Antonio Scurati e l’ossessione della visibilità politico-mediatica

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A me la gente supponente e stolta non è mai piaciuta, pur essendo anch’io, come ogni essere umano, “un legno storto”. Sono tentato di pensare che Antonio Scurati, pur celebratissimo da media e confraternite giornalistico-letterarie di sconosciuto spessore morale e intellettuale per quanto disseminate in alcuni particolari ambienti culturali, possa farne parte a pieno titolo. Se accademici come Luciano Canfora e Donatella Di Cesare rivendicano per se stessi, in quanto “intellettuali”, non solo la facoltà di censurare offensivamente una donna politica come Giorgia Meloni, inducendo alcuni osservatori a ritenere che ciò sia dovuto esclusivamente ad un incontrollato e livoroso sentimento di invidia per i sensazionali riconoscimenti internazionali riscossi in poco tempo da quest’ultima in qualità di capo del governo italiano, ma anche una speciale indennità giudiziaria rispetto a procedimenti penali intentati contro di essi, uno scrittore come Scurati, il cui valore intellettuale ed etico-civile non può ritenersi universalmente acclarato solo perché riconosciuto da pur estese corporazioni letterarie, presume di avere una penna così incisiva, tagliente e destabilizzante, da costringere addirittura il governo in carica a “silenziarne il pensiero”.   Continua a leggere

Luciano Canfora, teorico della Gestapo rossa

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A differenza di Giorgia Meloni che, con le sue sole forze, è riuscita a creare dal nulla un partito politico e a farne, in pochi anni, il principale partito politico italiano e di governo, lo storico Luciano Canfora, autore di brillanti e non sempre indiscutibili saggi di storia antica e contemporanea, nell’unica occasione in cui ha tentato di essere eletto nel parlamento europeo per i comunisti italiani (PdCI), cioè nelle elezioni europee del 1999, è andato incontro ad un clamoroso insuccesso. Nella sua vita di storico e di semplice cittadino si è costantemente distinto per aver tentato di ridimensionare fortemente le responsabilità di Stalin, la cui dittatura definiva nel 1994 altamente positiva per l’URSS, nei crimini da questi commessi in tale paese e nell’ambito della stessa storia europea del ‘900. Continua a leggere

Il cristianesimo tra critica gramsciana e nichilismo contemporaneo

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Per Antonio Gramsci, il cristianesimo, prima che diventasse l’ideologia del potere imperiale romano e struttura di potere nel Medioevo, era stato un grande movimento “di sollevazione delle masse popolari”, capace di sopportare lunghi periodi di clandestinità e persecuzione e di innescare al tempo stesso un vero e proprio processo rivoluzionario molecolare di popolo che sarebbe sfociato in una reale “riforma intellettuale e morale” dalla quale avrebbe avuto origine  «la creazione di un nuovo e originale sistema di rapporti morali, giuridici, filosofici e artistici», (A. Gramsci, Il Partito Comunista, in L’Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 154 sgg., pp. 253-254). Alla luce di questo importantissimo riconoscimento storico, la critica antagonistica gramsciana nei confronti della religione cristiana e della Chiesa, dovuta all’«antitesi insanabile» tra trascendenza cristiana e immanenza marxiana, non si sarebbe mai trasformata in intolleranza ideologica o in anticlericalismo, anche in considerazione del fatto che la classe operaia, costituita sia da individui non credenti che da individui credenti, non avrebbe dovuto commettere l’errore di dividersi e di infrangere la sua unità politica nella decisiva lotta contro la borghesia capitalistica (G. Semeraro, I subalterni e la religione in Gramsci. Una lettura dall’America Latina, in “International Gramsci Journal”, 2, 2016, p. 255 e sgg.). Continua a leggere

