La stupidità umana è una forza illimitata, irrazionale, contagiosa e spesso inguaribile della natura. Einstein pensava che essa fosse, con ogni probabilità, ancora più incommensurabile dell’universo. Si può dire che la stupidità nasca con Adamo ed Eva, che furono così stupidi da perdere il paradiso e l’immortalità per una semplice mela. Ma, poiché entrambi erano per volere divino creature intelligenti, la loro stupida trasgressione significa che intelligenza e stupidità non sono necessariamente incompatibili sotto l’aspetto umano e creaturale, anche se, indubbiamente, l’essere più intelligenti che stupidi è preferibile all’essere più stupidi che intelligenti. E, in tal senso, chi è più intelligente che stupido può ancora sperare di appartenere ad un’umanità fallibile ma non ancora anomala e abnorme. Però, questo ragionamento vale se per intelligenza non si intenda semplicemente cultura settoriale o specialistica, cultura tecnico-cognitiva applicata ad un determinato campo professionale di studi o di attività, né cultura etica o religiosa in senso normativamente teorico-conoscitivo, ma principalmente l’insieme delle modalità in cui e le ragioni intenzionali per cui le varie forme di sapere vengano esercitate in un determinato modo e per un determinato scopo. Causare o tentare di causare un danno, di qualunque genere, a qualcuno o a gruppi di individui senza conseguire benefici per se stessi o subendone solo svantaggi: questo sarebbe il profilo, per il sociologo Carlo Cipolla1, del perfetto imbecille. Ma io non sono d’accordo: non perché non condivida le leggi della stupidità elencate dal sociologo citato, tra cui quella per cui lo stupido può essere persino più pericoloso del bandito, ma semplicemente perché, se tutti coloro che agiscono culturalmente e civilmente, seppur aspramente, contro qualcuno senza essere sicuri di trarne solo dei benefici e nessun danno per se stessi, andassero annoverati tra gli stupidi del mondo, ciò equivarrebbe a voler riempire quest’ultimo di codardi o di intelligenti in quanto virtualmente codardi.
Al contrario, chi reagisce, per motivi di etica razionale, a un’ingiustizia conclamata, o prende posizione contro le dotte ma insopportabili corbellerie della cultura ufficiale, o tenta di sottrarsi all’asfissiante conformismo del “pensiero unico” e del “politicamente corretto”, anche per mezzo di strumenti per niente galanti o cortesi ma ruvidi e severi di comunicazione e/o di confronto, non è affatto, già solo per questo, uno stupido, quali che siano le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole2.
Altrimenti, eroi, rivoluzionari, profeti e testimoni eccelsi di verità e umanità, non potrebbero più meritare di essere elogiati ma solo di essere vituperati e condannati all’oblìo degli uomini e della storia. E, d’altra parte, non è affatto o necessariamente vero che gli intelligenti sarebbero coloro, come ritiene Cipolla, che dono in grado di perseguire il proprio utile e quello degli altri: Gesù è l’esempio lampante di come l’intelligenza, in questo caso sacrificale e salvifica, obblighi talvolta a non perseguire né vantaggi personali, né, almeno nell’immediato, vantaggi di carattere sociale o collettivo. Certo, è pur vero che molti di noi, più in generale, e anche molti di noi cattolici, sono stupidi senza saperlo o più stupidi di quel che sarebbero disposti ad ammettere, e che siano portati a considerare stupidi solo coloro che non sembrerebbero rientrare nei propri ordinari schemi mentali. Quindi, non è affatto semplice stabilire se e in che misura si possa essere realmente stupidi o stupidi in senso recidivo.
Tuttavia, chi tende a ripetere meccanicamente sempre discorsi standardizzati e rancorosi e a comportarsi in modo sistematicamente negativo, non essendo capace di capire in modo chiaro la ratio di quel che fa o del modo in cui agisce, né pertanto di autocorreggersi, è molto probabilmente affetto da una qualche forma di imbecillità inguaribile. Con ciò, tuttavia, non può escludersi che anche chi abbia un modo di pensare e agire diametralmente opposto, per esempio un modo calmo, posato, apparentemente riflessivo e saggio, e di ragionare e di comportarsi, anche in virtù di una complessiva condizione di vita privilegiata o almeno agiata e rassicurante, non possa essere un portatore sano di stupidità: il mondo è pieno di gente esteriormente equilibrata che però non fa altro che coltivare intimamente e manifestare indifferenza e/o disprezzo per le cose, le azioni o le opere altrui, anche quando non siano universalmente degne di riprovazione.
Gli stupidi, da quelli più appariscenti a quelli più complessi o nascosti, sono dappertutto, in famiglia o in ambito parentale, tra i vicini di casa o i colleghi di lavoro, in parrocchia o nella sede sindacale o del partito politico che frequentiamo, ma poi anche tra ceti lavorativi e professionali di ogni ordine e grado, tra gli intellettuali, gli ecclesiastici, i graduati di qualunque ordine istituzionale e gerarchico: insomma, anche a volersi isolare, in qualità di ipotetici soggetti non più affetti o guariti dalla patologia in parola, nel più remoto angolo di mondo, scelta a sua volta non denotante forse una particolare intelligenza, lo stupido sarebbe pressoché impossibile evitarlo. Sono in molti a chiedersi se sia possibile riconoscere per tempo, prevenire e curare la stupidità3, non la stupidità purtroppo dovuta a fattori genetico-ereditari o di natura traumatica, che è un tema assolutamente distinto da quello della stupidità o dell’imbecillità in quanto fenomeno interno alla sfera etico-antropologica dell’individuo libero, sia pure a livelli o in forme elementari di comunicazione e relazione interpersonale, di intendere e volere.
