Togliatti e i cattolici

MOSCOW, RUSSIA – 1930: Palmiro Togliatti – Italian politician and leader of the Italian Communist Party (1927-1964), member of the Communist International.

La “questione cattolica” attraversa da cima a fondo, da Gramsci a Berlinguer, la storia intellettuale e politica del Partito Comunista Italiano, anche se non è mancato chi tale storia abbia fatto iniziare, nel senso più nobile e significativo, a partire dal 1944, cioè al ritorno di Togliatti da Mosca e con la “svolta di Salerno” da lui promossa su consiglio di Stalin, quando il partito, per opera sua e a seguito della  sua ventennale riflessione sul fascismo, sarebbe venuto acquistando una dimensione nazionale oltre che una solida organizzazione interna (Togliatti, i cattolici, l’occidente. La lunga lezione della svolta. Intervista di A. Fabozzi a Luciano Canfora, in “Il Manifesto” del 21 gennaio 2021. L’intervista fa riferimento al libro, non di rado tendenzioso, di Canfora, La metamorfosi, Roma-Bari, Laterza, 2021). Egli avrebbe individuato lucidamente nella necessità di un’alleanza col mondo cattolico italiano l’aspetto centrale, il fulcro della politica comunista negli anni del dopoguerra, perché era evidente che, senza una disponibilità dei cattolici ad accettare la presenza comunista nella vita politica italiana, non solo non sarebbe stato possibile rifondare lo Stato in senso democratico ma difficilmente si sarebbe potuto uscire in modo non ulteriormente traumatico dalla guerra civile divampata negli ultimi anni di vita del regime fascista.

Ma, in realtà, anche a prescindere dalla drammatica esperienza fascista, Togliatti, che veniva da una famiglia cattolica, aveva compreso perfettamente, già nel 1922, che, pur senza fare concessioni teoriche ai cattolici, la loro collaborazione alla causa antifascista fosse di fondamentale importanza politica e che, per le differenze filosofiche e politico-culturali pure esistenti tra il loro pensiero e il pensiero comunista, se ne dovesse parlare in un secondo momento. Scriveva, infatti, Togliatti: «l’intera questione deve essere affrontata sotto il profilo di un problema di opportunità politica, sul quale influiscono le condizioni storiche di fatto» (P. Togliatti, La questione religiosa, in «L’Ordine Nuovo», 10 luglio 1922. Ma, come ha giustamente osservato Gennaro Lopez, Questione cattolica e questione religiosa nella storia del Pci, in Rivista politica “Futura umanità”, 9 aprile 2021, «Gramsci, andando oltre il “tradizionale” anticlericalismo socialista, già nel 1919 vedeva nel neonato partito dei cattolici, il Partito Popolare, il frutto della laicizzazione e del rinnovamento di matrice post-unitaria, che avrebbe potuto contribuire ad una progressiva maturazione del proletariato italiano in direzione di un orizzonte socialista»). Il tema del superamento del “pregiudizio religioso” dei cattolici poteva aspettare e si trattava di raggiungere in quel momento con la massa cattolica, ancor più che con la loro organizzazione ecclesiastico-clericale, un accordo, un compromesso. Che di compromesso si trattasse e non di un semplice e non meglio definito “incontro”, come sostiene Canfora, che anzi rovescia su Enrico Berlinguer tutta la responsabilità di aver generato la crisi del partito comunista con il suo fallimentare “compromesso storico” (Togliatti, i cattolici, l’occidente, citato), era ben consapevole Togliatti, anche se nel 1946 avrebbe cercato di rivestirlo di più nobili significati rispetto al semplice uso strumentale che veniva imponendosi nel vortice della lotta politica. Alludendo, infatti, all’incontro tra il solidarismo cristiano e il solidarismo comunista, avrebbe detto:    «Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come “compromesso” , fate pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e quindi di tutta la nazione » (Togliatti, Discorso all’Assemblea costituente del febbraio 1946).

