Altro è morire credendo in Dio e nell’unico, vero Dio, che è il Dio di Gesù il Cristo, altro è morire non credendo né al Dio cristiano, né a qualunque altra divinità. Nel primo caso, si muore con una fondata speranza di risurrezione, fondata in quanto ancorata alla promessa di una persona storica che, con la sua vita e la sua opera, sarebbe parso degno a intere generazioni di essere amato e adorato come Signore assoluto della storia del mondo e dell’umanità; nel secondo caso, si muore in ogni caso consapevoli di non poter più vedere la luce né per assistere alla conversione di una vita terrena di sofferenza e rinuncia in una vita perennemente appagante e festosa, né per scoprire che la vita vissuta nel quadro della precedente esperienza terrena venga eventualmente tramutata in una vita inestinguibilmente oscura e infelice. Tuttavia, la morte esiste solo come concetto non sperimentato e non sperimentabile, con la sola eccezione di Cristo. Essa è un’astrazione, mentre solo la vita è reale, eterna e immutabile1. In via ipotetica, la morte, per il cristiano, è la fine di un ciclo di vita ma non della vita tout court, è anzi l’immersione battesimale in un misterioso e oscuro varco trasformativo di nuova nascita, mentre per il non credente è semplicemente l’ingresso in una terra cimiteriale di non ritorno alla vita. Quanto ai credenti non cristiani, il loro stesso Dio resta giudice del destino di vita o di morte immortali di cui essi potranno essere resi eternamente partecipi. Continua a leggere
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Quale morte?
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Il tempo degli universali, sembra decretare il pensiero postmoderno, è finito per sempre. Non c’è più nulla, né conoscenze, né sentimenti, né valori, che possa sussistere al di fuori dei suoi condizionamenti storici, politico-sociali, culturali, per cui tanto la conoscenza che l’etica o la stessa fede religiosa continuano ad assolvere una funzione pragmaticamente ed esistenzialmente critico-orientativa nei limiti di una autoreferenzialità soggettivistica, relativistica, pluralistica, ormai eretta a paradigma egemonico, corrosivo di qualsivoglia genere di certezza metafisica o epistemologica, della razionalità contemporanea. Di conseguenza, non sembra poter avere più senso interrogarsi sul senso della vita o della storia, ma al più sui sensi possibili che, per via soggettivistica, potrebbero essere conferiti all’una e all’altra, benché anche in tal caso non perderebbe la sua incisività esistenziale la massima nietzscheana per cui, se vivere è soffrire, sopravvivere è trovare un senso nella sofferenza1. Se il mondo non ha più, come in passato, un senso predeterminato o predeterminabile, si ricreano per gli esseri umani le condizioni di una loro reale libertà d’azione, in quanto ognuno potrà decidere di vivere e agire in conformità a significati e a valori individualmente e liberamente scelti. Dal senso ai sensi della vita e della storia: questa è la traiettoria che caratterizza la cultura del nostro tempo2. Come dire, e non in senso necessariamente polemico: che ognuno abbia facoltà di pensare e di vivere come meglio gli aggrada! Continua a leggere
Dio non tollera altri olocausti dopo quello ebraico: né contro altri popoli né, ancora una volta, contro Cristo
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Se non sono criminali un capo di stato e i suoi più diretti collaboratori che non esitano ad affamare letteralmente la popolazione di uno Stato ostile, peraltro da sempre virtualmente in guerra con lo Stato da essi rappresentato, e ad ostacolarne l’assistenza umanitaria, non astenendosi infine da attacchi reiterati e intenzionali contro i civili, allora bisogna riscrivere il dizionario della lingua italiana e di tutte le lingue del mondo. Con tali accuse, la Corte penale internazionale ha giustamente ritenuto di considerare Benjamin Netanyahu e il capo dell’esercito israeliano “criminali di guerra” spiccando contro di essi un ordine di cattura in tutti gli Stati in cui essi dovessero metter piede. Per me, credente cattolico e seguace del vangelo di Cristo, non sussistevano dubbi, anche prima di questa sentenza, circa le gravissime responsabilità etico-civili, politiche, religiose e penali, dello Stato d’Israele che, per quanto oggettivamente assediato dal terrorismo palestinese e islamico, non è evidentemente legittimato dalla pur tragica esperienza storica dell’Olocausto, a ricorrere all’arma dello sterminio e della vendetta sacrificale a danno dei suoi nemici. Mi spiace