Da un punto di vista morale e religioso sarebbe peraltro opportuno e necessario approfittare della stupidità che, in misura maggiore o minore, è presente in ognuno di noi, in forme più colte o meno colte, per tentare di migliorarsi e liberarsi dagli errori commessi appunto per stupidità, umoralità, superficialità, e anche per cooperare agli sforzi degli uomini e delle donne migliori di noi di ridurre il grado, purtroppo sempre troppo alto, di incomunicabilità e di latente conflittualità presenti nella vita associata e in più circoscritti rapporti interpersonali. Ma, purtroppo, lo stupido, nel senso più proprio e negativo del termine, è colui o colei che, pur riconoscendo la veridicità di quanto appena sopra precisato, non sanno di essere stupidi o, forse meglio, che, troppo pesantemente soverchiati da condizionamenti interni quali scarsa capacità intellettiva, o mediocre capacità intellettuale di leggere e interpretare i problemi del sapere e le realtà del mondo, oppure anche boriosa e saccente autoreferenzialità culturale, non fanno abbastanza o non si sentono abbastanza motivati moralmente per tentare di ridimensionare, soprattutto nel quadro di rapporti umani particolarmente ravvicinati e diretti, il proprio ego, e per tentare di evitare di proferire, non di rado, persino in pubblico, colossali castronerie.
Può essere utile il riferimento a qualche precisa esperienza personale di vita. Io conosco sin dall’infanzia due persone coniugate, che qui designeremo come P. e G., le quali, sin da bambino ho cercato sempre di rispettare e amare quantunque frenato dal loro modo distaccato di manifestarmi affetto, comprensione e, col passare degli anni, amicizia e stima. Quel che oggi di essi mi resta impresso nell’animo è non solo la loro tracotante ignoranza di nascita e di formazione che vorrebbero mascherare con una propensione logorroica e sempre sottilmente velenosa a parlare di tutto e, solo nel caso della signora G., con una finta e ipocrita umiltà, ma anche e soprattutto la loro più totale indifferenza a tutto ciò che, con le migliori intenzioni etico-affettive, io abbia sempre tentato di comunicare o spiegare loro: segno evidente che, per tutta una vita, costoro non abbiano mai ritenuto di potersi avvalere né della mia umanità, né della mia intelligenza. Che è un fenomeno forse infrequente ma non rarissimo. E allora cos’altro resta, anche da un punto di vista evangelico comprensivo dell’esortazione “a non gettare le vostre perle ai porci”, se non tagliare totalmente i ponti con chi neppure si preoccupa di verificare se io abbia delle perle da offrire, con chi vorrebbe trattarmi come una semplice e inerte valvola di sfogo?
Conosco anche persone che non salutano mai per prime, restando sempre in attesa di contraccambiare il saluto per graziosa concessione, o altre che, per pura boria personale, pretenderebbero di essere comunque salutate: in tali casi, pur non essendo sicuro di quel che consiglia il vangelo, ritengo ragionevole seguire l’impulso a ignorare questi individui. Voglio ricordare anche un altro episodio della mia vita universitaria fiorentina e relativo ad un esame di storia della filosofia che, nel corso del 1969 o del 1970, mi toccò dare, per regole allora in uso almeno nella facoltà fiorentina di filosofia, seduto allo stesso tavolo di un altro esaminando, noto per essere uno dei leaders del movimento studentesco fiorentino. Il suo nome era e spero sia Gianpasquale Santomassimo, diventato poi, in qualità di “protetto” dello storico Ernesto Ragionieri, docente universitario oltre che collaboratore del quotidiano “Il Manifesto”. Dopo aver io sostenuto brillantemente il mio esame al cospetto del prof. Paolo Rossi, che presiedeva l’esame, anche sulla base di un’ottima relazione scritta su Jean-Jacques Rousseau, era il turno di Santomassimo, cui era noto il mio cattolicesimo critico non solo e non tanto della teoria marxiana o marxista che dir si voglia, ma soprattutto dell’interpretazione disinvolta e infantile, palesemente strumentale e demagogica che lui ne dava con i suoi compagni di lotta. Egli, ancor prima che Rossi gli rivolgesse la prima domanda, iniziava il suo colloquio d’esame con un preambolo a dir poco irrituale: “Professor Rossi, a differenza di Luciani che, pur studiando molto, non lo dimostra, io andrò subito all’essenziale”. Io stetti zitto, naturalmente, accettando provvisoriamente quella patente di stupidità. Rossi, senza batter ciglio, formulava intanto la sua domanda, peraltro molto generica, e Santomassimo, con la sua consueta flemma, cominciava a bisbigliare qualche parola di carattere introduttivo, finché, dopo non più di un minuto dall’inizio del suo colloquio d’esame, si interrompeva in modo improvviso cadendo e annientandosi in un prolungato e imbarazzante silenzio.
Benché timoroso delle reazioni che la mia iniziativa quasi certamente avrebbe comportato, non seppi e non volli astenermi dal dire rivolgendomi proprio a lui: “Vedi Santomassimo, la differenza tra me e te, è che io forse non dimostro di valere per come studio ma di saper sostenere un esame brillantemente, mentre tu, quando io e te siamo messi in condizioni effettive di parità, dimostri di valere esattamente per come studi, cioè di non valere molto semplicemente perché non studi, anche se poi molti docenti di questa facoltà universitaria consentono a te e ai tuoi compagni di fede ideologica e politica, di superare esami semplificati al limite dell’indecenza”. Avevo peccato di sfrontata e deliberata temerarietà e se ne possono facilmente immaginare gli sviluppi, ma mi limito a dire come sarebbe andata a finire: a me fu dato 28, a Santomassimo 30, nella più totale impassibilità dell’esimio prof. Paolo Rossi Monti. Da quale parte stava, in questo caso, la stupidità, da quale parte l’intelligenza e la moralità: dalla mia parte o dalla parte dell’affiatato tandem ideologico Rossi-Santomassimo? Scusatemi per la seguente, rapida digressione dedicata a quest’ultimo: «come te la passi Santomassimo, spero che tu goda ancora di buona salute. Ho visto che hai fatto carriera grazie al non compianto Ernesto Ragionieri: gli devi tutto! Almeno sei riuscito a ringraziarlo in modo adeguato? Vedo che voi rossi vi siete estinti ma, per quanto defunti, vedo anche che, di metamorfosi in metamorfosi, volete continuare a dettar legge come nel ’68. Anche noi cattolici, per voi spesso più simili ai fascisti che ad integri democratici, siamo in rapida estinzione; però, diversamente da voi non amiamo più esercitare direttamente il potere, sbagliando, perché, magari profondamente rinnovati nel cuore e nella mente, avremmo dovuto e dovremmo continuare ad essere ancora, in massa e non in pochi, sulle barricate a resistere contro i prepotenti, prima che contro i potenti, di ieri e di oggi. Scrivimi, se vuoi, purché non mi inviti a fare a cazzotti con te, dal momento che, sebbene più vecchio e decrepito di me, sul piano fisico, e solo su quello, saresti ancora molto più forte di me».