Sembrava, tuttavia, sincero quando, in data 30 novembre 1935, avrebbe scritto: «Noi comunisti, che siamo dei materialisti, che abbiamo la convinzione profonda dei nostri principi politici e umanitari, non possiamo misconoscere la fede radicata nelle masse all’ideale spirituale e ai principi umanitari su cui si basa il cattolicesimo, e non dobbiamo quindi offendere la loro credenza ma rispettarla veramente» (P. Togliatti, Conquistiamo le masse cattoliche, in “L’idea popolare”, nella data già citata, in P. G. Zunino, La questione cattolica nella sinistra italiana (1919-1939), vol. 1, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 436), benché poi, come già aveva fatto Gramsci, si illudeva di poter distinguere in modo particolarmente sensato tra le masse cattoliche in quanto masse di credenti e la loro appartenenza a determinate organizzazioni politiche, trascurando la tradizionale e plurisecolare funzione di raccordo, esercitata dalla Chiesa, tra gruppi èlitari e gruppi popolari, tra intellettuali e “semplici”. Si trattava, secondo lui, di conquistare le masse popolari, in primis quelle cattoliche ma poi anche semplicemente quelle di fede fascista, monarchica o socialdemocratica, considerando “avversari” solo le loro rispettive organizzazioni politiche ed anche ecclesiastiche nel caso specifico dei cattolici (P. Togliatti, Corso sugli avversari. Le lezioni sul fascismo, a cura di F. M. Biscione, Torino, Einaudi, 2010, p. 3). Di sicuro c’è che Togliatti, sul piano politico, avrebbe sempre sentito molto, anche se in un modo moralmente meno partecipato rispetto a Gramsci, il problema di come addivenire ad un fronte diversificato e tuttavia fortemente unitario di azione politica nel segno dell’antifascismo. Ancora nel ’38, non perdeva occasione per ricordare che «fin dal 1924, ’25, ’26, abbiamo detto agli operai, ai lavoratori cattolici: “Uniamoci per conquistarci migliori condizioni di vita, per conquistarci la libertà e la pace”» e per riaffermare che «i comunisti vanno incontro ai lavoratori cattolici senza sottintesi, con piena lealtà, e lavorano a convincere tutti gli antifascisti che l’unione coi lavoratori cattolici, per tutte le rivendicazioni materiali, politiche, culturali, e in difesa della libertà religiosa e delle organizzazioni cattoliche minacciate dal governo fascista, é una delle condizioni principali del successo della lotta vittoriosa del popolo contro la guerra e per la liberazione del popolo italiano» (P. Togliatti, Noi e i cattolici su “Lo Stato operaio”, dicembre 1938, citato poi in C. F. Casula, Il PCI e i cattolici: una strategia conseguente che risale agli anni trenta, in “Com Nuovi tempi”, genn. 1978, n. 1, p. 10).

Non poteva certo passare inosservata l’affermazione lapidaria fatta, nel dicembre 1945, da Togliatti (Rapporto al quinto Congresso del Partito  29 dicembre 1945 — 5 gennaio 1946 del partito): «Noi non siamo mai stati anticlericali, non lo siamo e credo che non lo saremo», anche se «noi critichiamo, denunciamo il fatto che la Chiesa possa diventare una agenzia elettorale per una lotta politica che interessa il popolo italiano. Questo vuol dire che noi non vogliamo, nel nostro Partito, una lotta di religione» (Citato in Comunisti e cattolici. Stato e Chiesa. 1920-1971, a cura di Alberto Scandone, Roma, 1972, Sezione centrale scuole di partito del PCI, pp. 27-29). Egli, pur inviando un preciso anche se ingiustificato avvertimento alle gerarchie ecclesiastiche, teneva a fare professione di non ateismo militante, perché ben comprendeva ormai, dopo gli errori di valutazione del passato, che le masse cattoliche, in nessun caso, sarebbero state disposte a separarsi dall’apparato ecclesiastico-politico della loro Chiesa.

