Pensiero della settimana

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«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno», dice il peccatore pentito. E Gesù gli risponde: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23, 42-43). Allora: c’è Gesù e c’è un regno, c’è un paradiso, un luogo non terreno chiamato paradiso; Gesù ne è il Signore incontrastato, Gesù ha un regno, il più potente dei regni esistiti o esistenti, e il suo regno è un regno spirituale ma è anche un regno materiale con tanto di invincibili legioni angeliche e il peccatore gli chiede di ricordarsi di lui non semplicemente quando si sarà ricongiunto con il Padre, ma quando entrerà appunto in quel regno che non potrà mai finire. Quel che non si capisce è perché certi presbiteri, certi prelati più o meno alti, certi eminenti ecclesiastici, sentono sempre più frequentemente il bisogno di dematerializzare il più possibile il regno di cui parla il Cristo e di fare del paradiso non anche un luogo con tanto di luce e scenari straordinari, di odori, di suoni, di sapori, di esaltanti esperienze conoscitive e visive, tattili, uditive, gustative, ma semplicemente un simbolo di spiritualità, sicchè alla domanda cos’è il paradiso, questi dottissimi ma infedeli interpreti della Bibbia, convinti di dare prova di purissimo e disinteressato amore per il loro Signore, finiscono per dare una risposta infallibile ma ambigua: il paradiso è stare con Cristo. Ma, spiegano, ciò significa che esso non è un luogo ma solo uno stato, una condizione spirituale. Infallibile risposta, certo, ma non molto esplicativa e soprattutto meno concreta e precisa, anzi ben più evasiva di quella inequivocabilmente emergente dai sacri testi e dalle stesse parole di Gesù che, dotato di un infinito potere spirituale, è anche fonte di un infinito potere materiale e promette non vita spirituale ma vita tout court, vita integrale, vita totale, vita in pienezza. Gesù, se è venuto a salvare la carne, i corpi degli esseri umani, evidentemente deve essere venuto a salvare anche la luce, i colori, i suoni, i sapori, i gusti, le emozioni, la sensibilità di cui quella carne e quei corpi constano e da cui, nella loro specifica realtà, essi non possono separarsi se non per non esistere come tali, ovvero come corpi sensibili ma finiti in terra e come corpi trasfigurati e immortali in cielo, ovvero come corpi gloriosi non più soggetti a peccato, malattia, dolore, morte. Dire che il paradiso consiste semplicemente nello stare con Gesù significa dire il vero a condizione che tale concetto venga implicando lo stare non solo in un generico e astratto stato di beatitudine ma anche in un luogo spiritualmente e materialmente, moralmente e sensorialmente idoneo a favorire ogni genere di beatitudine, ogni genere di effettivo e lecito godimento esistenziale. Quando Gesù, prima di morire crocifisso, afferma solennemente: «da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio» (Lc 22, 18), è evidente che allude al vino, a quell’inebriante frutto terreno e segno di allegria e di gioia conviviale, di festa, che avrebbe dovuto segnare il ritorno dell’umanità nelle braccia del Padre e l’inizio della sua vita immortale. Sarebbe potuto morire Cristo sulla croce solo per regalare all’umanità uno stato dell’anima? Ma in cosa consisterebbe questo stato dell’anima? In una semplice condizione estatico-contemplativa o in che cosa? La vita eterna, promessa da Cristo, non può essere ridotta a un semplice, ambiguo e insignificante stato dell’anima. Questo è un concetto ancora platonico, non cristiano. E’ un concetto completamente antitetico all’evento evangelico-escatologico della risurrezione dei corpi. Chi identifica il paradiso con uno stato piuttosto che con un luogo, ma si dica pure con uno stato e nient’affatto con un luogo, ancora non ha compreso che la carne è morta senza spirito ma che lo spirito è una pura e insulsa astrazione senza carne, senza sarx. Si sente dire spesso che il paradiso avrebbe un significato più esistenziale che spaziale ma esso, se non è anche un luogo, un universo, per quanto molto diverso dagli universi astronomici di nostra conoscenza, non può avere alcun significato esistenziale, perché la vita è processo vitale, è svolgimento, progresso, e tutto ciò non può aver luogo in modo puramente etereo, immaginario, simbolico, ma solo all’interno di un qualche contesto materiale, relazionale e situazionale. Viene il dubbio che quanti mettono in dubbio il paradiso come luogo, come vita attiva, dinamica, in movimento, in fondo non credano realmente nella vita del mondo che verrà, come recita il credo niceno-costantinopolitano, e, ancor meno, nella risurrezione dei morti. Che il mondo che verrà sia un mondo sovraspaziale, sovratemporale, sovrastorico, non c’è dubbio, ma questo non significa che esso sia privo di determinate dimensioni, configurazioni, leggi o assetti, che esso non abbia orizzonti, ambienti, spazi anche se completamente inediti e diversi da quelli terreni, spazi per esempio in cui i risorti abbiano la facoltà di passare attraverso i muri o le porte. Tra mondo naturale e mondo sovrannaturale sussisteranno evidentemente profonde differenze quantitative e qualitative, come si evince anche dal fatto che nel primo si muore mentre nel secondo non si può morire, ma, in entrambi i casi, si tratta di mondi, con le loro strutture, i loro processi, le loro dinamiche, la loro interna organizzazione. Se si vuol fare professione di vera fede, di realismo evangelico e non di «chiacchiera pseudo-devozionale» o «delirio mistico», bisogna essere persuasi che, rispetto a questa vita ordinaria, anche noi saremo quell’oltre rappresentato da Gesù il Salvatore, anche i nostri corpi, se Dio vorrà, «godranno della docilità che il suo corpo manifestò in vita (camminare sulle acque, comandare agli spiriti immondi) e soprattutto dopo la sua morte (sepolcro vuoto, lini piegati, apparizioni di un non-fantasma, epifanie di un non-ologramma). E’ la buona notizia, la vittoria sulla morte, che la chiesa contemporanea non ha sempre il coraggio di attestare, per timore di critiche da parte di uno scientismo supponente e per il vistoso privilegio pastorale concesso ad iniziative di carità terrena» (P. Sequeri, D, Bonazzoli, F. Manzi, E la vita del mondo che verrà, Milano, Ed. Vita e Pensiero, 2024).    

