Non molto tempo fa aveva ragione chi stigmatizzava la mentalità vanesia e narcisista, umorale e smaniosa di onori e notorietà, di un folto gruppo di intellettuali cosentini e calabresi, non tutti accademici e universitari, dediti a celebrare direttamente o indirettamente se stessi, i propri libri, i propri incarichi istituzionali, attraverso un’assidua e smaniosa partecipazione a incontri, seminari, convegni, dibattiti giornalistici, trasmissioni televisive, progetti politici, ben consapevoli del fatto che a decretare il successo mediatico-sociale, quello che generalmente gratifica sul piano psicologico e fa sentire davvero importanti sotto il profilo culturale e/o scientifico, non sono le qualità professionali, le capacità e i meriti intellettuali, l’integrità morale, vale a dire la realtà sostanziale di quel che uno è e fa, ma arti o tecniche subordinate e suscettibili di essere utilizzate in modi ambigui, quali un uso vivace ma artificioso e stravagante della retorica, la scorrevolezza ma anche la superficialità dell’eloquio, modalità comunicative prevalentemente incentrate sui presumibili interessi e gusti di un uditorio o, più in generale, di un pubblico anche vasto ed eterogeneo (Si allude a G. Sole, Intellettuali, in Calabria puoi trovarne uno per tutte le stagioni, in Rivista on line “I calabresi” del 3 dicembre 2021).
Poi, certo, va precisato che tali intellettuali non sono tutti indistintamente degli imbecilli, dei tromboni, degli insipienti a caccia di considerazione e gloria, perché in realtà tra essi si trovano anche, in numero a dire il vero abbastanza esiguo, soggetti intelligenti, sensibili, preparati, realmente coinvolgenti e quindi meritevoli di rispetto, con l’unico difetto di non saper essere sobri, di essere piuttosto incontinenti dal punto di vista relazionale ed etico-sociale. Ma è soprattutto la moltitudine di falsi intellettuali, di intellettuali improvvisati, di intellettuali presunti o fasulli, di “intellettuali non intelligenti” (interni o esterni all’accademia), per usare la felice espressione gramsciana, a suscitare irritazione, riprovazione e sdegno in una pubblica opinione non necessariamente prevenuta ed astiosa ma non di rado serena ed equilibrata.
Sono dunque questi, in particolare, gli intellettuali calabresi molto virgolettati di una città come Cosenza e di una regione come la Calabria, che fanno professione di calabresità strappandosi continuamente le vesti in segno di sdegno per le persistenti condizioni di subalternità della loro terra rispetto al nord d’Italia e ai tanti nord dell’Europa e del mondo, della loro terra di cui continuano a parlare in termini regressivi e catastrofistici, quasi che le loro insufficienze analitiche e critiche, la loro mediocrità intellettuale e morale, il loro disinvolto sdoppiamento etico tra la moralizzazione che propongono, peraltro in modo generico, confuso e velleitario, e l’immoralità di cui sono in prima persona esempi e portatori, già all’interno dei loro stessi luoghi di lavoro (scuola e università), e insomma la loro multiforme cialtroneria, non fossero fattori integranti della regressività e catastroficità cosentine e calabresi.
Si tratta spesso di intellettuali acefali anche da un punto di vista politico, in quanto sanno che, indipendentemente dalle proprie posizioni nominali di destra o di sinistra, ormai certi valori tradizionali che un tempo caratterizzavano fortemente questi contrapposti schieramenti, oggi sono ormai così evanescenti, così “liquidi”, da consigliare a chiunque di essere o mostrarsi duttile, flessibile, capace di adattarsi di volta in volta alle platee cui capita di rivolgersi e all’interno delle quali verosimilmente tendono a prevalere idee, convinzioni, giudizi non particolarmente marcati come in passato ma piuttosto aperti, flessibili, moderati e possibilisti. La regola primaria di questi intellettuali è non di essere ma di apparire tolleranti anche su questioni su cui, per inderogabili motivi etico-razionali, tolleranti non si dovrebbe essere. D’altra parte essi, per mantenersi in vita, recitano l’unico ruolo che sono probabilmente in grado di recitare: quello di meri, potenziali propagandisti di idee e valori appetibili o desiderabili, ma che essi stessi né comprendono perfettamente, né sarebbero in grado di farsene concretamente artefici e costruttori.