Il “Migliore” faceva, secondo molti suoi compagni di partito, politica spicciola e scaltra per ottenere i voti degli operai cattolici, una politica essenzialmente strumentale che avrebbe potuto produrre buoni risultati anche per il fatto che quest’ultimi non erano ancora informati sulle efferatezze compiute da Stalin nel nome del marxismo-leninismo. E tuttavia era concreta e oggettiva la sua apertura di credito al mondo cattolico quando affermava in modo inequivocabile: «Noi rivendichiamo e vogliamo che nella Costituzione italiana vengano sancite e difese dalla legislazione italiana la libertà di coscienza, di fede, di culto, di propaganda religiosa e di organizzazione religiosa. Consideriamo queste libertà come libertà democratiche fondamentali che devono essere restaurate in pieno e difese contro qualunque attentato da qualunque parte si voglia fare ad esse» (Ivi). Togliatti, quindi, arrivava al punto di fare della libertà religiosa una essenziale questione democratica che, con o senza intenti strumentali, era comunque esattamente l’opposto di quel che prescriveva la dottrina marxista.

Ma, più in generale, il laeder comunista coglieva, in vista dell’impegnativo dibattito per la Costituente, proprio nei modi in cui si sarebbe dovuto pensare di impostare il rapporto tra Stato e Chiesa, una questione cruciale del futuro assetto democratico nazionale: «Poiché la organizzazione della Chiesa continuerà ad avere il proprio centro nel nostro paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo dunque regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso. La nostra posizione è anche a questo proposito conseguentemente democratica» (Ivi). Per tutto questo Togliatti avrebbe riconosciuto i Patti Lateranensi e il Concordato del ’29 e, pur deludendo le aspettative di una parte del suo partito, avrebbe votato per l’inserimento dell’art. 7 nella Costituzione repubblicana. Ma se questi atti politici erano indubbiamente finalizzati a creare le condizioni di una normalizzazione dei rapporti politici con i cattolici e di un ampio movimento democratico nazionale, Togliatti avrebbe dato anche prova, in qualità di ministro di grazia e giustizia del governo di unità nazionale, di voler perseguire una pacificazione nazionale che, riabilitando in qualche modo le fasce di popolazione e singoli individui che avevano aderito al fascismo, consentisse nel modo più efficace possibile la ricostituzione e la ripartenza della struttura statuale e istituzionale dell’Italia: è, infatti del 1946, l’amnistia da lui concessa per l’estinzione di tutti i reati politici e comuni con cui si intendeva decretare la fine della guerra civile.

Tuttavia, pur sforzandosi di ribadire che la fede cattolica non fosse incompatibile con una fede socialista, il suo supremo punto politico-ideologico di riferimento rimaneva l’Unione Sovietica e, pur impegnandosi nella elaborazione e nella stesura di una Costituzione democratica insieme agli altri costituenti, faceva di tutto per finalizzarla ad una società socialista continuando a ritenere che il socialismo fosse l’esito più maturo e compiuto della democrazia: «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace … Noi siamo dunque democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Fra democrazia e socialismo non c’è contraddizione. Sappiamo benissimo che rivoluzioni socialiste nel mondo ve ne saranno ancora, perché in quella direzione marcia l’umanità» (Ivi). E lo stesso coinvolgimento delle masse cattoliche in un processo di democratizzazione della vita civile e politica nazionale veniva ritenuto esplicitamente necessario alla costruzione di una società socialista: al IX Congresso del PCI, Togliatti avrebbe detto che, «essendo la vittoria del socialismo in Italia legata alla formazione di un blocco assai più ampio e articolato dell’alleanza operai-contadini poveri, l’azione per una intesa con il mondo cattolico va concepita come un aspetto della via italiana al socialismo, come una larga prospettiva dì lotte unitarie e di alleanze non solo con le masse popolari cattoliche, ma anche con le loro organizzazioni» (P. Togliatti, Cattolici e comunisti, Roma, Ed. Riuniti, 1966, prefazione di L. Gruppi, pp. 22-23). Ma qui il suo realismo politico cedeva il passo alla passione rivoluzionaria, o meglio veniva evidenziandosi come intimamente intriso di una passione politica debordante i confini di una realpolitik pur attenta e priva di iniziative avventurose o irrazionali: la storia e non i suoi oppositori avrebbe presto dimostrato che si sbagliava.