Francesco di Maria

 

 

 

Jacques Ellul, un cristiano “anarchico” al servizio di Dio

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Gli anarchici sono atei e nemici dello Stato, i cristiani sono credenti e non demonizzano lo Stato se non nel caso in cui esso, travalicando i legittimi poteri istituzionali che è tenuto ad esercitare nell’ordine delle cose temporali e quindi per il soddisfacimento delle necessità materiali e civili della collettività amministrata, intenda infrangere legislativamente i comandamenti di Dio e imporre pratiche sociali e condotte di vita contrarie alla fede e al culto, interferendo direttamente o indirettamente nella vita spirituale dei sudditi o dei cittadini. D’altra parte cristiani e anarchici, da un punto di vista storico-dottrinario, si detestano reciprocamente. Ma il filosofo francese Jacques Ellul, convertitosi al cattolicesimo dopo una prima, giovanile esperienza marxista e antifascista, in una delle sue ultime opere avrebbe ritenuto di poter trovare significativi punti di contatto tra pensiero anarchico e pensiero cristiano nella opposizione di entrambi alle autorità storiche costituite e nella loro avversione al potere politico-statuale1. Verso la fine degli anni ’30, il giovane professore universitario di diritto, si sentiva ancora marxista o, almeno, vicino alle posizioni di Marx, in particolare alla sua teoria dell’estinzione dello Stato, benché il pensatore di Treviri, diversamente da quel che molti suoi epigoni, anche in pieno novecento, avrebbero inteso, e da quel che allo stesso Ellul parve allora di capire, non all’estinzione dello Stato amministrativo o Stato dei servizi avesse fatto riferimento ma a quella dello Stato politico2. Continua a leggere