Non si può non concordare sul fatto che questi «intellettuali favoriscono un sapere in cui il cittadino è utente passivo, una volgare cultura d’intrattenimento che ha colonizzato le strutture più profonde della coscienza. Le ricerche approfondite, le inchieste sul campo, le teorie complesse sono ignorate e respinte come inutili e anacronistiche, buone solo per una ristretta cerchia di specialisti», anche se urge precisare che costoro molto spesso non è che non favoriscano la diffusione di un sapere critico ma di puro intrattenimento per semplici motivi di opportunità, perché il problema è in realtà che non la favoriscano solo perché sprovvisti di mezzi idonei a renderla possibile. D’altra parte, quando dalla cattedra si scende tra le masse, tra i comuni ascoltatori e la gente semplice, bisogna stare attenti, al fine di proporre temi o discorsi su cose “complesse”, a non scomodare in modo troppo frettoloso gli specialisti, perché, per bravi e qualificati che siano in sede strettamente scientifica, non sempre questi dispongono di un’adeguata tecnica linguistico-comunicativa, che senza troppo semplificare, sia tuttavia atta a trasmettere in modo chiaro e lineare cose difficili.
Tuttavia, è senz’altro giusto ritenere che al pubblico non si debbano dispensare cose ovvie e banali, né che debba essere intrattenuto con concetti semplicistici e scontati. Il pubblico, che naturalmente non è sempre e dovunque identico e ugualmente in grado di seguire e comprendere ragionamenti di un certo spessore culturale, in genere non va assecondato in quel che si ritiene possano essere le sue aspettative o esigenze psicologiche ed intellettuali, ma va sollecitato, talvolta anche con la necessaria severità, a riflettere su tematiche e argomentazioni inconsuete e scomode; va per così dire continuamente educato a leggere il reale con crescente e ponderato, anche se pur sempre equilibrato e non pretenzioso, spirito critico-razionale. Ma, in realtà, gli intellettuali, nostri concittadini e corregionali, certo servilmente sensibili al potere e ai vantaggi che possono ottenere dai diversi potenti di turno, sono soprattutto interessati a circondarsi, con accorgimenti psicologici e relazionali molto ben studiati e generalmente efficaci, di facili e numerosi laudatores, che contribuiscano in vari modi a veicolarne e a renderne sempre più visibile un’immagine intellettualmente accattivante. Poi non è detto che tali tentativi sortiscano sempre gli effetti sperati e che i nomi di questi occasionali paladini del pensiero restino eternamente impressi nella memoria collettiva e, soprattutto, nella storia civile e culturale di una comunità locale o nazionale.
Però, resta la speranza che ciò avvenga e allora è dato assistere a fenomeni e spettacoli tanto patetici quanto indecorosi, come nel caso per esempio di un “famoso” intellettuale socialista di Bova marina (Reggio Calabria), socialista dopo essere stato espulso per incompatibilità dal PCI nel corso degli anni ’70, cui è stato dedicato persino un “palazzo della cultura” nella città calabra dello stretto, nonché autore di un barcone di libri in massima parte dedicati a ricerche locali e regionali di assai dubbia originalità, ma non di rado avvezzo anche, ne sono testimone oculare, ad appropriarsi di scritti altrui destinati in realtà ad essere stampati sulla terza pagina, di cui era responsabile, ancora verso la fine degli anni ottanta de “Il Giornale di Calabria”.
Crupi è stato talvolta celebrato come intellettuale e meridionalista engagé, ma a mio giudizio fu, per riprendere un termine adoperato all’inizio di questo scritto, un retore spocchioso e prolisso della peggiore specie, un intellettuale mediocre e smanioso di successo e visibilità, un cultore di bellettristica camuffato da coscienza critica della sua terra, uno di quei tromboni egocentrici e presuntuosi che non sanno cosa significhi pensare e vivere in funzione dell’altro, del prossimo, della comunità, ma che tutto ciò tendono riduttivamente e miseramente a leggere non già nel quadro dell’oggettività e della complessità della vita, del mondo e della storia, bensì unicamente in funzione del proprio io privato e inconfessato, di una soggettività angusta e frustrata, di un’umanità gramscianamente incapace di pensare e di sentire. So che gli estimatori di Crupi, nel migliore dei casi, mi ripagheranno forse, con un indignato silenzio o con sprezzanti parole, di un giudizio iconoclastico di questa natura, ma ho ripetuto e dovevo ripetere qui lo stesso giudizio che, nel corso degli anni ottanta, espressi pubblicamente al Centro Studi Pietro Mancini di Cosenza in presenza dello stesso Crupi che non riuscì a contenere la sua collera.