Sembra incredibile che un’intelligenza lucida e rigorosa come quella di Togliatti non fosse sfiorata neppure dal dubbio che il socialismo conosciuto e sperimentato nel suo lungo soggiorno sovietico non potesse minimamente rappresentare un utile modello di confronto per chi volesse realmente tendere alla costruzione di una società democratica, ma, benché egli spiegava che per l’Italia non si trattava certo di proporre una via sovietica ma una via nazionale al socialismo, il suo continuo e unilaterale attacco all’imperialismo americano, ritenuto reo di incentivare la corsa agli armamenti atomico-nucleari e di minacciare conseguentemente la pace nel mondo, e a molte forze  politiche e intellettuali occidentali, ivi compresi larghi settori della Chiesa, della cultura e della vita politica cattoliche che lo condividevano o, comunque, non vi si opponevano, non poteva che essere percepito proprio in funzione di una difesa ideologica del comunismo sovietico e, inevitabilmente, di una doppiezza politica che, pur facendo leva sull’esaltazione del metodo e dei princìpi democratici, in realtà venisse trovando il suo vero significato nel sostanziale perseguimento di un sistema totalitario seppur non perfettamente identico a quello sovietico. Questa ambiguità di fondo sarebbe stata a lungo percepita dalla parte non comunista e non socialista del popolo italiano, nonostante che Togliatti si mostrasse pervicacemente convinto del fatto che in particolare l’accordo tra comunisti e cattolici fosse di vitale importanza per la salvezza della civiltà umana da una catastrofe termonucleare.

Era infatti reale e non certo immaginario il pericolo di una guerra termonucleare tra USA e URSS, ma molti pensavano che Togliatti se ne servisse strumentalmente per il raggiungimento dei suoi disegni politici, così come aveva utilizzato lo spauracchio di una guerra di religione per far accettare l’inserimento del Concordato nella Costituzione, e così come Berlinguer, pur ormai definitivamente al di fuori della sfera d’influenza sovietica, avrebbe utilizzato il colpo di stato di Pinochet in Cile per convincere la società e le forze politiche italiane che operazioni dittatoriali dello stesso tipo sarebbero potute accadere anche nel nostro Paese e, di conseguenza, per proporre il famoso “compromesso storico” tra comunisti, socialisti e cattolici. Se uno legge attentamente il testo del discorso di Togliatti, tenuto a Roma il 12 aprile 1954 al Comitato Centrale del PCI e intitolato “Per un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana”, si rende perfettamente conto che l’alleanza cattolico-comunista fosse per Togliatti auspicabile e necessaria soprattutto per rafforzare ed estendere il fronte rivoluzionario nel nome del socialismo, posto che si potesse e dovesse riconoscere nella identità religiosa cattolica un implicito elemento di socialismo sul piano economico e sociale e in stretta relazione allo stesso mondo del lavoro, una sensibilità progressiva che avrebbe potuto concorrere ad accelerare i tempi dell’avvento di una società più libera e giusta. L’anima del mondo cattolico, argomentava Togliatti, era molto più grande e complessa di quella espressa generalmente dai suoi rappresentanti politici e, non di rado, dai suoi stessi rappresentanti religiosi, e quell’anima meritava pertanto di essere meglio conosciuta e trattata con grande attenzione e rispetto.