Chi è non lo stupido ma il più stupido? Io o Santomassimo, al quale ho appena dato, se è ancora in vita, una concreta opportunità di replica e di confronto o, se proprio vuole, ormai anche di scontro? Spero che venga ben colto il significato delle mie esemplificazioni, riservandomi di aggiungerne molte altre in una prossima occasione: qui sulla terra o forse in un luogo intermedio tra terra e cielo, dove anche l’attendibilità dei miei racconti sarà vagliata severamente da un giudizio inappellabile. I Santomassimo, non meno dei non paludati ma ugualmente pretenziosi P. e G., per concludere il commento al mio vissuto personale, avrebbero ancora la possibilità di dimostrare che si può anche non essere imbecilli per tutta la vita, che dalla stupidità si può anche guarire, così come dal peccato che penetra persino nei pensieri più intimi e nascosti di ogni individuo ci si può liberare solo consegnandosi senza inconfessate ipocrisie a Cristo. Peraltro, potrebbero aiutarmi a riconsiderare le mie valutazioni e a rendermi più gradito agli occhi di Dio. D’altra parte, analoghi rilievi critici non posso non fare per un clero diocesano cosentino non solo, in gran parte, presuntuosamente e miopemente autoreferenziale, ma evangelicamente impreparato a sperimentare il senso del sacro, la presenza della divinità, negli eventi più ordinari e apparentemente più insignificanti della realtà quotidiana, e pavidamente incline ad allontanare da sé chiunque nei suoi confronti provi ad adottare con spirito evangelico non solo un comportamento rispettoso e riconoscente ma anche un linguaggio franco e irritualmente critico e destabilizzante.
Questi pur pochi riferimenti al vissuto personale, che potrebbero sembrare poco pertinenti ai fini di una critica teorico-politica della sinistra, in realtà sono parsi preliminarmente necessari per mostrare come ai problemi, alle contraddizioni e alle anomalie, della vita politica, io non mi sia mai accostato in chiave puramente e astrattamente teorica, ma anche sulla base di concrete e intime esperienze personali che, benché forse viziate da qualche eccesso di soggettività, hanno contribuito ad affinare la mia capacità di analisi e di giudizio anche in relazione ai temi generali del sapere, della politica e della storia. Essi, in tal senso, a mio parere, hanno rafforzato e non indebolito l’oggettività tendenziale della mia riflessione filosofica sulla vita intellettuale e accademica non meno che sulla prassi politica e istituzionale e sul diffuso malcostume sociale che ama nutrirsi, soprattutto per volgari motivi di bottega, di adesione acritica a correnti modelli culturali, spesso basati, tanto sul versante progressista quanto su quello conservatore o tradizionalista, su pratiche collaudate di indebita ma ricorrente manipolazione conoscitivo-scientifica, informativa e culturale4.
Certo, è difficile trovare qualcuno che non sia dedito, indipendentemente da specifiche appartenenze politiche e ideologiche, religiose e culturali, ad una qualche attività manipolatoria, che però produce virtualmente effetti più benefici se o quando vi si ricorra con non maliziosa ingenuità per scopi educativi, formativi, responsabilmente emancipativi, ed effetti decisamente negativi tutte le volte che vi si ricorra per rincorrere obiettivi angustamente individualistici e rispondenti a passioni e ad aspettative becere e turpi di infimo valore civile e democratico. Ricordo ancora le parole pronunciate da Luigi Pintor in una sua intervista del 1983: «È necessario un grande sforzo culturale, rispetto al quale la sinistra è in ritardo, in ritardo nelle idee e negli strumenti di conoscenza e di intervento. Ci sono deformazioni della vita associata, e degenerazioni dell’organizzazione statale, che la cultura di destra legittima e perfino esalta come risvolti dello sviluppo, della modernità, del libero mercato, del successo individuale …. La sinistra ha fatto bene a disfarsi di vecchi miti, a riaffermare la sua piena laicità, ma non può vivere e vincere senza valori ideali, che sono poi quelli di cui il movimento operaio è portatore da sempre – pace, giustizia, eguaglianza, lavoro, sapere, solidarietà – ma che hanno bisogno dì essere diversamente pensati e tradotti, perché si applicano a una realtà diversa. Devono ridiventare anch’essi senso comune»5. Già allora Pintor riconosceva le deformazioni della vita associata e le degenerazioni dell’organizzazione statale, pur attribuendone ogni responsabilità alla destra che le avrebbe persino esaltate come inevitabili conseguenze dello sviluppo, della modernità, del libero mercato e del successo individuale. Ma, ammesso con riserva che quell’analisi fosse giusta, quali forze politiche italiane esaltano oggi o tollerano maggiormente gli eccessi della modernità, del libero mercato, del profitto illimitato, dello stesso utilitarismo individualistico, quali forze sono ora consapevoli di quale sia la morale della storia, quali di esse sono ormai realmente più vicine alle masse popolari e sono più dedite a servire che a servirsi: quelle di destra o quelle di sinistra?6.
Non è forse vero che la domanda di protezione sociale emergente dal contesto storico nazionale dell’ultimo ventennio del ‘900 sia stata intercettata non certo dal Partito Democratico, ancora oggi intriso e sempre più cinicamente intriso della matrice liberale di quegli anni molto più che di una minoritaria matrice riformista e socialista pure di esso costitutiva, bensì dal messaggio nazionalconservatore a sfondo localistico e autonomistico della Lega di Matteo Salvini e, soprattutto, da quello meloniano, incentrato su un principio di forte coesione sociale, di marcato accentramento dei poteri e di difesa programmatica dell’unità e degli interessi nazionali? Ometto di far riferimento al partito di Forza Italia, che delle componenti politiche della destra italiana è sempre stata quella più trasformista e ricettiva di posizioni e interessi tradizionalmente qualunquistici e sensibili alle sirene della tranquillità economica e sociale, del facile successo finanziario, della più sfrenata celebrazione edonistica dell’utile e del piacere personali, nel quadro di una politica estera pragmatica e volta a preservare gli equilibri politici e militari internazionali, e che non a caso oggi sarebbe già pronta a rimescolare le carte per dar luogo, insieme al confuso fronte democratico-progressista, ad un governo più rassicurante di quello a guida meloniana.
