Per un’economia del buon senso

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E’ vero che, come va ripetendo da mesi in modo martellante Matteo Salvini (leader della Lega), ben sette premi nobel hanno criticato l’euro, quasi tutti in tempi non sospetti, ritenendo la moneta unica una soluzione del tutto inadeguata al corretto e proficuo funzionamento dell’economia europea, ma è altrettanto vero che nessuno di loro ha mai suggerito ai paesi membri dell’Unione Europea, e in particolare a quelli periferici e maggiormente in difficoltà, di uscire dall’euro, tanto che, per dire la verità, lo stesso Salvini,

in una dichiarazione del 17 dicembre del 2013, si mostrava ben più avveduto di quanto non sembri in tante sue apparizioni televisive in cui si lascia prendere la mano dalla polemica politica: «sull’uscita dalla moneta unica non abbiamo la bacchetta magica, non c’è niente di semplice…L’alternativa possibile è un’Europa con due monete, attraverso un’uscita concordata con Francia, Spagna, Grecia, i paesi più massacrati dai tedeschi».

Contrariamente ai 7 nobel che, pur criticando l’euro, non se la sono sentita di consigliare né una permanenza né un’uscita dall’euro, e soprattutto un’uscita unilaterale di qualche paese, molti altri economisti occidentali non esitano ad avventurarsi sul difficile terreno delle previsioni, sul quale molte volte hanno miseramente fallito, e a sostenere ora le ragioni favorevoli, ora le ragioni contrarie all’euro stesso, anche se rispetto ad un passato neppure troppo lontano le fila dei no euro sembrano oggi ingrossarsi a dismisura.

Quello che stupisce è che, nonostante la crescente opposizione “scientifica” e politica all’euro, nei palazzi della politica e della finanza europee, nonché in gran parte ancora del mondo massmediatico che le sostiene o alle quali è asservito, si continui ad ostentare disprezzo verso tutti coloro che vorrebbero la dipartita della moneta unica e magari il ritorno alle monete nazionali. Stupisce ma sino ad un certo punto, perché se è ben strano che molti pretendano di mantenere in vita un sistema monetario che non solo non funziona ma che un crescente numero di persone avversa sempre più vigorosamente, dall’altro appare sempre più chiaro che il problema di decidere se mantenere o abbandonare l’euro non è affatto un problema di natura economica e finanziaria ma di natura squisitamente politica.

Qui ormai è la politica e non l’economia che deve prendere posizione e operare di conseguenza, e beninteso una politica non sottomessa o asservita alle teorizzazioni economiche: aver lasciato che l’economia e ancor più la finanza prendessero il netto sopravvento sulla politica per più di un decennio, è stato un errore fatale per la vita economica e sociale di molti popoli europei a cominciare dall’Italia.

E’ del tutto illogico, innaturale, che a stabilire cosa si dovesse o si debba fare siano gli economisti o i politici trasformati in semplici esecutori degli economisti e di determinati economisti piuttosto che di altri. Una scienza economica pura non esiste, è solo una colossale mistificazione; quella che serve al politico responsabile e preparato è l’economia politica, non l’economia, ed ogni volta che si preferisce la seconda alla prima si producono solo disastri per la vita delle popolazioni. E’ il politico che deve dire e stabilire che cosa si deve fare, quali obiettivi occorre perseguire, quali finalità devono ispirare un’azione di governo, mentre il compito dell’economista è solo quello di indicare come programmi, obiettivi e finalità della politica possono o devono essere coerentemente e proficuamente perseguiti.

La buona politica è quella che sbarra il passo all’economia e alla finanza tutte le volte che esse pretendono di dettare l’agenda politica degli Stati, per il semplice fatto che l’una e l’altra sono strumenti della politica e non viceversa, tranne che nel caso in cui la politica per l’appunto sia cosí demente o corrotta da accettare tutti i possibili diktat economici e finanziari.

D’altra parte, i primi a dimostrarsi incapaci di capire le cose economiche, la natura dei processi economici reali, sono spesso e volentieri proprio gli “esperti”, come impietosamente stanno a dimostrare i fatti dell’ultimo decennio. Per quale motivo poi ci si dovrebbe accodare a questa o a quella scuola economica, quando si sa benissimo che, per la natura stessa delle delicatissime materie che trattano, proprio le scuole economiche sono particolarmente esposte alle corpose e deleterie pressioni di lobbies e gruppi finanziari di ogni genere?