per Giorgia Meloni che ha fin qui dimostrato, a dispetto dei puerili e isterici attacchi ricevuti dall’inetto fronte democratico-progressista e da istituzioni statuali con questo collusi, di essere uno dei capi di governo più capaci, risoluti e lungimiranti della storia repubblicana italiana dal dopoguerra ad oggi, ma la sua pur comprensibile prudenza diplomatica nei confronti dei vertici politici israeliani è assolutamente ingiustificata e anche politicamente dannosa, checché se ne possa invece pensare al riguardo, soprattutto alla luce dell’odierna condanna penale dell’Aia. Netanyahu è un criminale come Putin: l’unica attenuante del primo rispetto al secondo, è che la Russia semina terrore e morte in Ucraina da circa due anni dopo aver unilateralmente e ingiustificatamente invaso l’Ucraina, mentre lo Stato israeliano semina da circa un anno distruzione e morte in Palestina, violando tutte le regole del diritto internazionale oltre che basilari princìpi di umanità, dopo aver subito l’efferato e inescusabile attacco dei terroristi palestinesi, pur spinti a compiere un’orribile strage di persone innocenti da ragioni storiche non certo incomprensibili di odio profondo verso un popolo che dal ’48 ad oggi, attraverso i suoi governi legittimi, non fa altro che esercitare una volontà spietatamente imperialistica a danno della popolazione palestinese. Ma tale attenuante, se la si voglia considerare tale, non giustifica affatto il piano di “soluzione finale del problema palestinese” che Netanyahu, non meno di Hitler, oggi vorrebbe attuare in pieno XXI secolo. Continua a leggere
La morte per suicidio
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Per i cristiani, la vita umana, qualunque tipo di vita umana, dalla più rigogliosa e fortunata alla più spenta e sfortunata, dalla più virtuosa e lungimirante alla più perversa e ottusa, dalla più geniale e creativa alla più stolta e distruttiva, dalla più integra e santa alla più corrotta ed empia, è sempre da rispettare anche se non sempre da assecondare ed emulare. Per forme di vita fisicamente o psichicamente imperfette o precarie, per i malati, i disabili, i folli, i moribondi, i fragili, i deboli, essi hanno o dovrebbero avere, poi, una particolare predilezione psicologica e spirituale, senza peraltro mancare di spirito di carità verso chiunque versi in condizioni di disagio, di malattia o di pericolo. Ma, al di là dei giusti e doverosi sentimenti di spiccata vicinanza umana e morale che non solo cristiani e soggetti credenti ma anche non credenti o atei potrebbero e dovrebbero essere in grado di coltivare ed esercitare rispetto ai simili più svantaggiati e bisognosi, non c’è dubbio che la caratteristica essenziale di una vita normale, di una vita dotata di tutte quelle facoltà psichico-intellettive che la rendano tale anche al di là di possibili o eventuali menomazioni, sia quella per cui la vita trovi la sua più specifica o distintiva peculiarità nel suo sussistere come vita razionale, come vita secondo ragione, anche in funzione della possibilità/necessità di porre rimedio nel miglior modo possibile ad errori ordinari di giudizio e comportamento o ad atti deliberatamente illeciti o immorali1. Continua a leggere
Per una teoresi fenomenologica della morte
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Cosa c’era prima di nascere? Niente, o almeno niente di minimamente percepibile da parte di un embrionale essere umano. E cosa c’è dopo la morte di un essere umano che sia nato, abbia vissuto potendo fare uso di ragione, e sia morto? A questa domanda non è logico rispondere nello stesso modo, cioè niente, ponendo sullo stesso piano lo stato di prenascita, in cui peraltro il nascituro è incosciente, e lo stato di post mortem, semplicemente perché se, da una parte, non è mai accaduto che alcun individuo riferisse alcunché su un’esperienza antecedente la nascita, la stessa cosa non può sostenersi per il dopo-morte, sia perché i morti non possono parlare né comunicare in alcun modo con i vivi, sia perché non è possibile immaginare cosa direbbero se ne avessero la possibilità. Se accada o non accada qualcosa, se si dia o non si dia una qualche esperienza di qualcosa dopo la morte, in sede logica non è possibile dirlo: può darsi che il morto giaccia per l’eternità nella sua condizione di inerziale e putrescente immobilità oppure che egli torni misteriosamente a vivere o riacquisti una qualche inimmaginabile forma di vita. Da un punto di vista strettamente logico-teoretico, non ancora informato e consapevole dell’evento cristiano, si danno solo queste due possibilità, senonché a correre in soccorso dell’ipotesi di immortalità è, lo si voglia o meno, appunto quella che è stata registrata e recepita storicamente come la più straordinaria esperienza della civiltà umana, ovvero la predicazione e l’opera, e soprattutto la risurrezione di Cristo non documentata nel suo compiersi ma, aposteriori, legittimamente deducibile dalle documentate e reali apparizioni di Gesù all’indomani della sua morte1. Continua a leggere