La sinistra, diceva ancora Pintor «non può vincere senza valori ideali» come pace, giustizia, eguaglianza, lavoro, sapere, solidarietà. Nell’elenco pintoriano non compariva un altro valore, il più importante di tutti: la verità, pur così centrale nella stessa cultura sovietica (si ricordi la “Pravda”, il celebre quotidiano russo fondato non casualmente nel 1912 a San Pietroburgo non dai professionisti bolscevichi della rivoluzione ma da semplici operai residenti in quella città, da un popolo urbano che reclamava innanzitutto un linguaggio politico fondato sulla verità). Ma la sinistra democratica di Elly Schlein, emersa dai sotterranei di una politica oscura e indecifrabile, sembra voler vivere non di verità quanto di menzogna e di volgare banalità, di cui anche non pochi cittadini sono soliti alimentare la propria esistenza, al di là di opzioni ideologico-politiche professate pubblicamente. Cosa ci sarebbe, infatti, di ragionevole e razionale nella piattaforma politica di un partito che osteggi apertamente visioni non tanto omofobe e repressive quanto legittimamente e responsabilmente contrapposte a quelle di quanti, per suggestioni di natura irrazionale, vorrebbero sperimentare il brivido non libertario ma liberticida di concorrere ad avviare già questa terra verso un gigantesco inferno di pervertiti e di dannati? Oggi si ha a che fare con una sinistra non solo teoricamente ed eticamente incolta ed incapace di elaborare una significativa strategia di azione politica sulla base degli impegnativi valori ideali indicati da Pintor, ma umoralmente connotata dalla voglia infantile di riprendersi un potere appena perduto e senza la cui riconquista essa sente di non avere più alcuna ragione di esistere. Non c’è altro.
La globalizzazione, massacrando i diritti sociali e trasferendo in gran parte lo scontro sociale sul piano dei diritti civili, produce molti “vincitori” tra le élites, ma milioni di perdenti nel popolo, perdenti che un tempo sarebbero stati difesi dalle sinistre ma che oggi sono abbandonati a se stessi, o meglio sospinti verso la destra conservatrice e tradizionalista. La sinistra odierna, ha scritto de Benoist, è mondana e arrogante, edonistico-libertaria, postsessantottina, molto meno interessata a tutelare gli interessi di una pur superstite classe operaia che a patrocinare la critica degli stereotipi di genere e la causa della omogenitorialità , la causa degli immigrati più o meno clandestini, dei diritti di qualunque minoranza purché non antiprogressista, e poi naturalmente il “politicamente corretto”, là dove questo liberalismo culturale ha finito per allearsi organicamente con il liberismo economico nel «distruggere tutte le forme tradizionali di esistenza, a cominciare dalla famiglia, che è una delle ultime isole di resistenza al regno del solo valore commerciale»7.
Si tratta di una sinistra meramente strumentale, di una sinistra per la quale ogni atto politico venga concepito in funzione di una agognata supremazia politico-elettorale che consentirebbe, come già in passato, di soddisfare richieste e aspettative di ben precisi circuiti clientelari di riferimento di cui ovviamente, alla luce degli atti politici di governo del Partito Democratico nell’ultimo decennio, non potrebbero fare più parte né ceti operai, né ceti contadini e dediti all’agricoltura, né quella stessa piccola e media borghesia verso cui non era stato affatto disattento il partito di Togliatti, Longo e Berlinguer8. E si tratta di una sinistra ormai eticamente così limitata da convincersi di poter conquistare e poi conservare un eventuale primato politico dedicandosi essenzialmente alla problematica dei cosiddetti diritti civili, senza minimamente sospettare che, prima o poi, proprio questo suo impegno non solo molto discutibile nei modi e nelle forme giuridico-legislativi ma unilaterale e sproporzionato rispetto a ben più rilevanti e oggettivi problemi nazionali, potrebbe rivoltarsi violentemente contro di esso. Solo la sfrontatezza più pacchiana può consentire ad una privilegiata sociale come Elly Schlein di dichiarare in questi giorni che il governo Meloni «non ha visione», una parola di cui la segretaria del PD ignora probabilmente il significato e le implicazioni. Ma a non avere visione sono piuttosto tutti coloro che non hanno il senso della nazione e della patria, che dichiarano programmaticamente guerra ai valori della tradizione e della fede, che si adattano passivamente e opportunisticamente a tutte le direttive dei “poteri forti” operanti in Europa e nel mondo, che intendono demagogicamente l’uguaglianza sociale in senso antimeritocratico, che hanno una concezione molto limitata e faziosa della società e della socialità, che non riescono ancora a capire che cosa significhi che l’Italia è una comunità nazionale da servire secondo giudizio e giustizia e non da asservire secondo canoni aprioristici e soggettivistici di natura ideologica, e che tentano sempre, in modo palesemente stupido e disonesto, di ridimensionare le vittorie politico-elettorali degli avversari, nel caso specifico quelle della destra e più segnatamente della destra meloniana, alla luce di un argomento semplicemente risibile: quello per cui l’astensionismo elettorale in Italia sarebbe così alto da non consentire di trasformare il successo della destra in qualcosa di particolarmente eclatante, quasi che gli astenuti fossero in massa virtuali sostenitori delle politiche di sinistra; inoltre, anche a non voler sottovalutare il lusinghiero risultato ottenuto di recente dalla destra, in fondo la percentuale dei voti andati a quest’ultima resta largamente inferiore al 50% dell’elettorato, donde la destra sarebbe ancora minoranza in Italia.