La verità è che con questa moneta unica basata sull’attuale assetto europeo di potere economico-finanziario non è mai stato e comunque non è più possibile sperare di risanare le economie nazionali del sud Europa che ne hanno anzi ricevuto terribili danni, e che d’altra parte, se bisogna uscirne, occorrerà trovare il modo migliore, ancora una volta politico, per uscirne senza eccessivi traumi, fermo restando che, qualunque soluzione venga adottata, non potrà risultare mai perfetta o definitiva.

Più in generale è il complessivo modello di Europa, fortemente accentrato e burocratico, che sembra mostrare chiari limiti già da un punto di vista metodologico, nel senso che il metodo del “vincolo esterno” imposto alle economie dei paesi membri della Unione Europea non si è certo rivelato utile alla loro espansione ma semmai al loro progressivo impoverimento. In un suo recente volume l’economista Luigi Zingales (Europa o no, Rizzoli, 2014) pur molto critico verso il modello sociale e di sviluppo dell’Italia, lo ha scritto con molta chiarezza anche se francamente con un incomprensibile ritardo, dal momento che già all’atto di nascita della UE non era difficile capire l’inconsistenza e l’inefficacia di tale metodo. Comunque, come si suol dire, meglio tardi che mai, soprattutto in un momento storico in cui molti sono ancora gli economisti che si attardano in una difesa ideologica dell’Europa e della sua moneta e che, cosí facendo, pretenderebbero mettere le loro braghe teoriche ad una realtà economica sempre in movimento e ben più complessa delle “categorie scientifiche” in cui la si vorrebbe imprigionare.

Inoltre, Zingales spiega come, per responsabilità di Romano Prodi, l’Italia sia entrata nell’euro “senza una forma di rinegoziazione del debito pubblico e pensionistico” che, in una fase di cambio valutario, sarebbe potuta probabilmente avvenire senza traumi alleggerendo sia il debito pubblico che il debito pensionistico. Per l’Italia l’appartenenza all’Unione e alla sua moneta ha prodotto prevalentemente svantaggi e non è oggi irragionevole, scrive Zingales, chiedersi se non sia il caso che essa esca dal sistema euro.

Naturalmente non è dato sapere in anticipo cosa questa eventualità potrebbe comportare, ma è bene che l’Italia si prepari ad uscire se l’Eurozona non si mostrasse capace di autoriformarsi al massimo entro i prossimi due anni, in quanto, oltre questo arco di tempo, i costi della sua permanenza in Europa comincerebbero certamente a prevalere sui benefici per cui l’uscita finirà per apparire il male minore. Poi Zingales va nello specifico indicando quali sarebbero secondo lui le riforme necessarie ad una riforma dell’Eurozona: maggiore interventismo della BCE teso anche ad impedire agli Stati di “salvare” con interventi dispendiosi le banche in affanno; una rateizzazione dei debiti pubblici almeno entro certi limiti; un sussidio generalizzato di disoccupazione in tutti i paesi europei.

Io non penso che queste riforme riuscirebbero a trasformare l’Europa in un’Europa dei popoli, del benessere economico e del progresso civile e culturale, sia perché senza una Banca dotata della funzione di prestatore di ultima istanza non sarà mai possibile ridurre significativamente il debito pubblico anche se si dovesse concedere una sua rateizzazione o mutualizzazione (né sarà realisticamente praticabile quel sussidio di disoccupazione che finirebbe anzi per aggravare la situazione), sia perché un’Europa che continui a legiferare e ad emettere sentenze senza tener conto delle peculiarità storiche, culturali, giuridiche e religiose delle diverse tradizioni nazionali, non potrà certo ergersi a custode affidabile della ricchezza di contenuti e di valori della civiltà europea.