La morte e i massoni
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L’iniziato massonico accetta la morte come “rito di passaggio”, di passaggio dalla vita profana, cioè non vissuta massonicamente1, ad una vita spirituale inondata da una luce puramente intellettuale e spirituale che è principio e tramite di “rinascita”, di “vera e nuova vita” e di “salvezza”. Tuttavia, solo coloro che, durante la vita terrena, si saranno spesi, in stretta comunione di sentimenti e di intenti con i fratelli delle varie logge, naturalmente sottratte all’influenza delle Chiese e in particolare della Chiesa cattolica, a favore della libertà, della tolleranza, della solidarietà e dell’amore verso i propri simili, potranno accedere per l’eternità a quell’Oriente Eterno, a un qualche al di là non meglio precisato, che, per la filosofia libero-muratoria, non coincide necessariamente con uno stato esistenziale di natura fisica o materiale: di quale “involucro”, se corporeo o non corporeo, si cingerà il fratello defunto nell’altro mondo, non è dato sapere, ma quel che è certo è che egli continuerà a sopravvivere alla sua morte. E’ significativo quanto si viene elusivamente argomentando in Logge di più antica e sicura tradizione: «Con la morte termina il corpo fisico. Che fine fa tutto il bagaglio di animico e spirituale che ci accompagna? C’è una parte di noi che può dirsi puro spirito, ma anche una parte composta da sensazioni, sentimenti: questa seconda componente muore oppure no? Non importa rispondere, importa invece rivolgersi al nostro interno e lavorare per cambiarci». Di sicuro vi è solo la certezza razionale che nella dimensione dell’eterno non vi saranno né premi, né castighi, che alcune religioni hanno inventato per tenere sottomessi i loro fedeli2. Continua a leggere
Tra la vita come morte e la morte come vita
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Si danno nella vita degli individui e nella storia dei popoli esperienze di vita cosí terribili, traumatiche, laceranti, disumane, da indurre molti degli individui e dei popoli che le subiscono o ne sono vittima a desiderare e a preferire una morte immediata o molto ravvicinata alla loro possibile o eventuale sopravvivenza. Quando il singolo essere umano o una determinata comunità etnica, popolare, nazionale o religiosa, sperimentano, in forme reiteratamente umilianti e dolorose, la violenza del tutto ingiustificata di propri simili o di altri popoli o comunità, senza mai avere la possibilità di reagire adeguatamente e difendere almeno in parte la propria dignità e i propri diritti a veder riconosciuta o rispettata la propria identità e la propria libertà di scelta, è certo comprensibile che essi, percependo la vita corrente come una realtà avvilente e insopportabile, siano portati a desiderare la morte non solo istintivamente ma anche esistenzialmente, ritenendola un male definitivo ma di sicuro inferiore a quello consistente in una vita priva di senso e di speranza1. A volte, ma più raramente, tale desiderio di morte trova la sua esecuzione in pratiche suicidarie personali, di gruppo o di massa, altre volte, nella maggior parte dei casi, si accompagna alla vita di chi lo coltiva mestamente fino all’ultimo dei suoi giorni oppure si converte, sublimandosi, in offerta sacrificale di vita al Dio biblico-evangelico della giustizia e della misericordia. Continua a leggere
Sì, quei giudici sono fascisti. Stralci dell’odierna arringa difensiva tenuta oggi a Palermo dall’avv. Giulia Bongiorno a favore dell’onorevole Matteo Salvini