Non penso sia opportuno rispondere ad argomentazioni così sciocche e demenziali, perché esse sono già molto mortificanti per quanti, pur politici di lungo corso e intellettuali riconosciuti, non hanno avuto alcun pudore nell’esprimerle9. Addirittura confuso e paranoico è il commento che viene da un politologo come Marco Revelli: non è vero che l’egemonia politica si sarebbe spostata a destra, «l’egemonia è lontana. E proclamare che “i cittadini stanno dalla nostra parte”, come ha fatto la premier, è una spacconata»10. Che possa trattarsi di spacconata è possibile, perché i politici, specialmente quelli vincenti anche se realmente capaci, lo sono un po’ per natura tutte le volte che ritengono politicamente utile enfatizzare i propri successi. Ma già se si pensa alle spacconate giornaliere di tanta sinistra ciarlatana e strafottente, a cominciare da quella per cui il futuro politico dell’Italia verrebbe da “una donna forte”, come Revelli definisce Schlein, che tuttavia è una donna venuta dal nulla e per possibili vie traverse, eticamente fragile e non dotata di una cultura politica molto più ampia e articolata della cultura gender, qualche spacconata di Giorgia Meloni può solo innervosire quanti, da falsi democratici, continuano a non sopportare l’idea che in Italia l’attuale sinistra potrebbe essere, per diverso tempo, chiusa nell’angolo.
La democrazia, piaccia o non piaccia, è quella che viene esercitandosi secondo fondamentali e inamovibili princìpi costituzionali e secondo le leggi politico-elettorali e politico-parlamentari di volta in volta approvate dal parlamento e poste in essere dal governo con la formale approvazione del Capo dello Stato. Il resto è chiacchiera, è pura recriminazione che, a seconda di come vadano le cose, qualunque parte politica può venire esprimendo, è cioè semplice manifestazione di stupidità, anche perché va ribadito che il partito del non voto è sempre esistito, in misura più o meno accentuata ma pur sempre rilevante, senza che per questo si montassero in passato inutili e capziose polemiche. Oggi, piuttosto, dalle più recenti elezioni politiche ed europee, è emerso che una vasta area del popolo italiano ha decretato il fallimento di una sinistra parolaia, astrusa, ipocrita e bugiarda, autoritaria, antipatriottica, antisovranista (non si capisce per quale motivo la sovranità nazionale italiana dovrebbe valere e contare meno di quella francese o tedesca), genericamente riformista e sempre più distante dalla gente comune, che vorrebbe porre un limite preciso all’immigrazione, sia clandestina che regolare, che ritiene giusto evadere le tasse se troppo esose, che reputa sempre troppo alta e incontrollata la criminalità esistente, giudicando altresì sconsiderata la continua estensione di diritti a gay, lesbiche e trans, e troppo indiscriminata e imprudente l’ospitalità concessa a soggetti di fede islamica non disposta ad integrarsi nel tessuto culturale-giuridico-sociale italiano11.
Si dirà che una sinistra, in quanto tale, non potrebbe mai far proprie queste istanze in sede politica e culturale, anche se sussistono buoni motivi per credere che, se questa sinistra volesse minimamente provare a rimanere sulla scia di una sinistra storica togliattiana e posttogliattiana, non dovrebbe trovare ripugnante il dovere di comprendere la razionalità e la natura perfettamente democratica di queste esigenze popolari, ma il problema è appunto che questa sinistra è una sinistra improvvisata, senza radici, è una sinistra liberal, individualista, che non ha niente a che fare con una sinistra classica imperfetta ma generalmente morigerata nei costumi e sempre pronta a sintonizzarsi senza preclusioni con i disagi, i bisogni e le richieste di masse sofferenti e oberate di faticoso lavoro. La sinistra attuale è la sinistra che preferisce ritrarsi dinanzi a domande popolari che sembrano collidere con i princìpi e i valori di una modernità ormai confluita nel “politicamente corretto”, anche se almeno i pochi apostoli superstiti di una sinistra comunista coerentemente impegnata nel mondo del sociale e del lavoro dovrebbero pur richiamarne gli indegni eredi o i perfidi usurpatori ad un più realistico e responsabile approccio etico ai problemi della rappresentanza politico-parlamentare del tempo presente.
Ma la sinistra attuale non è intelligente, perché troppo intrisa di viscerale e fanatica, individualistica autoreferenzialità, che condanna i suoi esponenti al pubblico disprezzo e alla pubblica lode solo di coloro che, senza saperlo, si trovano ad essere asserviti all’infame e mai estinto culto dell’io12. Né è realistico pensare che la sinistra possa tutelarsi e rinnovarsi continuando a celebrare stancamente e polemicamente, quali che siano i temi specifici di discussione, una resistenza antifascista di cui nessuno ormai ignora il valore etico-politico e che, anche da un punto di vista simbolico, può essere usata solo in modo stupidamente strumentale contro il governo in carica. Bisognerebbe anche capire che le sfide politiche dell’attuale momento storico non sono solo o soprattutto quelle relative ai modi di fronteggiare i cosiddetti cambiamenti climatici e le trasformazioni tecnologiche e geopolitiche, o quelle relative alla ricerca dei criteri e degli strumenti più efficaci di contenimento della spesa pubblica e di razionalizzazione delle risorse economiche e finanziarie disponibili. Non si tratta, cioè, di sfide che comportino semplicemente soluzioni di natura quantitativa o contabile, ma di sfide che impongono, in una certa misura, e a dispetto di una retorica politica nazionale ed internazionale che continua a predicare irrealisticamente un graduale e contemporaneo innalzamento qualitativo di tutti i comparti della vita economico-produttiva, sociale, istituzionale, culturale degli Stati, delle scelte alternative sia pure in una logica programmatica di priorità che preveda la rotazione periodica dei settori cui destinare di volta in volta l’erogazione di fondi finanziari: più infrastrutture e maggiore sviluppo economico oppure maggiori e più concreti aiuti agli strati marginali della popolazione, maggiore incremento della formazione scolastica ed educativa oppure maggiore incremento della ricerca scientifica e tecnologica, maggiore incentivazione delle politiche sanitarie piuttosto che delle politiche dello sport e dello spettacolo, delle politiche abitative e per la famiglia piuttosto che delle politiche socio-assistenziali, e via dicendo.