Che poi tutto questo potesse essere interpretato come manifestazione di un’astuta perfidia politica, come ricerca o perseguimento di un’egemonia  politico-culturale nel pur frammentato e particolaristico contesto civile e socio-economico nazionale, è probabile, anche se le intenzioni di Togliatti sarebbero state comunque quelle di favorire nel frattempo, per mezzo della più ampia unità possibile di popolo, una celere evoluzione della società civile italiana verso posizioni di democrazia avanzata. L’elemento più irrealistico di questa pur avvincente utopia storico-politica consisteva nel fatto che, va ribadito, difficilmente essa avrebbe potuto progredire all’ombra dell’Unione Sovietica, che restava un fondamentale articolo di fede della strategia politica togliattiana, e in presenza della pervicace resistenza ideologica, in essa espressa, a capire le ragioni americane e ad interagire con un imperialismo occidentale non certo più destabilizzante e pericoloso di quello sovietico, come anche in Italia sarebbe apparso ancora più chiaro ad una larga parte di intellettualità laica e cattolica all’inizio del secondo ventennio del XXI secolo.

Ancora nel 1963, un anno prima della sua morte, Togliatti, nel rilanciare la proposta di una più diretta collaborazione con i cattolici nel quadro del comune perseguimento di una società più libera e giusta, finiva per cogliere ancora una volta nell’esperienza sovietica il più alto punto di riferimento, un modello molto avanzato di unità popolare, di socialità egualitaria, di benessere collettivo, di identificazione di tutti gli strati sociali con lo Stato: «Oggi nell’Unione Sovietica non si parla del resto più di dittatura, ma di Stato di tutto il popolo e noi da tempo sosteniamo e dimostriamo che è possibile, nel nostro paese, sulla base delle conquiste democratiche e sociali realizzate con la vittoria della Resistenza antifascista e registrate nella nostra Costituzione, avanzare verso un regime di giustizia sociale senza abbandonare il terreno delle istituzioni democratiche e del loro sviluppo nel campo economico e sociale. Nel rivolgerci ai lavoratori e uomini di cultura cattolici manteniamo questa posizione e insistiamo in essa», (P. Togliatti, Il destino dell’uomo, Conferenza tenuta a Bergamo il 20 marzo 1963, in “Rinascita”, 30 marzo 1963, p. 94). Certo, la giustizia sociale avrebbe potuto ben accomunare comunisti e cattolici, ma, pur cogliendo la fondamentale differenza di prospettiva spirituale e religiosa esistente tra gli uni e gli altri e consistente nell’assumere il sovrannaturale, da parte dei secondi, come presupposto necessario e insostituibile di qualunque attività umana, politica e sociale (Togliatti, Il destino dell’uomo, in Cattolici e comunisti, Roma, Ed. Riuniti, 1966, prefaz. di L. Gruppi, cit., pp. 72-73), egli pensava che un elemento implicito di socialismo fosse presente nello stesso cristianesimo e che questo potesse consentire una convergenza cattolica con i comunisti in una comune lotta politica: «Si tratta di comprendere», avrebbe detto al X Congresso del PCI nel dicembre 1962, «come l’aspirazione a una società socialista non solo possa farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare uno stimolo in una sofferta coscienza religiosa posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo» (Comunisti e cattolici. Stato e Chiesa. 1920-1971, a cura di Alberto Scandone, Roma, 1972, cit., pp. 30-41).

Togliatti non capiva che i cristiani possono anche cooperare al bene morale o al bene economico e sociale con quanti non ne condividano la fede religiosa, quando sussista la certezza di poterlo compiere in modo immediato o ravvicinato, ma non se si tratti di por mano alla attuazione di un ben definito modello economico e sociale che, per i cattolici, non potrebbe essere mai privo di un preciso sostrato evangelico che dovrebbe necessariamente ispirarne scelte politico-istituzionali ed opzioni economiche non meno che giuridico-legislative ed etico-sociali. Lo stesso solidarismo comunista non è proprio identico al solidarismo cristiano, perché la comunione dei beni materiali e immateriali, su cui dovrebbe fondarsi in gran parte la vita associata o comunitaria, nel secondo caso dovrebbe conseguire ad una predisposizione spontanea degli individui, o meglio delle persone, a donare e a donarsi liberamente, oltre ogni resistenza egoistica, agli altri tanto sul piano economico quanto sul piano relazionale e spirituale, ed è ciò che si può e si deve esigere in modo stringente da un punto di vista spirituale e religioso, che è il punto di vista della carità evangelica, il quale però non prevede un obbligo normativo di tipo coercitivo a condividere e a perseguire progetti sociali in cui eguaglianza e giustizia sociale vengano imposti secondo criteri di giudizio e di valutazione pur sempre soggettivi e opinabili e come tali suscettibili di trasformarsi in ogni momento nel contrario di quel che sembrerebbero proporsi di realizzare.