Ma la verità è che un incompetente come me e lo specialista Zingales muoviamo da presupposti diversi, perché lui crede nella possibilità di un capitalismo responsabile e popolare mentre io ritengo che un capitalismo seriamente riformato e trasformato – e quindi non più né troppo indipendente dallo Stato (come avveniva un tempo) né troppo dipendente dallo Stato (con la sua continua richiesta di privatizzazione della finanza pubblica), né parassitariamente orientato ad alterare il mercato con la sua tendenza ad impadronirsene attraverso una sistematica manipolazione del meccanismo della concorrenza e con l’obiettivo di accrescere il proprio potere che è un obiettivo palesemente diverso da quelli partecipativi della produzione e della distribuzione, né interessato all’accumulo di capitale più che alla stabilità del lavoro e infine alla produzione di ricchezza indipendentemente dalla distribuzione della ricchezza stessa –, non si potrebbe continuare a definirlo capitalismo venendosi a configurare piuttosto come una nuova organizzazione economica e sociale il cui principio direttivo sia quello per cui la produzione di merci e l’erogazione o accumulo di denaro siano non fini a se stessi ma rigorosamente funzionali alle concrete e specifiche necessità di vita della collettività e degli individui.

Se il mercato non viene manipolato o alterato, né regolamentato arbitrariamente a favore di determinati gruppi di potere, in esso si crea lavoro per un gran numero di persone e per ogni genere di attività produttiva, per esempio in termini cooperativistici, e la produzione non risulta più indipendente dalla distribuzione ma strettamente connessa e funzionale a quest’ultima. Ma uno scenario del genere è già oltre il capitalismo, forse non ancora completamente senza il capitalismo ma sicuramente oltre il capitalismo e oltre questo concreto e specifico capitalismo, che, come ben sostiene l’economista americano J. C. Médaille, teorico del “distributismo”, è incompatibile tanto con il libero mercato quanto con la democrazia economica e politica.

Pertanto, parlare di un capitalismo “popolare” come fa Zingales è un controsenso perché il capitalismo contemporaneo, più di quello del passato, non può prosperare senza la truffa e la continua manipolazione dei dati economici e dunque non può assecondare se non in modo ingannevole le legittime aspettative di occupazione e di almeno relativo benessere delle masse popolari. Insomma, il capitalismo è costitutivamente incapace di favorire “un’economia del bene comune”, come direbbe l’economista Bruno Amoroso, il quale scrive: «Il capitalista di oggi è il finanziere disposto a speculare su tutto – dai raccolti, alle medicine, ai corpi umani o parti di queste – per poi organizzare le sue spedizioni di rapina verso i risparmi delle comunità, il ricercatore dei centri di eccellenza nei quali si manipola la vita e le sue forme di esistenza, il produttore mercante di armi e alte tecnologie» (Prefazione a J. C. Médaille, Distributismo, Lindau, 2013), vale a dire tutti soggetti o figure totalmente indifferenti ai territori e alle economie comunitarie e nazionali.

Ora, questa Europa è per l’appunto figlia di un capitalismo che vuole mettere le mani su tutto pur di incrementare a dismisura il suo profitto: sugli Stati, sulle economie e sulle legislazioni nazionali, sulla democrazia, sulle culture dei diversi popoli. Per far questo mobilita continuamente, anche se con apparente discrezione, le sue truppe d’assalto: economisti riconosciuti a livello internazionale, importanti testate giornalistiche e televisive alle sue dipendenze, forze politiche che criticano l’esistente proponendo “riforme strutturali” che obiettivamente il più delle volte sono destinate ad aggravare pesantemente le condizioni di vita di milioni di cittadini.

Ma pur mobilitando un numero impressionante di persuasori più o meno occulti, esso finisce inevitabilmente per dar luogo a contraddizioni inestricabili. Gli “europeisti” più ortodossi dicono che bisogna rimanere nell’euro per fare le riforme, però non spiegano e non possono spiegare come sia possibile attuarle con i criteri di Maastricht, con le misure draconiane e insensate come quelle previste dal Fiscal Compact, che rendono impossibile ai singoli paesi di adottare le misure che sarebbero necessarie per rilanciare l’economia. La verità è che restare nell’euro, moneta unica ma anche moneta di cui nessuno Stato è sovrano, significa non poter fare mai abbastanza per essere in linea con i parametri economico-finanziari fissati dai poteri spesso anche se non completamente occulti che decidono quali debbano essere i meccanismi della politica europea.