Un’immagine esistenzialista della fede: Jean Paul Sartre

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Se l’esistenzialismo heideggeriano è un esistenzialismo ontologico e metafisico, l’esistenzialismo sartriano è un esistenzialismo umanistico e storico-fenomenologico nel senso che, al centro dell’esistenza, non è un qualche essere indefinito e pensato come suo presupposto e scopo, ma l’essere stesso dell’uomo come individuo dotato di bisogni materiali e relazionali, di attitudine naturale alla socievolezza, di vocazione alla vita politica e sociale, di propensione ad esercitare la sua libertà nei confronti dei molteplici condizionamenti del suo orizzonte esistenziale e il suo impegno etico a favore della propria e altrui libertà, perché è attraverso l’altro e il diverso da sé che può venire definendosi il proprio io e risulta possibile lottare per il perseguimento di ciò che ancora non è e non sarà mai abbastanza l’essere compiuto, il bene compiuto, che si vorrebbe1. L’uomo non ha una natura predeterminata, non ha un’essenza che preceda la sua esistenza, cioè il suo tirarsi fuori da forme preordinate o precostituite di esistenza, perché la sua natura non è definibile aprioristicamente ma solo nel corso del suo farsi, del suo agire. Prima di vivere, egli non è nulla, nulla di precostituito. La natura umana non è prima dell’esistenza umana ma è o può definirsi solo una natura acquisita. L’esistenza individuale è un’esistenza relazionale e intenzionale che crea mentre distrugge, che inventa sempre nuove possibilità di esistenza nel porre continuamente in discussione le forme già date di esistenza, che elabora valori inediti e originali attraverso una critica e un superamento di quelli esistenti in quanto predeterminati nella loro staticità e inautenticità. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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La parabola del figliol prodigo, oggi giustamente rinominata come parabola del padre misericordioso dall’autorità biblico-teologica cattolica, in realtà può essere applicata almeno a tre diversi e ipotetici casi, che sono però caratterizzati dalla stessa dinamica relazionale, quella dell’improvvido o ingiusto abbandono: un figlio abbandona il padre, non malvagio o dispotico ma amorevole verso i figli e rispettosissimo della loro libertà, per affrontare in piena autonomia di coscienza e azione, e al di fuori di ogni diretto o indiretto condizionamento paterno, la vita e il mondo verso cui si sente chiamato; un battezzato in Cristo, e membro della sua Chiesa universale ovvero cattolica, a un certo punto della sua vita lascia la chiesa locale che aveva frequentato durante l’infanzia e l’adolescenza, sentendosi da essa non compreso e non valorizzato spiritualmente e compiendo tuttavia l’errore di recidere per lungo tempo i legami con la comunità ecclesiale non solo in senso psicologico e relazionale ma anche in senso dottrinario e sacramentale; un essere umano, una creatura si allontana da Dio e dalla sua legge reclamando maggiore libertà di pensiero e scelta in rapporto a quelli che vengono soggettivamente percepiti non solo come desideri ma proprio come bisogni inderogabili della propria esistenza personale. Quel figlio, dopo aver fatto esperienza del mondo esterno come esperienza di gran lunga più soffocante e frustrante della precedente e più familiare esperienza, capisce di aver operato una scelta sbagliata e per niente affettuosa e rispettosa nei confronti del padre, e sia pure di un padre tanto amorevole quanto autorevole e moralmente intransigente e non esente da limiti e difetti, e si prepara, pertanto, a chiedere perdono per il suo riprovevole o almeno ingeneroso comportamento con la speranza di essere riaccolto nella sua famiglia d’origine. Quel battezzato, pur potendo dar prova finalmente delle sue capacità, del suo ingegno e della sua sensibilità, al di fuori della comunità religiosa di appartenenza e in altri ambiti della vita civile, come l’università, il mondo del lavoro e dei non regolamentati scambi interpersonali e ancora un mondo affettivo e sentimentale libero da doveri o obblighi di tipo confessionale o patriarcale, ad un certo punto si rende conto che l’aver potuto sprigionare energie intellettive ed emotive prima represse o bloccate, o quanto meno troppo rigidamente disciplinate, non abbia coinciso con la svolta sperata e non abbia ancora costituito quella pur sperata opportunità di realizzazione personale che avrebbe dovuto consentirgli di superare il suo precedente stato di mancata integrazione nel mondo, e allora decide di tornare umilmente ai vecchi ambiti parrocchiali e comunitari di vita per onorare il Signore sia pure nei limiti in cui gli fosse stato consentito dal prossimo e da Dio stesso, comprendendo che probabilmente non tanto l’educazione familiare, né l’educazione e la formazione religiose ricevute in parrocchia, né ancora i rapporti interpersonali avuti prevalentemente in essa e indubbiamente angusti e limitativi, quanto alcuni altri fattori non ancora precisamente individuati dovevano aver costituito la causa principale della sua mancata capacità di comunicare e interagire proficuamente con gli altri e il mondo. Infine, quella creatura, che, al di là di pur non trascurabili condizionamenti esterni, decide deliberatamente di allontanarsi da Dio e dal suo insegnamento, rivendicando il diritto di appagare tanto i suoi desideri psico-fisici quanto le sue molteplici esigenze ed aspettative esistenziali, comprende che non esiste esperienza umana e spirituale più faticosa ma anche più soddisfacente e un insegnamento più gratificante e salvifico di quelli che possono essere acquisiti, vissuti e conosciuti restando nell’orizzonte della sapienza o del logos e della passione o della croce di Cristo. E, al suo ritorno nella casa del padre, da questi si sente dire: “sono felice che tu, attraverso una libera, concreta e intensa esperienza di vita, abbia continuato a trovare nel mio amore e nel mio spirito di giustizia la base e lo scopo della tua esistenza e a riconoscermi come Padre insostituibile e necessario, ma devi tener presente, da oggi in avanti, che se un padre giusto e veramente affettuoso, per esser tale, non può sempre essere come un figlio o una figlia lo vorrebbero, questi ultimi dovrebbero mostrarsi felici e grati di poter somigliare, sempre più o meglio possibile, a un padre saggio e misericordioso che tenga al bene dei suoi figli prima e più che al loro immediato o facile consenso”.