Cosí come non avrò certo parole di comprensione e, ancor meno, di stima da parte della comunità acrese, dove vive un ex collega di liceo, Giuseppe Scaramuzzo, organizzatore di cultura in quel di Acri con altri esponenti dell’intellettualità di questo centro presilano. Qui fanno spesso passerella accademici, giornalisti famosi, uomini di spettacolo, del mondo economico e finanziario, e via dicendo, che, nelle intenzioni degli organizzatori, dovrebbero recare lustro al loro paese ma che in realtà finiscono per accentuarne, evidenziarne ancor più, la subalternità culturale, il provincialismo intellettuale rispetto ad un modo di pensare e fare cultura realmente autonomo e libero da ogni forma di minorità, rispetto ad una intellettualità critica che non avverta il bisogno di essere accolta e sostenuta mediaticamente sulla base di più o meno sensazionali colpi pubblicitari e di pubbliche manifestazioni spesso disinvoltamente sovvenzionate da politici locali con denaro che potrebbe essere forse meglio utilizzato.
Peraltro, Scaramuzzo, che ha scritto un paio di opere storiche, celebrate in quel di Acri come se costituissero un indimenticabile evento epocale, opere storiche corrispondenti in realtà a poco più che ad una duplice raccolta di nativi acresi di epoche passate che avrebbero partecipato militarmente alla prima guerra mondiale e che, in periodi più recenti, sarebbero emigrati in Europa e nel mondo, è uno di quegli uomini di cultura di sinistra in apparenza tutti di un pezzo, esteriormente apparentati ad austere famiglie del comunismo italiano di altri tempi, anche se intellettualmente incolore, che avrebbe fatto parte della commissione del corso di abilitazione per scienze umane e storia, tenutosi a Cosenza nel biennio 1975-76 e a cui anch’io avrei partecipato.
Durante quel corso durato sei mesi ebbi l’opportunità di movimentare e, mi permetto di dire, di nobilitare le lezioni altrimenti grigie e monotone che vi si ascoltavano. Anche sul piano storico, di cui era responsabile Scaramuzzo, tenni due interventi molto precisi e, mi fu detto da molti colleghi di corso, anche suggestivi sulla rivoluzione francese, che stupirono non poco il professore di Acri. Ma, questo è il nocciolo morale del racconto, venne il giorno degli esami. Premesso che io ero l’unico candidato spontaneamente sostenuto dall’intera commissione, e in apparenza dallo stesso Scaramuzzo, per meriti personali ampiamente manifestati sul campo, che due colleghi marxisti-comunisti, piuttosto rozzi e scolastici, si erano subito posti sotto l’ala protettrice di Scaramuzzo, che due colleghe evanescenti erano, non solo in quel concorso, ma in tutti gli altri cui avrebbero partecipato con comprensibile sicumera,, straraccomandate da pezzi grossi del comparto politico-scolastico cosentino e regionale, ciò premesso, sostenni l’esame in modo particolarmente brillante soprattutto nell’ambito delle scienze umane ma in modo lusinghiero anche in storia, senza che Scaramuzzo intervenisse e con l’esplicito apprezzamento degli altri commissari. Mi fu dato 100, il massimo, in Scienze umane e storia, ma lo stesso voto, per i motivi su esposti, fu dato anche agli altri quattro soggetti di cui sopra. Mi ferì il sentirmi dire da Scaramuzzo, qualche tempo dopo, che lui sul mio esame di storia avrebbe avuto qualcosa da ridire, quasi che qualcuno gli avesse impedito di esprimere liberamente il suo giudizio, e io gli risposi semplicemente se non pensasse che sarebbe stato più opportuno aver da ridire, e anzi da intervenire in senso censorio, sugli altri candidati nel momento stesso in cui, a dispetto di ogni evidenza e di ogni più elementare criterio di giudizio e merito, si era ritenuto collegialmente di assegnare lo stesso voto che era stato attribuito a me.