Peraltro, se proprio si voglia assumere e onorare un criterio di origine o derivazione storica, converrà esplicitare o riconoscere che, in materia di giustizia sociale, non sarebbe certo il cristianesimo a trovarsi eventualmente nella condizione di dover prendere atto della validità dell’analisi marxista, soprattutto sul piano etico-sociale, dal momento che la socializzazione dei mezzi e dei beni di produzione del programma marxista è chiaramente una versione secolarizzata dell’originario principio evangelico della comunione dei beni. Solo che, appunto, una cosa è mettere in comune, è socializzare la ricchezza prodotta in funzione dei bisogni di ciascuno e di tutti per ottemperare ad una volontà divina che per le creature decreti, a seconda delle scelte del loro libero agire, premi o castighi per un mondo che è di là da venire, altra cosa è che si vengano costringendo per via ideologica e politica ricchi o possidenti a cedere interamente le loro proprietà o le loro ricchezze allo Stato solo nel nome e in funzione di un determinato ordine di valori privo di un fondamento divino e quindi pur sempre soggetto a giudizi e decisioni che abbiano margini più o meno grandi di opinabilità e arbitrarietà. Nel primo caso, la giustizia viene perseguendosi come effetto di amorevole donazione spirituale, nel secondo come effetto di violenta e unilaterale spoliazione. Nel primo caso, lo Stato, con la sua autorità, le sue leggi, i suoi codici e le sue norme, si pone ancora al servizio della dignità umana, nel secondo caso è all’uomo in quanto tale, e non in quanto la sua condotta sia eventualmente lesiva di princìpi elementari e condivisi di umanità, moralità e socialità, che viene imposto di mettersi al servizio dello Stato.

Anche per quanto riguarda l’impegno per la pace, altro è rivendicarne il perseguimento sapendo che non esiste e non esisterà mai storicamente un modo talmente universale ed efficace per rimuovere o abolire in modo definitivo le radici del conflitto e della guerra, altro è ritenere di poterla assicurare stabilmente a colpi di unilaterale polemica ideologica e politica. Il cattolico, come il comunista, sa che non si dà pace senza giustizia intrisa di carità o di disponibilità umana e morale ad intendersi anche con i peggiori avversari, ma, a differenza del comunista, pone come pregiudiziale insuperabile la rinuncia aprioristica all’uso della violenza deliberata e programmatica come via per poterla ottenere, là dove Togliatti, mentre da una parte invocava il disarmo totale e la pace tra il blocco comunista-sovietico e il blocco liberal-democratico occidentale in un momento storico in cui peraltro gli USA disponevano di un potenziale atomico-nucleare più avanzato di quello sovietico, sempre recriminando  esclusivamente contro lo straripante imperialismo dei primi, stranamente ma significativamente non rifiutava affatto, negli anni ’50, la lotta di classe, anche violenta se necessario, né le azioni rivoluzionarie, né tanto meno gli interventi armati locali delle potenze socialiste. Basta leggere gli atti e gli interventi togliattiani del succitato V Congresso del 1946, per rendersene conto.