Non si tratta, beninteso, di trascurare un settore a vantaggio di un altro, ma di fare delle scelte precise e mirate, con spirito inclusivo, a fare in modo che il tenore di vita della società e dello stato venga curato non epidermicamente secondo politiche di intervento indifferenziato e simultaneo su una molteplicità di voci e capitoli di spesa, ma secondo politiche concepite e predisposte sulla base di oggettive priorità di ordine pubblico individuate e certificate dai governi di volta in volta in carica e finalizzate a soddisfare pienamente ciascuna priorità, prima di programmare burocraticamente ulteriori interventi con relative spese. Curare ogni singola parte per curare metodicamente e realmente l’intero di uno Stato, piuttosto che curare genericamente e dispersivamente l’intero per non curare mai compiutamente ed efficacemente le singole parti. Se l’economia non è esercitata come cura, non potrà mai perseguire coerentemente gli scopi ad essa inerenti13.
Sussistono, tuttavia, questioni ancora più divisive tra questa sinistra e la destra momentaneamente di governo, questioni che attengono strettamente i valori fondativi della nostra democrazia repubblicana. Volendo seguire la schematica ma incisiva classificazione di Marcello Veneziani, se «la parola che solitamente concentra i valori della destra è identità», quella «che riassume i valori della sinistra è oggi inclusione»14. L’originaria natura identitaria di destra sarebbe espressa dall’ottocentesca quanto ormai equivoca formula “Dio, patria e famiglia” che effettivamente, non di rado, nella storia del ‘900, pur usata essenzialmente in funzione antibolscevica, avrebbe assolto la funzione ideologica di legittimare forme di razzismo, di odio e discriminazione, di autoritarismo dittatoriale di tipo fascista. Senonché, osserva lo scrittore pugliese, «l’ideologia dell’inclusione curiosamente si fonda sull’esclusione di tutti coloro che non si riconoscono in quel trittico – gay, migranti e antifascisti – che costituisce il canone e il codice identificativo della sinistra. Per la sinistra la destra si arrocca nell’identità che genera a suo dire esclusione, supremazia e discriminazione». Ma «in realtà, cancellare o mortificare le identità dei popoli, delle nazioni e delle persone significa privare i più indifesi, i perdenti della globalizzazione, dell’unica certezza e dell’unico capitale sociale di cui dispongono: il loro legame col territorio, il loro essere italiani, la loro comunità famigliare e sociale. Se togliamo loro anche quello, e quell’ombra di fierezza d’appartenenza e di affetti, li riduciamo a ombre fragili e fluttuanti che vivono schiacciate tra consumi a loro scarsamente accessibili e migranti che occupano i loro spazi vitali, sociali e spesso anche lavorativi»15.
Non solo: una intelligente ed equilibrata, ovvero non strumentale e non demagogica, politica dell’inclusione e dell’accoglienza, non dovrebbe essere concepita come apertura aprioristica e indefinita a tutte le realtà umane del mondo, a qualunque forma di diversità, a qualsivoglia differenza comportamentale ed etnico-religiosa, perché nel mondo si danno anche realtà umane inaccettabili o insostenibili da parte di Stati che, già al loro interno, abbiano problematiche oltremodo difficili di convivenza civile; certo, perché non è affatto scandaloso sostenere che si diano forme di diversità incompatibili con esigenze elementari di ordine e decoro pubblici, e differenze esistenziali talmente radicalizzate da risultare realisticamente inconciliabili con la legittima esigenza di intere comunità nazionali di poter affrontare le difficoltà quotidiane, i conflitti giornalieri in qualunque ambito di vita civile, senza abnormi dosi aggiuntive di tensione sociale, di logoramento psicologico e morale individuale e collettivo.
E’ semplicemente stupido affrontare problematiche oggettiva-mente complesse di questa natura, nel nome di un’etica umanitaria universale o di una fede cristiana brandite come strumenti psicologici di ricatto. Da un punto di vista etico e, ancor più, da un punto di vista evangelico, l’amore verso quel prossimo e quei bisognosi, forse realmente bisognosi di stabili inclusione e accoglienza, non può e non deve essere mai esercitato a detrimento di questo prossimo e di questi bisognosi che peraltro, pur da sempre residenti in un determinato territorio, non godano ancora di condizioni sufficientemente dignitose e tranquille di vita. L’amore e la carità sono precetti vincolanti nell’ambito dei comportamenti personali, dei rapporti privati, pur restando fonte preziosa di ispirazione per la stessa politica degli Stati. Ma qui la materia è, per l’appunto, politica e trascende la moralità individuale, dovendo essere gestita in base a princìpi, a leggi, a norme dello Stato, di quel Cesare legittimato da Cristo ad esercitare la sua autorità nel nome e per conto dei suoi sudditi o cittadini, e in funzione del loro legittimo interesse a vedersi garantire un grado almeno accettabile di sicurezza e di benessere. La carità, da non identificare con la filantropia, è privata e volontaria, la giustizia è pubblica e obbligatoria, anche se questo non significa che la giustizia di uno Stato non debba essere inclusiva e caritatevole anche verso stranieri o migranti nei limiti in cui riesca ad assicurare innanzitutto la sicurezza e la libertà dei suoi amministrati residenti16. Fra carità e giustizia sussiste una limitazione reciproca, e quindi una tensione irrisolvibile, che un cristiano consapevole deve riconoscere e umilmente accettare, senza cercare facili scorciatoie e senza tentare di forzare la ragione e il senso più propri di entrambe.