Ho raccontato, certo, un vissuto personale, ma anche i vissuti personali esprimono talvolta profondi significati filosofici e morali. Il significato filosofico-morale che in questo specifico caso si viene esemplificando, in riferimento ad una tipologia molto diffusa di intellettualità calabrese, è individuabile non solo nella tendenza ad osteggiare in ogni ambito della vita civile e culturale un principio di rigorosa valutazione e selezione meritocratiche in conseguenza di una carenza generalizzata di facoltà critiche e conoscitive adeguate che può produrre solo forme apparenti di sapere e come tali non funzionali a vere e qualificate strategie di ricerca, ma anche e soprattutto in un evidente scollamento tra vita intellettuale e vita morale, tra impegno teorico e impegno pratico, tra l’apparire esteriore e l’essere reale. Beninteso, si tratta di un terribile vulnus esistenziale e spirituale che non riguarda in modo esclusivo la gran massa di intellettuali calabresi, quali che possa essere il valore specifico di ognuno di essi, ma che è senz’altro riferibile agli intellettuali in genere e persino a quelli più preparati, acuti e arguti, creativi e originali; e tuttavia si tratta di un vulnus che, nella pur molto differenziata e divisa famiglia di intellettuali calabresi, si manifesta in forme particolarmente accentuate.
Peraltro, vorrei insistere, il problema non è solo quello per cui i nostri intellettuali non sempre abbiano il coraggio di esprimere il loro vero pensiero, di dire quel che realmente pensano o di cui sono convinti, per motivi opportunistici o comunque di convenienza personale, ma soprattutto quello, ben più serio, per cui essi non hanno un pensiero, non sono capaci di elaborare trame significative e interessanti di pensiero critico, se non in forme alquanto dozzinali e primitive, anche se talvolta ridondanti di costrutti logico-argomentativi tanto astrusi e involuti quanto destituiti di universale valore conoscitivo e culturale: basterebbe sentire le lezioni universitarie che impartiscono dalle loro cattedre, spesso regalate, tanti professori di scienze letterarie o filosofiche, pedagogiche, giuridiche o economiche (non sono in grado di far riferimento ad altri comparti accademici) per esempio nell’Università degli Studi di Rende; basterebbe andare a consultare l’elenco delle pubblicazioni e porsi nella condizione di rendersi conto non dico della loro autenticità o non autenticità (operazione non sempre agevole da effettuare, ma che dovrebbe risultare obbligatoria almeno in fase preconcorsuale) ma quanto meno del loro contenuto, della loro struttura linguistico-concettuale e sintattica, del loro valore teorico, morale, spirituale, per capire agevolmente per quale motivo la nostra regione, pur risentendo in qualche modo del complessivo sviluppo scientifico-tecnologico internazionale, non riesca ancora a garantire a masse umane e giovanili molto estese sufficienti condizioni di alfabetizzazione critico-culturale e di progresso etico-civile. Era, peraltro, significativo quel che, da me non sollecitato, mi scriveva gentilmente il 26 aprile 1982, per congratularsi con gli studi che erano stati ospitati in un fascicolo della rivista filosofica che dirigevo, il professor Gianfranco Borrelli, allora in servizio presso l’Università della Calabria: “Mi rammarico davvero di non aver avuto nei tempi passati notizia del vostro lavoro. Da quattro anni insegno all’U.d.C. (l’attuale sarà quasi sicuramente l’ultimo) e ho incontrato reali difficoltà di discussione all’interno del dipartimento” (di filosofia) “di cui faccio parte e negli ambienti cosentini a me noti”. Aveva perfettamente ragione: dentro e fuori dell’università rendese o cosentina che dir si voglia, non si discuteva semplicemente perchè a volersi impegnare nella discussione, nel dibattito, in quello specifico caso di cose filosofiche, si correva il serio rischio di far emergere la propria pochezza intellettuale e di non poter più né esibire titoli e qualifiche di qualsiasi genere né, tanto meno, usurpare cattedre che a ben altri studiosi sarebbero spettate.
