al fatto che la scienza è fallibile, quindi pur sempre fondata sulle “palafitte”, nonostante la relativa solidità e stabilità delle sue conoscenze, mentre la religione è infallibile, nonostante essa muova dal duplice tema di una colpa originaria che condannerebbe l’uomo ad una condizione di finitezza e non autosufficienza, e di una grazia divina che salverebbe letteralmente l’uomo da una inesorabile disfatta esistenziale. In vero, volendo stringere all’osso il ragionamento sollevato dal filosofo della scienza, si può dire che la scienza è fallibile perché sa che le sue verità non bastano mai a se stesse e ritiene che la verità sia solo relativa e non assoluta, mentre la religione cristiana è infallibile perché presume di sapere che nel Cristo di Dio è possibile o necessario scoprire quello che manca alla permanente incompiutezza delle verità scientifiche e che si diano non solo verità relative ma anche verità assolute. Ma, tutto sommato, la polemica di Giorello sembra spuntata, dal momento che, in ogni caso, spetterebbe pur sempre alla scienza dimostrare che non sia possibile dimostrare logicamente e sperimentalmente, né ora né mai, l’esistenza di alcun Dio e di alcuna verità assoluta.

D’altra parte, ironia per ironia, è risaputo che la scienza dichiara la sua fallibilità solo per rivendicare orgogliosamente se stessa come forma più universale e quindi egemonica di conoscenza, mentre la religione — ma non la religione tout court, come tende a generalizzare il filosofo milanese, bensì, è da ribadire, esclusivamente la religione cristiana, in quanto unica religione radicata nella storia di questa nostra umanità —, pur ammonendo “infallibilmente” sui limiti e sulla miseria dell’uomo e sul suo bisogno di un aiuto sovrannaturale, è ben consapevole di essere solo il prodotto di una umilissima e appassionata ricerca di ascolto e di comprensione anche oltre l’apparire delle cose, la fenomenicità degli avvenimenti, la materialità delle cose visibili e percepibili.

Posta nei termini schematici o scolastici in cui la pone Giorello, la questione del rapporto tra scienza e religione cristiana, comunque, non può che avere come esito la loro opposizione e non c’è dubbio che in questo senso, come ancora egli scrive, possa essere  necessario scegliere: o a favore della conoscenza scientifica o a favore della fede e della conoscenza religiose e cristiane. Ma, in realtà, il ragionamento può essere, in sede logica e storica, anche più ampio e meno spigoloso di quello fatto da Giorello, intanto perché questi avrebbe dovuto ricordare che religiosi e spesso anche cristiani sono stati e sono innumerevoli figure di scienziati moderni e contemporanei (che non sembrerebbe essere proprio un dettaglio di poco conto), ma poi perché mai sarebbe inevitabile cogliere una opposizione o una contraddizione tra quelli che altro non sono che due possibili scenari della stessa attività razionale dell’uomo? Da una parte la conoscenza scientifica che si erge contro ogni tentazione di voli pindarici, dall’altra la fede cristiana, che non ha difficoltà ad accettare questa stessa concezione, e che contemporaneamente propone un’idea di razionalità che non si restringa all’idea di razionalità scientifica stricto sensu e che, alla luce della verificata e non mitica esperienza storica di nostro Signore Gesù Cristo, proponga di orientare lo sguardo critico del pensiero e il timone della vita spirituale verso una possibile e legittimamente ipotizzabile dimensione del mondo e della vita che non risulta ancora suscettibile di essere captata, percepita, sondata, attraverso i rigorosi ma limitati e inadeguati strumenti teorici e tecnologici del sapere scientifico.

Dove sarebbe, dunque, l’opposizione, la contraddizione o l’inconciliabilità? Peraltro, non è dato sapere se e in che misura la razionalità umana potrà ancora potenziarsi e fin dove potrà spingersi o dilatarsi sotto l’aspetto tecnico-conoscitivo, né è dato sapere a quali eventuali e apocalittici catastrofi fisico-astronomici e climatico-ambientali potrebbe andare ancora incontro la storia fallibile di un’umanità che, fino a prova contraria, si sentirà sempre legittimata a cercare anche o soprattutto, per via di razionalità religiosa, la sua salvezza nel Dio crocifisso della giustizia e della misericordia.  Tutto ciò è possibile, perché la fede in Cristo è fondata sulla storia, sull’esperienza e sulla ragione, senza esaurirsi in esse.

Francesco di Maria

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