Francesco di Maria

Pensiero della settimana

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Spesso i credenti, di fronte ad improvvise tragedie che colpiscono soggetti ritenuti manifestamente malvagi, sono tentati di credere che essi abbiano potuto subire una giusta punizione divina, mentre, se a restare vittime di fatti drammatici o spiacevoli sono persone ritenute innocenti o addirittura oltremodo integre e caritatevoli, essi si mostrano disorientati e sgomenti per non aver provveduto Dio a proteggerli da un destino crudele. Non è che Dio non abbia facoltà di punire i malvagi e di salvare retti e mansueti anche durante la vita terrena: la Bibbia presenta numerosi episodi in cui la giustizia divina viene concretamente manifestandosi a danno di alcuni e a beneficio di altri. Ma non è questo il significato prevalente della logica divina, a cui certo non è estraneo lo spirito di verità e giustizia ma che non è preposta ad infliggere, durante l’esperienza terrena, severe condanne a stolti e ad empi oppure a dispensare vantaggi o benefici ai poveri in spirito. E’ proprio questo il monito di Gesù: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? […] O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?». Quanto ai giusti e ai santi, basti riflettere sulla sua stessa vita e, soprattutto, sull’esito della sua presenza e della sua opera salvifica tra gli uomini, per rendersi conto che persino chi sia pieno della grazia di Dio e a lui gradito può andare incontro ad un destino di disperazione e di morte. Il credente non è o è sperabile non sia un ingenuo o uno sprovveduto che non sappia riconoscere colpe o trasgressioni contro Dio e contro gli uomini, ma non può e non deve pensare che Dio non dia tempo e modo persino ai peccatori più recidivi, a tiranni o a criminali, di pentirsi delle efferatezze compiute, o che, d’altra parte, si preoccupi di togliere ogni affanno e ogni evento doloroso o luttuoso a quanti sinceramente confidano in lui. Il credente deve certo impegnarsi affinché nessuno procuri gravi danni ad altri o sia artefice di iniquità meritevoli di condanna divina e umana, e in tal senso non può e non deve esimersi dal giusto discernimento e dall’onesto ed equanime giudizio. Ma ciò non comporta né deve comportare evangelicamente, sia pure nei limiti dell’umanamente possibile, la propensione ad esprimere facili, disinvolti e tassativi o definitivi giudizi nei confronti di chicchessia, si tratti di individui verso cui saremmo disposti a coltivare sentimenti di stima o di amicizia o, al contrario, di individui che suscitino in noi un istintivo o immediato senso di repulsione o di disprezzo. Piuttosto è vero che chiunque, peccatori presunti o peccatori reali, si attardi a vivere in uno stato di peccato e a ritardare continuamente la propria conversione non potrà che sperimentare la morte eterna. Questo sì, questo corrisponde realmente alla giustizia divina. Il Signore è paziente e benevolo verso tutti: verso chi ha già sprecato molteplici opportunità di fare il bene e di ritornare a Dio, perché potrebbe ancora essere capace di fare il bene con uno straordinario atto di amore o con il sacrificio stesso della sua vita, non meno che verso chi si sia già speso o impegnato in opere non meramente abitudinarie o ritualistiche di carità, di bene e di conversione. Ma, prima o poi, il fico che non porta frutto non può che rivelarsi inutile, più che cattivo, e incapace di dare senso alla sua esistenza e gloria alla sapienza e all’amore divini. E, allora, dovrà essere tagliato.