Si dice: se uscite dall’euro, finirete come la Grecia. Ma il problema è che, anche restando, si finisce prima o poi come la Grecia, ovvero con una patologica disoccupazione di massa, con un inarrestabile decremento di valore del patrimonio immobiliare, con un consumo sempre più ridotto, con un’economia sempre più agonizzante e destinata a morire. Tanto vale, dunque, uscire prima che sia troppo tardi, prima di trovarsi cioè talmente espropriati dal Moloch europeo delle proprie risorse economiche e finanziarie da non avere più la forza di sostenere adeguatamente e far decollare autonomamente le forze imprenditoriali, le forze produttive ed economiche e finanziarie della nazione. Prima capiremo che l’euro è una moneta escogitata per togliere agli Stati la possibilità di esercitare un controllo diretto ed esclusivo sul pubblico denaro, prima saremo in grado di prepararci ad un’uscita dall’euro e di scongiurarne ricadute troppo traumatiche. Ma questa non è una mossa che possa essere decisa sul piano meramente economico, bensí su un piano di strategia politica.

Qui il dibattito tra “eurofili” ed “eurofobi” può andare avanti all’infinito, almeno per qualche tempo ancora, nel senso che da un punto di vista teorico entrambi i partiti avranno ragioni da far valere. D’altra parte, sia rimanendo nell’euro sia uscendo dall’euro, nessuno può sapere con esattezza cosa possa accadere in futuro. E’ però certo che sin qui, per le popolazioni europee, a parte quella tedesca e in parte olandese, l’euro ha prodotto pessimi risultati e comunque non all’altezza delle aspettative che la sua introduzione aveva indotto a coltivare, cosí come è certo che un euro usato nel quadro di parametri assolutamente restrittivi e vessatori non potrà mai consentire a Paesi già ora in difficoltà come quelli dell’area europea meridionale di risalire veramente la china e di rilanciare efficacemente le proprie economie.

Peraltro, non si capisce perché mai tanti Stati abbiano accettato di rinunciare alla propria sovranità nel nome di interessi e benefici futuri che francamente sono sempre apparsi ai più oltremodo nebulosi e totalmente privi di attendibilità empirica. L’Italia, perciò, non può più permettersi di tergiversare e di rimanere in balía di poteri europei completamente privi di legittimità popolare e democratica che possono solo condannarla ad un ineluttabile défault, a meno che non riesca a farsi concedere un allargamento significativo della sua sovranità fiscale e monetaria, che però quest’Europa, come è stato ribadito proprio oggi da Mario Draghi, è proprio quello che non potrà mai concedere pena la sua inevitabile dissoluzione.

C’è anche chi ha detto, come l’economista Guido Rossi, che una dissoluzione del sistema Europa e della sua moneta «provocherebbe una sorta di disastro finale nelle economie occidentali e nella finanza mondiale» (Rossi contro Krugman: l’euro si può salvare, in “Keynesblog del 23 aprile 2012), ma anche questa previsione è una previsione dotata dello stesso grado di plausibilità di cui sono dotate altre previsioni di segno diverso o contrario. Inoltre, è davvero curioso, per non voler essere più espliciti, che le economie europee oggi più forti sono quelle dei Paesi che, come la Germania, all’atto di costituzione della UE, seppero imporre precise condizioni per entrare a farne parte e quelle dei Paesi che ne sono rimasti fuori, sia pure in misura diversa, rimanendo attaccati alla propria sovranità monetaria e fiscale, almeno sino ad oggi, come la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia o la Norvegia.

Anche questo dato significherà pur qualcosa e, comunque, ormai è chiaro persino ai ciechi che uno Stato che si rispetti non può mai e per nessun motivo rinunciare alla propria sovranità, perché è assolutamente giusto e sensato, e di certo non contrario ad un principio di buona economia, che uno Stato ancora sovrano decida di non aderire né a Trattati suicidi come quelli di Maastricht e Lisbona né a patti economici come quello assurdo del Fiscal Compact né a politiche ossessive di austerità che possono risultare funzionali solo alla distruzione degli Stati e della loro ricchezza nazionale. Pertanto, non è il caso di lanciare messaggi terroristici del tipo: «se l’euro fallisce, ci dobbiamo preparare a una recessione lacrime e sangue e a una fuga di capitali senza precedenti», intanto perché una recessione lacrime e sangue già in parte la si sta sperimentando oggi con l’euro e la si potrebbe sperimentare sempre più drammaticamente con una permanenza nell’euro, e poi perché, com’è noto, cospicui capitali fuggono dall’Italia anche a prescindere da un ipotetico fallimento dell’euro.