L’inclusione etico-politica non esclude l’esclusione nei limiti in cui, per tutelare doverosamente, nell’ordine delle cose e delle necessità temporali, i propri cittadini, uno Stato si assuma la responsabilità di fissare dei limiti a politiche pure doverose o necessarie di inclusione e integrazione multietniche e culturali. Si potrà anche verificare criticamente se, di volta in volta, sarà stato fatto tutto il possibile, ma il principio della legittimità morale e politica dello Stato di decidere autonomamente sul piano legislativo, in materia di immigrazione, di multiculturalità, di libertà sessuale, è da ritenersi, anche da un punto di vista religioso e cattolico, assolutamente inviolabile, almeno fino a quando le disposizioni dello Stato non risultino palesemente conflittuali con i precetti divini correttamente intesi e vissuti. Ciò significa che se i laici progressisti non hanno alcuna facoltà di pretendere di imporre limiti legislativi ai governi legittimamente costituiti dello Stato, salvo invece poterne contestare democraticamente le decisioni, anche e soprattutto la Chiesa non ha alcun diritto di interferire nelle libere determinazioni statuali con sistematiche e astiose reprimende a carico di quegli Stati, in primis l’Italia, che non pensino che sia sempre e solo evangelicamente doveroso aprire porti e confini verso sconfinate masse di pur disperata umanità e offrire inclusione anche a soggetti che siano deliberatamente portatori di violenza o disordine morale: in presenza di un’immigrazione ormai incontrollata occorrerebbe peraltro chiedersi se quelle masse non siano indotte a un infinito esodo per ragioni solo in parte comprensibili ma, con ogni probabilità, soprattutto per ragioni che più o meno occulti gruppi internazionali di potere pongano non da oggi alla base di una strategia politica volta a modificare profondamente, in prospettiva, l’attuale situazione demografica e geopolitica del mondo. Cosa poi possa concretamente guadagnare la sinistra, in termini politici, da una graduale, pacifica ma indotta “sostituzione etnica” degli italiani con i migranti e da unioni senza figli tra individui dello stesso sesso17, e come possa coerentemente onorare la Chiesa la sua causa apostolica e missionaria finanziando le O.N.G del mare, in palese contrasto con le direttive dello Stato italiano, francamente è molto difficile da comprendere.
Lo stesso discorso bisogna fare per la guerra, ormai indigesto pane quotidiano del nostro vivere. La guerra è male, la guerra è ingiusta, la guerra è eclatante violazione del diritto naturale alla vita e della vita come dono divino. Ma così come uno strumento di morte, come una spada, un pugnale, un’arma da fuoco, possono rivelarsi talvolta necessari anche per salvare la vita di persone o popoli, allo stesso modo la guerra si rende talvolta necessaria, e giusta in quanto necessaria, per evitare che intenzioni e atti di manifesta e arbitraria sopraffazione possano tradursi in una perdita di indipendenza e sovranità per determinati popoli colpevoli di volerle esercitare senza sottostare a pretese o condizionamenti esterni di sorta. E, per questo motivo, il pacifismo aprioristico di quanti ideologicamente si oppongono all’idea stessa di guerra, ivi compresi molti cattolici, non di rado altro non è se non una manifestazione di ipocrisia e codardìa, se non l’effetto di una razionalizzazione di propri istinti egoistici di sopravvivenza, di un inconscio mascheramento di ragioni di comodo, oppure anche il chiaro indizio di una inconscia e inconfessata vicinanza ideologica e politica agli Stati aggressori cui venga opposta una adeguata resistenza da parte del popolo o dei popoli direttamente o indirettamente aggrediti.
Ha scritto efficacemente d’Arcais contro la sinistra pacifista dei giorni nostri, e pacifista talvolta anche, come nel caso del PD, contro le posizioni politiche che si vede obbligata ad assumere da ragioni di politica internazionale: «La sinistra non è mai stata e non può essere pacifista. Non è mai stata e non può essere per la pace a qualunque condizione. La sinistra è contro la guerra, non contro la resistenza anche armata all’oppressione. Non solo nella tradizione rivoluzionaria ma anche in quella riformista. Perfino la tradizione liberale, con Locke, contempla il diritto di resistenza. Che un potere possa minacciare l’uso dell’atomica non può cancellare il diritto di resistenza degli oppressi, ne andrebbe di ogni idea e prospettiva di eguaglianza, emancipazione, liberazione»18. Anche il cattolicesimo, talvolta, sul drammatico problema della guerra, pecca di dogmatismo o riduzionismo etico non intendendo correttamente o fraintendendo alcuni importanti valori presenti nella narrazione evangelica e trattati dalla stessa teologia sistematica o dogmatica. L’odierna tendenza cattolica, non in linea con la complessiva tradizione della Chiesa, ad aborrire unilateralmente e a considerare la guerra come male assoluto, persino in relazione a casi in cui un popolo rischi di essere totalmente annientato da nemici non solo molto più forti sul piano militare ma anche e soprattutto inequivocabilmente mossi da iniqua volontà di conquista e di dominio, è una manifestazione assai poco saggia ed equilibrata di amore per la pace: è anzi espressione di estremismo, al punto di potersi affermare che, così come l’estremismo era per Lenin la malattia infantile del comunismo, allo stesso modo il pacifismo estremistico oggi espresso da settori gerarchicamente autorevoli della Chiesa, può essere considerato come la malattia infantile della spiritualità cattolica contemporanea. Pur riconoscendo che la guerra è sempre una tragedia e una grave sconfitta per l’umanità, non appare tuttavia appropriata la qualifica di male assoluto che ad essa si suole attribuire: se le potenze europee e occidentali del XX secolo non si fossero mobilitate per tempo e non avessero combattuto contro gli eserciti nazifascisti, quale male sarebbe stato più assoluto: quello di un’umanità falcidiata e immersa nel sangue e nei lutti di quanti avevano inteso difenderne la dignità e la libertà, oppure quello di un’umanità ormai inesorabilmente sottomessa ad un sistema spietatamente tirannico di potere che non avrebbe peraltro esitato a mietere vittime in un numero verosimilmente ben superiore a quello delle vittime mietute dalla seconda guerra mondiale?