Francesco di Maria

Carl Gustav Jung: un’immagine del cattolicesimo

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Carl Gustav Jung

Secondo Jung, la nostra anima è chiamata ad operare nel corso di un’intera esistenza, con dinamiche inconsce e consce ad un tempo che le sono costitutive, una sistematica reintegrazione del senso della vita. Nel 1917, pensa ancora che Dio non sia dimostrabile razionalmente, per cui esso corrisponde a una funzione psicologica di origine e natura cosmica, una funzione di architettura del senso, in virtù della quale la psiche ha bisogno di creare qualcosa che resta al di fuori della vita personale dell’io1. Negli anni successivi, ovvero tra gli anni venti e trenta, sostiene tuttavia di non credere nell’esistenza di Dio ma di sapere che Dio stesso esiste, di saperlo per via di esperienza personale e professionale, allorché egli avrebbe avuto innumerevoli volte modo di notare quel che succede ai pazienti e alle persone in genere, quando di fronte a momenti di crisi, di grave smarrimento, qualcosa in loro chiede, cerca, propone, al di là della loro sfera razionale o volitiva, una nuova organizzazione, nuove possibilità di significato o architettura del vivere. Proprio in occasione di una celebre intervista, antecedente appena di un anno la sua morte, ebbe a dire: “Adesso lo so. Non ho bisogno di credere“, argomentando che non avrebbe mai potuto “credere” alcunchè sulla base dell’autorità e dell’insegnamento della tradizione, ma semplicemente per via empirica e scientifica, e, nel caso specifico, sulla base dei fatti e delle prove che veniva osservando e raccogliendo come medico tra i suoi pazienti, che sono portati generalmente, all’indomani di vicende particolarmente dolorose e traumatiche, a desiderare, ben oltre il ragionevole e il possibile, il recupero o il ripristino di stati oltremodo soddisfacenti di vita2. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Quanto più si è in comunione con Dio, quanto più si entra in contatto intimo con Dio, tanto più ci si trasfigura, tanto più si è inondati di luminosa gloria divina, tanto più la nostra vita si apre ad un processo di divinizzazione. Il momento di maggior comunione con Dio è dato dalla preghiera, dal reiterato, insistente e fiducioso atto di fede in Dio, nonostante tutte le paurose incognite che gravano sulla nostra esistenza. Ma la preghiera, beninteso, deve essere intesa come apertura del cuore alla volontà di Dio ancor più che richiesta pure legittima di accondiscendenza divina ai nostri bisogni e alle nostre quotidiane necessità, e non certo come semplice abitudine o come ultima risorsa cui si ricorra quasi scaramanticamente nei momenti difficili! Spesso, nel pregare il Signore, ci capita di covare nell’animo un desiderio di quiete, di serenità, di pace che vorremmo rendere permanente, che vorremmo perpetuare, e allora, come Pietro, vorremmo costruire delle capanne per metterci in esse al riparo, in compagnia del Cristo, dalle incertezze, dalle minacce e dalle sofferenze del mondo. A volte, come Pietro, anche noi siamo tentati di cercare una fede comoda, disimpegnata, fatta solo o prevalentemente di emozioni, ma stare in compagnia di Gesù non significa aspirare a fuggire dalla dura realtà quotidiana e dalle croci del vivere, soggiacendo alle nostre illusioni