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«I confini, e lo dico convintamente, lungi dall’essere strumenti di discriminazione sono lo scudo della pace. Se chiunque potesse entrare in Italia senza regole e senza controlli, nel nostro Paese regnerebbe il caos e la violenza. Chiedo per Matteo Salvini l’assoluzione perché il fatto non sussiste … Open Arms ha avuto innumerevoli possibilità di fare sbarcare i migranti ma ha opposto innumerevoli, innumerevoli, innumerevoli rifiuti. Ha scelto di bighellonare anziché andare nel suo Stato di bandiera. Dobbiamo uscire dalla logica che è tutto un diritto. Una cosa è un diritto, un’altra è la pretesa. Esiste un diritto allo sbarco, non esiste il diritto di scegliere dove e come farli sbarcare e chi fare sbarcare. Mi sono chiesta perché se c’erano tutte queste opzioni hanno scelto di non andare in Spagna … Nell’agosto del 2019 il ministro Matteo Salvini sì stava combattendo una battaglia, ma certamente non contro i migranti. Gli atti di questo processo documentano che i migranti sono stati aiutati, assistiti, tutelati. La Guardia costiera si mise in ginocchio. Salvini stava combattendo una battaglia contro chi confonde le pretese e i diritti. Ma usare a sproposito il termine diritto è molto pericoloso, innanzitutto per i diritti. Non esiste il diritto di bighellonare per due settimane con i migranti a bordo pur di non ottemperare un divieto. Non esiste il diritto di rifiutare le indicazioni degli Stati delle zone di ricerche e soccorso. Non esiste il diritto di scegliere dove, quando e come fare sbarcare i migranti e quanti migranti. Non esiste il diritto di ignorare le offerte di aiuto, né quello di rifiutare ogni soluzione … Ho ricordato in questo processo delle pagine nere: soprattutto quella in cui l’Italia in ginocchio chiede alla Spagna come può offrire aiuto e la Spagna risponde ‘Buona notte’, una buona notte sarcastica. Infine una terza pagina che reputo nera è il video in cui Oscar Camps dice: ‘Sono felice non perché sbarcano i migranti, ma perché è caduto il ministro Salvini. Salvini è caduto’». Continua a leggere
Riflessioni per una concezione non riduttiva della morte
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Non è sufficiente rimuovere la morte dalla nostra quotidianità per espellerla dalla nostra esistenza: la morte può essere tenuta a distanza dalla nostra psiche solo entro certi limiti dal momento che gli eventi della vita sono così contraddittori, incalzanti e spesso drammatici da consentire ad essa di tornare ad insinuarsi continuamente nella propria interiorità e di generarvi frequenti momenti di turbamento e smarrimento che l’io tenta di placare con forme di falso o illusorio benessere. In realtà, per quanto ci si sforzi di neutralizzarne la presenza, la morte risulta umanamente ineludibile rendendo necessarie alcune strategie di difesa, non di pari valore spirituale ed efficacia pratica, dalla sua minacciosa incombenza1. Alcune di tali strategie muovono da domande quasi spontanee e sensate: perché l’essere umano, pur sapendo che la morte coincide con la graduale e poi definitiva decomposizione del corpo, fin dalla preistoria è portato a credere in una vita dopo la morte? E perché esso, pur temendo costantemente la morte e di restarne vittima da un momento all’altro, è tuttavia non di rado capace di affrontare la morte per il bene dei propri cari, per la fedeltà alla patria o al proprio Dio? Perché, pur cosciente di essere mortale per natura, l’individuo non riesce generalmente ad adattarsi, sul piano etico-culturale, sul piano di quella che Pascal chiamava la «seconda natura», alla verità mortale della sua specie? Perché è esistenzialmente cosí faticoso rinunciare alla propria individualità e alla volontà di sopravvivenza quanto più possibile prolungata nel tempo, benché essa talvolta venga violata da stati oltremodo ossessivi di angoscia e da atti suicidi? Continua a leggere
La morte tra filosofia e fede
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Per Platone, la filosofia è un esercizio di morte o di preparazione alla morte, al momento in cui l’anima potrà finalmente distaccarsi dal corpo e lo spirituale liberarsi dai pesanti e grevi condizionamenti della materialità dei sensi: la morte, dunque, come fine di una lunga prigionia a causa della quale la spiritualità umana è come privata della libertà di realizzarsi pienamente e la stessa esistenza umana è solo espressione di vita apparente ma non di vera vita. Già, ma cosa accadrà con la morte, quando essa sarà sopraggiunta? In che modo concretamente la vita spirituale dell’uomo potrà pienamente esplicarsi, potendo finalmente estrinsecarsi al di là di ogni possibile condizionamento fisico, ambientale, storico-sociale? Si potrà dare un’intelligenza pura, incontaminata, trasparente, delle cose al di fuori della corporeità, dell’esperienza sensibile, dell’emozionalità, delle passioni, o non si rischierà di perdere del tutto persino quella limitata, difettosa, approssimativa e tuttavia utile e confortevole conoscenza del reale resa possibile dalla vita terrena? Continua a leggere