Semmai, defungendo l’euro, dovremmo adottare per tempo efficaci misure protezionistiche per evitare che un massiccio afflusso di capitali stranieri in Italia possa fare man bassa dei capitali nazionali una volta che la sua nuova moneta venisse svalutata. Ma non è pensabile che i responsabili del governo italiano commettano errori identici a quelli commessi da precedenti responsabili governativi e non si preparino bene a questa eventualità e ad affrontare nel più efficace modo possibile le conseguenze derivanti dal possibile passaggio dall’euro alla lira o ad un’altra moneta ritenuta più competitiva. Certo, l’esperienza ci insegna che tutto può accadere ma una strategia politica di uscita dalla moneta unica non può essere pregiudizialmente fondata su elementi di pregiudizio, di inverosimiglianza o di assurdità.

Perciò, è solo il caso di sollecitare i nostri attuali governanti e quelli che verranno ad elaborare e a mettere a punto sin d’ora un piano d’uscita dall’euro perfettamente studiato in tutti i particolari e relativo ad ogni possibile scenario posteuro. Forse la nostra economia posteuro dovrà rinunciare almeno inizialmente, per relativa mancanza o penuria di investimenti e di adeguati prestiti finanziari, a crescere e a svilupparsi secondo certe ordinarie e correnti misure di grandezza, ammesso che storicamente crescita e sviluppo siano sempre possibili, ma non è detto che anche in assenza di particolari forme di crescita o di sviluppo non sia possibile una buona economia e un’economia capace di soddisfare il fabbisogno primario della nazione e più segnatamente dei ceti sociali e dei soggetti più deboli e bisognosi di protezione statale.

Dalle analisi e dai resoconti più recenti risulta che, rispetto a un possibile ritorno della lira, gli svantaggi dell’euro siano nettamente superiori ai suoi vantaggi ma anche che, in caso di rottura del sistema euro, gli svantaggi immediati per l’Italia potrebbero essere in gran parte fronteggiati e ridotti al minimo da leaders governativi capaci di operare lucidamente e responsabilmente. Qualcuno scriveva già un anno fa che «l’opzione euro non è un’opzione, ma è un suicidio. Gli svantaggi sono infiniti. I vantaggi promessi all’origine (tassi, sicurezza) stanno svanendo in questa crisi. Ma quello che è peggio, è che appare evidente che l’euro ha alle spalle una costruzione imperfetta, destinata ad un verosimile collasso» (G. P. G. Imperatrice, Uscire dall’euro all’Italia conviene, in “Scenari economici” del 24 marzo 2013).

Penso che l’euro non sia solo una moneta costruita imperfettamente; la sua costruzione è certo imperfetta ma volutamente imperfetta, ovvero finalizzata scientemente a politiche economiche di espropriazione della ricchezza pubblica dei diversi Paesi continentali, ad eccezione della Germania, entrati a far parte dell’Unione Europea. Ma sono completamente d’accordo sul resto, e cioè che, a meno di una radicale e immediata quanto improbabile rifondazione della stessa UE, è decisamente «meglio tornare alla lira, e conviene farlo alla svelta; ovviamente in un contesto internazionale fortemente competitivo e spesso ostile, tale azione ha senso (specie sul medio e lungo periodo) solo se guidata da una classe dirigente decente, che faccia le riforme, riduca le spese e le tasse e riporti il paese ad un minimo di buon senso» (ivi).

Mi pare che questo sia imperativamente richiesto da un’economia del buon senso, ovviamente ispirata e sostenuta da un’azione politica finalmente saggia, disinteressata e rispondente non solo ai legittimi interessi nazionali ma anche e soprattutto ad oggettive e ineludibili istanze di protezione delle fasce sociali e dei soggetti più deboli e indigenti. Anche perché un ritorno pilotato alla lira potrà significare una ritrovata responsabilità di affrontare i propri problemi con autonomia e con una qualche riattivazione di sovranità democratica, in virtù delle quali ognuno potrà essere libero di andare per la sua strada, pur in un rispettoso e collaborativo rapporto con i Paesi vicini o lontani.

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