e ai nostri timori, bensì disporsi all’ascolto e alla comprensione della sua parola e del suo insegnamento salvifici: «E dalla nube uscì una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”!». Dalla nube, cioè dalla misteriosa e gloriosa presenza di Dio-Padre, viene un invito non solo e non tanto ad apprezzare e ad agognare sentimentalmente la figura del Figlio unigenito, ma a non equivocare il senso della sua funzione salvifica e quindi a capirne e a seguirne realmente il messaggio e i santi precetti. Cosa ci fanno Mosè ed Elia in compagnia di Gesù? Sono lì a ricordare la passione e la risurrezione di Cristo, ovvero il suo esodo dal dolore e dalla morte alla gloria e alla vita che si sarebbe compiuto a Gerusalemme. Dunque, la pur gloriosa Trasfigurazione è l’evento evangelico attraverso cui viene manifestandosi il vero e più profondo senso del piano salvifico di Dio: la gloria della risurrezione può raggiungersi solo passando attraverso l’accettazione, pur sofferta e lacerante, della sofferenza e della morte nel compimento quanto più sincero e coerente possibile della volontà divina.      

 

 

 

 

Immagini della fede e mitezza evangelica*

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*In questo scritto è incluso il breve articolo del 7 marzo 2025, intitolato “La fede tra arte religiosa e arte tout court”, che pertanto non comparirà più come articolo a sé stante

Mosé e il roveto ardente

La fede medievale celebra la grandiosità del divino: basti pensare allo straordinario fervore artistico che si sarebbe manifestato tra l’XI e il XIV secolo, alle gloriose cattedrali, alle imponenti e solenne  chiese abbaziali e romaniche progettate e costruite dai monaci occidentali, e da essi concepite soprattutto per esprimere e rappresentare il tema più sentito di quelle epoche, vale a dire quello del Cristo come giudice universale, come sovrano onnipotente, giusto e misericordioso, circondato dai santi e dai beati dell’Apocalisse e pronto a dispensare eterna beatitudine o eterna dannazione. Alle cattedrali romaniche si sarebbero aggiunte, tra XII e XIII secolo, quelle gotiche, più slanciate verticalmente e più luminose, e la maggiore altezza dello spazio interno delle cattedrali veniva a fungere da sprone alla preghiera dei fedeli, essendo essa stessa espressione di composta ed estatica preghiera, e da traduzione architettonica di struggente anelito delle anime verso Dio. Di tutta questa grandiosa e suggestiva spiritualità partecipava l’intera comunità cristiana e civile, con i suoi potenti e i suoi umili popolani, con i suoi dotti e i suoi molti incolti, che però erano tutti indistintamente istruiti nella fede. Ma le cattedrali gotiche erano particolarmente ricche di un’arte figurativa dedita ad illustrare sapientemente e realisticamente gli episodi evangelici, dalla nascita alla glorificazione di Cristo risorto, tra cui in particolare quelli legati alla Passione di Cristo che favorivano e acuivano enormemente la percezione della sua umanità e della particolare vicinanza di Dio alla condizione di sofferenza delle sue creature. Molto ricorrenti erano anche le immagini della santissima vergine Maria, rappresentata come sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa, e privilegiata compartecipe della gloria di Dio. Continua a leggere