Aleksandra Kollontaj tra marxismo “irregolare” e femminismo militante

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Che il marxismo abbia contribuito alla storia del socialismo e alla storia del femminismo, non c’è dubbio, come d’altra parte ha contribuito, sotto aspetti non irrilevanti, alla storia sociale e culturale del genere umano, ma il problema è di riconoscere, contrariamente a quanto sembra spesso accadere  nel relativo dibattito, che, nello specifico, la storia del socialismo e quella del femminismo sono storie diverse, spesso antitetiche, in quanto la prima è il portato di una teoria della rivoluzione pensata e proposta nel nome e per conto di un’umanità e di una razionalità “liberate” e “disalienate” in cui uomini e donne si trovino perfettamente accomunati sia pure sulla base di una naturale relazione dialettica peraltro intercorrente tra tutti gli esseri umani, mentre la seconda viene sviluppandosi non solo e non tanto come espressione di un antagonismo economico e socio-culturale del genere femminile, quanto soprattutto come espressione di un antagonismo femminile di natura psicologica e sessuale nei confronti del genere maschile o, comunque, alternativo a modelli socio-culturali di tipo, per così dire, “tradizionali”1. Ciò non toglie che, almeno nella prima metà del ‘900, alcune grandi personalità femminili come Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, Inessa Armand, Sylvia Pankhurst, e appunto Aleksandra Kollontaj, si sforzassero lealmente, sia pure con esiti diversi da caso a caso, di rendere funzionale il loro femminismo, formalmente diverso da forme di femminismo liberale, ad un’idea di comunismo non afflitto da forme latenti di rivendicazionismo e conflittualità di genere. Continua a leggere

Per una filosofia della carità

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Il fondamento logico ed etico-teologico del concetto cristiano di carità è dato dall’incarnazione e dall’umanizzazione di Dio, dal fatto che la divinità si svuota dei caratteri di assolutezza, onnipotenza, eternità e trascendenza, pure ad essa riconosciuti dal giudaismo e dal cristianesimo ortodosso, configurandosi per ciò stesso come principio di mitezza, di affabilità, di carità. Dio, quindi, più che sovrannaturale e intransigente manifestazione di giudizio e di giustizia in rapporto al mondo e all’uomo, esprime la sua vicinanza, la sua prossimità, la sua amicizia, in sostanza la sua carità verso l’umanità finita, debole e sofferente. La stessa rivelazione, pertanto, consiste essenzialmente nella rivelazione di Dio come pura e semplice carità. Questa era l’interpretazione filosofica che del cristianesimo, circa venticinque anni or sono, dava Gianni Vattimo, teorico del pensiero debole (G. Vattimo, Credere di credere. E’ possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Milano, Garzanti, 1998. Una provocazione per la riflessione teologica è stata definita l’intera elaborazione filosofica di Vattimo, tra gli altri, da C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo, Roma, LAS, 1999, che interagisce criticamente con l’analisi corrosiva del filosofo piemontese, anche se non sostenuta da una adeguata conoscenza del pensiero filosofico e teologico cristiano-cattolico), senza tuttavia rendersi conto di proporre un approccio interpretativo molto limitativo e deficitario, perché fondamentalmente emotivo e sentimentale, al complessivo e articolato significato della Parola di Dio e del messaggio evangelico. Continua a leggere

Giovanni Gentile oggi: filosofia, politica, religione

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    1. L’apologia idealistica del pensiero operata da Giovanni Gentile non appare destinata ad avere un destino storico-filosofico di gloria per la semplice ragione che ciò che il teorico dell’attualismo è venuto esaltando non è il pensiero inteso nella vasta gamma delle sue potenzialità critiche ma una semplice, univoca e dogmatica forma di pensiero, verosimilmente incapace di rendere conto della proteiforme complessità della realtà e del sapere1. Ed è molto difficile che il pensiero gentiliano, non necessariamente a causa dell’ostinata adesione di Gentile al «partito dei vinti della storia», possa ancora influire sulla cultura italiana del XXI secolo e dei secoli a venire nella stessa misura in cui, godendo di una posizione politica di assoluto e preconcetto privilegio, potette influire sulla cultura nazionale dei primi decenni del secolo scorso2.Tuttavia, esso merita di essere ripensato criticamente perché se, sotto l’aspetto logico-linguistico-metodologico, appare irrimediabilmente anacronistico e inutilizzabile, e sul piano politico e ideologico il suo orientamento non può più essere equivocato3 dal punto di vista pedagogico, etico-civile e filosofico-religioso, appare ancora ricco di suggerimenti, spunti, provocazioni utili a rideterminare il grado di validità o di insufficienza teorico-pratica e spirituali di alcuni fondamentali paradigmi della vita civile e culturale di questo tempo. Continua a leggere

L’idea di nazione e di governo patriottico in Antonio Gramsci

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Sin dal 1928, quando viene condannato dal tribunale fascista a circa vent’anni di carcere, Gramsci è un comunista antidogmatico e democratico, convinto che il verbo comunista dovesse respirare con le anime di tutte le sue componenti storiche, di tutte le forze teorico-pratiche che vi si riconoscessero. Il comunismo, per lui, aveva nel liberalismo un presupposto imprescindibile, nel senso che il suo potenziale rivoluzionario, sul piano sociale ed economico, si sarebbe potuto pienamente esplicare solo ove gli ordinamenti giuridico-politici ed istituzionali liberali avessero già costituito un dato di fatto. Era tuttavia intransigente sulla fedeltà da prestare ai princìpi e ai fini programmatici del partito, ai valori etico-politici che ne erano a fondamento, e sulla integrità e coerenza morale con cui occorreva interpretare il proprio ruolo di militante rivoluzionario. La grande intelligenza teorico-politica, l’ingegnosa duttilità tattico-strategica,  si coniugavano in lui perfettamente con l’appassionata e coraggiosa vocazione missionaria ad onorare e a dare compimento, a qualunque costo, alla propria fede politica e alla propria causa di liberazione umana. Continua a leggere

La Shoah: male assoluto o male funesto ma relativo?