Anche la diffidenza cattolica verso le sue perseveranti proposte di collaborazione, di convergenza politica e, almeno sui temi più rilevanti di politica interna ed estera, di unità programmatica, non si può certo dire che fosse palesemente ingiustificata. Basti pensare al discorso di Togliatti al Teatro Brancaccio, il primo dopo la Liberazione, del 9 luglio 1944, in cui avrebbe parlato di una “mano tesa” ai cattolici. Ma l’anno successivo, in un suo discorso del 7 aprile 1945, la “mano tesa” si trasformava in “minaccia” contro le stesse autorità ecclesiastiche della Chiesa cattolica, ritenute colpevoli di interferire nelle scelte e nelle vite dei cattolici che militavano nelle fila comuniste, come rilevava il padre gesuita Riccardo Lombardi, soprannominato “megafono di Dio”, in un articolo intitolato Una “mano tesa” minacciosa. A proposito del discorso di Togliatti, in “La Civiltà Cattolica” del 5 maggio 1945, Quad. 2277, pp. 3-31. Qui, spiegava il celebre oratore cattolico, la tattica politica comunista, e implicitamente togliattiana, «si è venuta affinando con l’esperienza ormai secolare, dei tentativi falliti e di quelli riusciti. Oggi essa può comprendere anche astuzie assai scaltre, e adattamenti provvisori prima impensati: può benissimo comprendere, tanto per citare un esempio molto noto, la “mano tesa” alla Chiesa e la collaborazione chiesta e offerta ai cattolici in determinati momenti, salvo riservare al momento successivo la persecuzione più spietata contro ogni idea religiosa; … dato lo spirito animatore, questa tattica non dimenticherà mai di alternare di tempo in tempo – verso quelli che reputa suoi naturali nemici – le minacce alle carezze» (Ivi, pp. 9-10).

Dal punto di vista del suo programma politico, invece, spiegava Lombardi, il comunismo era di più difficile decifrazione, almeno in apparenza, perché se la giustizia sociale vi campeggiava come scopo certamente desiderabile e condivisibile anche da parte cattolica, d’altra parte la lotta di classe e la negazione della natura sacramentale del matrimonio con conseguente proclamazione del libero amore, rappresentavano forti ostacoli se non veri e propri elementi di rottura circa la possibilità di una convergenza del sentire cattolico con quello comunista. Alla luce di tali considerazioni, come si sarebbe potuto ritenere ingiustificata la diffidenza della Chiesa? (Ivi, pp. 13-14).

La verità è che, osservava padre Lombardi, nei paesi dove «il comunismo si sente debole, lo si vede sempre instaurare la politica della “mano tesa” ai cattolici, dovunque invece arriva da padrone si pone immediatamente all’opera per sradicare ogni religiosità», (Ivi, p. 21). In assoluto, mai nessuno potrà stabilire con certezza quali fossero i reali sentimenti che albergavano nel cuore di Togliatti, ma si può supporre che, senza la sua opera di grande statista, comprensiva anche di un “memoriale di Yalta” per certi aspetti davvero sorprendente, senza la direzione impressa dalla sua strategia politica alla storia dell’Italia postfascista, repubblicana e democratica, l’Italia di oggi non potrebbe disporre dello stesso sistema di equilibri tra i diversi poteri dello Stato di cui, nonostante ogni contingente anomalia, continua a disporre e sarebbe collocata molto diversamente sullo scacchiere politico internazionale. Che non è certo da intendere nel senso che all’Italia, senza Togliatti, le cose sarebbero andate meglio.

Per un certo periodo di tempo, Togliatti avrebbe anche avuto degni discepoli: tra questi, contrariamente alla svalutazione politica che ne avrebbe dato Luciano Canfora, di certo Enrico Berlinguer, che avrebbe ribadito un concetto particolarmente caro all’autorevole padre fondatore del “nuovo partito” comunista italiano: «2 giugno 1946 – 7 giugno 1970: un quarto di secolo, durante il quale il popolo italiano ha compreso sempre di più, ha toccato con mano, che per andare avanti sulla strada della democrazia, dell’esercizio della democrazia in ogni campo, dell’estensione del metodo democratico in ogni sede, in ogni organismo, in ogni istituto rappresentativo, bisogna uscire dall’anticomunismo, bisogna abbandonarlo definitivamente, altrimenti si diventa inesorabilmente antidemocratici» (E. Berlinguer, La DC ha paura?, in “Rinascita” del 29 maggio 1970).

Francesco di Maria

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