Pensiero della settimana

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Piaccia o non piaccia all’attuale pontificato, stando al testo originale greco, che riproduce fedelmente il testo in aramaico, è Dio stesso, lo Spirito Santo, a spingere Gesù verso la tentazione, a portarlo verso la tentazione, a sospingerlo nel bel mezzo della tentazione diabolica: “kài mè eisenènkes hemàs eìs peirasmòn”, recita il testo originale greco, dove peirasmòs significa tentazione, prova, potremmo anche dire test, ovvero non spingerci, non portarci proprio dentro la tentazione che è più forte di noi, che è più potente della nostra debole volontà; noi questo lo riconosciamo, senza di te, Signore, siamo solo alla mercè del peccato, del vizio, della perversione, di ogni possibile iniquità: dunque non indurci a fronteggiare situazioni che ci vedrebbero irrimediabilmente perdenti ma aiutaci tu a resistere, a non essere troppo succubi delle tentazioni della nostra vita, del nostro stesso io  …  non indurci a desiderare né potere, né ricchezza, né celebrità, né sesso, né ammirazione, e non indurci ad innamorarci di noi stessi, anche se fossimo giusti, misericordiosi, santi, perché in tutti questi ambiti e casi saremmo e spesso siamo degli sconfitti. La formula “non indurci in tentazione” nei secoli alla Chiesa è sempre parsa un po’ scandalosa, giacché è difficile pensare che Dio possa indurre l’uomo a qualcosa di cattivo: lo stesso Gesù non fu forse indotto in tentazione da Satana proprio contro il suo Padre celeste? Perciò, la Chiesa ha cercato sempre di riesprimere e reinterpretare in termini più accettabili tale formula e oggi una delle traduzioni più accreditate sembra essere quella che suona “non abbandonarci nella tentazione”, sebbene, anche in questo caso, non si capisca per quale motivo il Signore dovrebbe quasi sadicamente abbandonare i suoi figli nelle prove più difficili e sfibranti. Del resto, se ci si scandalizza di questa espressione del Pater (non indurci in tentazione), forse ci si dovrebbe scandalizzare ancora di più della frase pronunciata da Gesù sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!”, perché è molto difficile pensare che Dio Padre possa abbandonare suo Figlio Unigenito nel momento più tragico della sua vita terrena.

 

 

 

 

Emmanuel Mounier, paradigma esemplare ma incompiuto di laicità cattolica

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Emmanuel Mounier (1905-1950)

Emmanuel Mounier già nella prima metà del ‘900 parlava di una crisi così profonda della fede cristiana e cattolica da definirla, sia pure con tono interlocutorio, come una vera e propria “agonia del cristianesimo”1. Anche per questo, ben lungi dal condividere “il sogno europeistico” di tre grandi statisti cattolici come Adenauer, De Gasperi e Schuman, che a molti era apparso prodromico del perseguimento di un ideale cristiano come nuovamente capace di fungere da cuore pulsante dell’Occidente, egli non avrebbe mai creduto nella ricostituzione di un’Europa cristiana, scorgendo nella società europea troppi segni evidenti di scollamento tra le cristiane e cattoliche pratiche di pensiero e di vita e la fede dei Padri. Continua a leggere