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Il male assoluto, secondo Hannah Arendt, consiste nell’uccisione, nella deliberata o pianificata eliminazione fisica non solo di politici, criminali o soggetti comunque colpevoli di aver violato gravemente qualche fondamentale legge dello Stato o qualche importante principio morale, di aver commesso gravi reati contro le persone o una determinata collettività, ma anche di gruppi di «innocenti in ogni senso», di tutti coloro che, in Germania, dopo il 1938, «per una ragione qualsiasi estranea alle loro azioni, erano caduti in disgrazia»: gli ebrei in primis, gli zingari, gli omosessuali, ogni genere di minoranza atipica. Il male assoluto è un male non riconducibile ad alcun principio di razionalità morale e giuridica, di razionalità tout court, perché è semplicemente irrazionale, mostruosamente irrazionale, non tanto condannare a morte qualcuno ma soprattutto condannare qualcuno a morire tra indicibili e orribili torture e strazi volti a privarlo della sua dignità, della sua stessa natura umana. Continua a leggere

Populismo come antitesi o come fattore costitutivo della democrazia?

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Liberissimi di pensare che una democrazia governativa di tipo tecnico e apolitico, governi populisti promossi da spinte popolari di natura tendenzialmente plebiscitaria, costituiscano deformazioni della democrazia che la spingerebbero a travalicare i limiti della carta costituzionale e ad imboccare la strada di regimi dittatoriali. Ma non altrettanto liberi di pretendere che, qualunque forma politico-governativa venga assumendo la democrazia, sulla base di libere e pacifiche determinazioni delle masse popolari e dei loro rappresentanti e nei limiti del rispetto formale delle leggi e delle regole costitutive dell’ordinamento democratico, possa non essere compatibile con il metodo e il sistema democratici di vita politica.  Ancora più arbitrario e contraddittorio con lo stesso assunto di una originaria purezza democratica è l’idea che una vera democrazia, oltre che su libere elezioni, dovrebbe poter contare anche sulla facoltà istituzionale degli elettori di esercitare un controllo continuo, ossessivo, asfissiante sull’attività del governo in carica e, nel caso, di esigere un ritorno alle urne, perché ad un governo, tranne che non venga operando scelte politiche e amministrative inequivocabilmente e reiteratamente dannose e antitetiche ai legittimi interessi del popolo, occorre dare il tempo di porre in essere, in misura sufficientemente ampia, il proprio programma, prima che i cittadini abbiano la possibilità di valutarne, non per capriccio ma con precisa cognizione di causa, pregi e limiti, e di ritenerne eventualmente necessaria la sostituzione con una diversa compagine politico-governativa. Continua a leggere

Il dolore tra senso e non senso

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Non condivido il pensiero di chi ritiene che, per poter parlare di dolore, occorra innanzitutto non trovarsi coinvolti contemporaneamente in una situazione personale di vita particolarmente dolorosa, non solo perché la presenza del dolore non impedisce necessariamente all’intelletto di farne un’analisi lucida e rigorosa proprio o anche mentre si sta soffrendo, ma anche perché per una parte dell’umanità il dolore è compagno talmente stabile di vita da obbligarla non solo eventualmente a recriminare contro esso in quanto fenomeno non contingente ma strutturale, ma a riflettere quanto più criticamente possibile sulla o sulle sue cause, sulla o sulle sue ragioni d’essere nella vita degli esseri umani e, in modo specifico, in quella di uomini e donne particolarmente sensibili tanto sul piano intellettivo quanto su quello morale e/o religioso. Perciò, non condivido neppure l’affermazione per cui l’amore sarebbe necessariamente «il contrario del dolore», quasi che non si possa soffrire, in un senso nobile, per amore (Il bersaglio polemico di questa parte iniziale del presente scritto è, in particolare, Giuseppe Ferraro, Il dolore, nel sito “Filosofiafuorilemura.it”, 5 febbraio 2014). Continua a leggere