Nel 2005 veniva pubblicata una mia intervista filosofico-politica in un libricino pubblicato da Rubbettino, scritto da un mio ex allievo e intitolato “Calabresi improbabili”, ma in esso mi ritrovavo anche in compagnia di altri personaggi della cultura accademica e non accademica calabrese ai quali, eccezioni a parte, mi sentivo totalmente estraneo. Solo per fare qualche nome: Ines Crispini, Renate Siebert, Marcello Walter Bruno. Cosa potessi avere io da spartire, sia sotto l’aspetto critico-intellettuale che sotto quello specificamente umano ed etico, con costoro, pure tra loro molto diversi, me lo sarei chiesto per diverso tempo, concludendo alla fine che il mio ex allievo, forse a causa di un eccesso di affetto che potrebbe aver provocato l’effetto paradossale di una scelta non molto benevola verso la mia persona, dovesse avere le idee un pò confuse.
Peraltro, ho sempre avversato quella falsa ed ingannevole forma di comunicazione accademico-mediatica consistente nel riservare specifiche note elogiative, fino a profilarle quasi come speciali titolo di merito, a quei docenti universitari che provengano da atenei stranieri, americani, inglesi o tedeschi, o che, prima di ricevere incarichi universitari, abbiano trascorso qualche corso o periodo di “formazione” all’estero, magari accanto a nomi più o meno prestigiosi del sapere contemporaneo. Ho sempre pensato, infatti, che il proprio orizzonte conoscitivo, certo, si può sempre ampliare e rafforzare a contatto con veri maestri del pensiero, e questo vale soprattutto per i più dotati e i più capaci, ma anche che, se uno è una rapa, non potrà in nessun caso diventare una cima, ma, al più, per l’appunto, una cima di rapa.
Era principalmente per un motivo di fondo che non potevo non sentirmi estraneo alla stragrande maggioranza dei personaggi ospitati in quella pubblicazione: non certo per una inevitabile e anzi utile e necessaria diversità di esperienze umane e culturali, ma per il modo profondamente diverso di porsi in rapporto ad un sistema di potere e di produzione del sapere, estremamente attivo nello stesso mondo accademico e universitario e in cui a contare o a prevalere non è tanto la burocrazia, che ha peraltro una sua precisa ragion d’essere, quanto le logiche e le dinamiche, fortemente personalizzate, di lottizzazione abusiva, di prevaricazione antimeritocratica, di spartizione concordata non sulla base di riconosciuti e oggettivi criteri di merito bensí sulla base di semplici rapporti di forza, di accordi compromissori, di scambio di favori, volti a scardinare anche in tal caso non solo lo Stato di diritto ma lo stesso fondamento naturale di ogni possibilità di progresso conoscitivo e di ordinata e feconda convivenza civile. Tale sistema nell’università rendese si sarebbe radicato negli anni così profondamente da trasformare il nostro ateneo in un’agenzia di facili opportunità di impiego e di lavoro e un centro residenziale di passaggio per giovani ricercatori o incaricati universitari in attesa di essere destinati a più collaudate e prestigiose sedi accademiche nazionali.
Mi chiedo ancora oggi, con profonda sofferenza ma con una ritrovata serenità di giudizio morale, come alcuni eccellenti studiosi cosentini di mia conoscenza avrebbero mai potuto accettare in quegli anni e in anni più recenti di diventare ricercatori, associati o ordinari, in virtù del benestare interessato e ricattatorio di certi docenti che non avrebbero mai dovuto ottenere una cattedra universitaria e che avrebbero sempre brigato, per tutta la vita, anche in qualità di presidi di facoltà, per sistemare magnificamente figli, amanti, nipoti e diversi amici di amici.
Ecco: per quel che mi consta, non riconosco a quegli “ospiti”, se non ad un paio di essi, la statura di intellettuali degni di questo nome e capaci di fare esercizio critico di razionalità non a prescindere da anomalie o abnormità incompatibili con quella che dovrebbe essere la casa trasparente del sapere, ma essendo ben consapevoli della inderogabile necessità teorica, etica e politica, per quanto mi riguarda vorrei dire anche religiosa, di contrastare e denunciare apertamente quei processi di devastazione del sapere, quelle pratiche occulte di natura corruttiva, quel diffuso malcostume accademico, magari mettendo a rischio interessi professionali e rispettabilità personale.
La verità è che l’Università di Arcavacata è sempre stata piena di cafoni del sud, di individui che da un giorno all’altro, mentre vendevano appartamenti, si sono visti catapultare su una cattedra universitaria; è sempre stata piena di tracotanza tipicamente meridionale, di volgare e ottusa indifferenza per i problemi reali del conoscere e della vita comunitaria, di innesti continentali e transcontinentali quasi sempre di scarso rilievo culturale e di incidenza comunitaria puramente ornamentale, mentre è sempre stata vuota di intellettuali probabili, ben più che di presunti “calabresi improbabili”, di intellettuali intelligenti, di intellettuali organici non ad un partito o ad una chiesa di esclusiva origine storico-umana ma a quel “piccolo resto” di spiriti sapienti, integri e operosi, che, nella scena di questo mondo, resteranno forse sempre dispersi e isolati.
Non c’è un destino cinico e baro che condanni la Calabria ad essere quel che è sempre stata, cioè terra di passione pulsionale più che di ragione pensante, di malaffare e violenza, di corruzione e immoralità, perché la condizione in cui versa oggi, come quella in cui verserà domani, è e sarà prevalentemente il prodotto dei pensieri e degli atti di uomini e donne che vi risiedono e vivono. Per risorgere, nei limiti in cui la storia e soprattutto Dio lo consentiranno, la Calabria, la mia Cosenza, non hanno bisogno di intellettuali ectoplasmatici, né di intellettuali troppo medagliati e celebrati, né di intellettuali che si sentano apostoli di una qualche rivoluzione o di una qualche reazione ma sappiano essere invece semplici e umili chierici, per riprendere la bella immagine di Julien Benda, al servizio di un compito più difficile e universale: quello di non tacere mai sulle multiformi menzogne del mondo, quello di dire sempre e comunque, a qualunque costo, la verità, tutta la verità. Forse, in questo senso, sarà molto difficile assolvere la funzione del chierico, dotto e saggio, libero, indipendente, anticonformista e profetico, come d’altra parte è sempre accaduto sin dai primordi della civiltà umana, ma coloro, forse pochi, che riusciranno ad assolverla con indefesso spirito di approfondimento e dignitosa coerenza, non potranno mai tradire il loro nobile mandato di sommi custodi del vero e del bene.
Oggi si può essere dei lacchè del potere o dei potenti anche facendo critiche al sistema, contestandolo in blocco o protestando contro questa o quella sua disfunzione istituzionale, e infine formulando proposte alternative all’ “ordine di cose esistenti”. Si può essere intellettualmente cialtroni anche assumendo, spesso a favore di telecamera, atteggiamenti ieratici fondati su discorsi formalmente solenni ma sostanzialmente retorici e banali. Ma l’intellettuale in senso proprio, non cioè chi usa professionalmente l’intelletto in senso distaccatamente dialogico, quasi fosse possibile discutere di qualunque cosa senza disaccordi o aspri contrasti, senza impennate polemiche e moti di accesa indignazione, ma chi non teme di pensare in difformità dalla pluralistica e democratica accozzaglia di equivoci modelli di comunicazione e di stupidi luoghi comuni, vale a dire chi si esercita in modo ininterrotto in una faticosa ascesi di razionalità, è qualcuno che esercita l’attività o una determinata attività intellettuale con spirito monacale, e quindi in modo semplice, chiaro, lineare, ma austero e profondo, sempre rispettoso del giudizio altrui ma mai riottoso rispetto al dovere spirituale di correggerlo, educarlo o integrarlo. Questo intellettuale, che pensa con la stessa intensità con la quale prega, tanto da assimilare sempre più il suo pensare al suo pregare, che vive e opera in solitudine senza essere isolato ed è separato nel mondo ma non dal mondo, pur continuamente rifuggendone, è un chierico di cose vere, giuste e sante, e, lo sappia o no, è un chierico di Dio.
Egli, perciò, non può piegarsi o genuflettersi dinanzi a nessuno, se non perché costretto con la forza o la violenza, non può inchinarsi né davanti ai potenti, né davanti ad autorevoli tromboni, né davanti a marmaglie affette da semplicismo cronico e da spicciolo e mediocre utilitarismo. Egli non è un vile traditore di universali valori umani, ma è un testimone resistente e resiliente di una spiritualità che non si rassegna a soccombere alle risorgenti e dogmatiche ingiunzioni dello ‘spirito del tempo’ e dello ‘spirito del mondo’. Egli, se è un ardente uomo di fede, desidera prostrarsi solo dinanzi a Dio, per chiedergli di poterlo onorare e servire nel migliore dei modi.
Francesco di Maria