Ma sia la sinistra, sia non trascurabile parte del mondo cattolico, peccano di stupidità soprattutto perché non hanno mai provato, specialmente la prima, a chiedersi seriamente per quale motivo, nell’ultimo decennio, un numero crescente di cittadini-elettori, appartenenti a quelli che dalla più recente ricerca sociologica vengono caratterizzati come «ceti popolari»19, è apparso sempre più orientato a destra e appare sempre più convinto di dover votare per le formazioni politico-parlamentari di destra20, limitandosi a dare risposte molto generiche e moralistiche, sprezzanti e tendenzialmente razziste, come quella per cui gran parte di quei ceti, pretendendo il soddisfacimento di interessi immediati e meschini, non sarebbero appunto in grado di riconoscere né i loro veri interessi, né gli interessi generali del Paese, per cui la sinistra lascerebbe volentieri che a rappresentare certi volgari e scomposte istanze popolari sia la destra reazionaria e fascista. La verità è che questa sinistra si è ormai convertita alla cultura politica burocratica e dirigista dell’alta e colta borghesia europea in gran parte rappresentata dalle élites finanziarie di orientamento liberalprogressista. D’altra parte, non casualmente, Schlein appartiene ad una famiglia molto ricca che non ha mai avuto contatti con masse popolari e povera gente, e in ogni caso era quasi inevitabile che la difesa dei deboli migrasse a destra, così come anche la libertà di pensiero, che questa sinistra ectoplasmatica interpreta in senso sempre più limitativo e restrittivo persino sul piano linguistico, in conformità al credo corrente di un “politicamente corretto” molto attento a fissare i criteri di legittimità di quel che si può o non si può dire.
Ne deriva che il grado di civiltà di un popolo non si misurerebbe più dalla sua passione civile suscettibile di tradursi anche in una contestazione sistematica e accesa della capacità politico-parlamentare dei partiti di riferimento di recepirne e rappresentarne integralmente le sostanziali rivendicazioni economico-sociali e le esigenze squisitamente politico-culturali, ma, al contrario, da una sorta di rapporto fideistico tra masse e partito, secondo cui le prime sarebbero tenute a confidare programmaticamente nell’illuminata e generosa azione politica del secondo. Esattamente il contrario della concezione gramsciana di “intellettuale organico”. E, poiché la politica risulta sempre più frequentemente affidata a donne, anche la libertà di pensiero e di critica ne viene di fatto risentendo come quando, per esempio, qualcuno si azzarda, in un contesto socio-culturale ormai saturo di femminismo21 ma anche di pratiche femminicide, a porre, al di là di ogni ipocrita interpretazione di matrice femminista, qualche domanda politicamente scorretta e qualche ipotetico nesso tra la crescente e ostentata esposizione pubblica della corporeità e della nudità femminili e l’incentivazione di fenomeni giornalieri quali il femminicidio, la violenza domestica e la violenza sessuale, che, a quanto pare e significativamente, anche norme giuridiche sempre più restrittive non riescono a ridurre o a contenere22.
Non poteva accadere che la capacità di approfondimento critico si espandesse, anziché ridursi, in una sinistra, almeno quella italiana, che è venuta riducendosi a poco più che a partito dei diritti civili solo subordinatamente impegnato sulle questioni alte di un’attività politica degna di questo nome, e che, anche per questo motivo, appare condannata ad una crescente irrilevanza politica, al di là dei voti che ancora riesce a raffazzonare nei bassifondi di un’umanità sociale molto travagliata se non decisamente ambigua e spesso corrotta. Peraltro, c’è chi, molto più autorevolmente di me, ha decretato la sostanziale inesistenza di una sinistra italiana: rispetto alla sua storia più nobile, alla sua tradizionale etica rivoluzionaria che poteva peccare talvolta di ipocrisia o di incoerenza ma senza mai smarrire il senso della serietà e della disciplina morale, rispetto alle sue grandi lotte per l’emancipazione culturale e l’eguaglianza sociale delle masse, soprattutto di quelle ancora da conquistare23. E’ una sinistra quella giuridicamente e istituzionalmente esistente che, pur conservando il suo prevalente indifferentismo ateo in materia religiosa, ha abbassato notevolmente il livello della sua tradizionale laicità, come si evince per esempio dalle sue sempre più marcate, seppur strumentali, tendenze islamofile, e dal suo accentuato spirito antioccidentale, alle cui forme di potere, alle cui opportunità economiche, al cui consumismo, ai cui stili di vita, ai cui vizi e alle cui comodità pratiche, i suoi esponenti, militanti e simpatizzanti, non solo non appaiono tuttavia individualmente disposti a rinunciare ma risultano asserviti non meno dei sudditi più convinti e più alienati delle forme più spregiudicate del libero mercato economico e culturale occidentale.
Si ha sempre più a che fare con “una sinistra alla moda”, rappresentativa fondamentalmente di una ristretta élite costituita da un ceto medio-alto borghese metropolitano di laureati e succube dei dogmi postmodernisti del cosmopolitismo, del globalismo, dell’europeismo e del multiculturalismo, dell’ambientalismo e del politicamente corretto24. Questa sinistra è anche quella che disprezza e si rifiuta di proteggere i non allineati, ovvero la gran parte dei ceti popolari cui si è già fatto riferimento e i loro valori spesso antitetici alle leggi presunte e inesorabili di un progresso caotico e destabilizzante, accusandoli altresì di essere fascisti, razzisti, retrogradi, sessisti, nazionalisti, populisti. Tale atteggiamento, francamente stupido e ripugnante, viene incoraggiato dall’influenza che tanti sinistri e parassitari figuri di una sinistra decisamente degenere sembrano realmente esercitare su media e ambienti culturali, a loro volta colpevoli di assecondare politiche acritiche e irresponsabili e implicanti prospettive etico-sociali altrettanto sterili, improduttive o decisamente dannose. Naturalmente, una sinistra così ottusa e antidemocratica, non può mancare di sollevare al suo stesso interno feroci e autorevoli contestazioni, come quella di una comunista tedesca doc: Sahra Wagenknecht, fautrice di un comunismo popolare che recuperi valori non individualistici ma comunitari tra cui quelli, aborriti dai comunisti progressisti, di patria, identità nazionale, comunità, e sostenuti invece dalla destra conservatrice tedesca, con cui ella condivide tuttavia, e sfortunatamente, anche il sentimento filoputiniano nel conflitto russo-ucraino in corso.
Tuttavia, il dato di fatto inoppugnabile è che, al momento e salvo forse che per situazioni meramente congiunturali, l’Occidente non sembra voler andare a sinistra, tanto in Europa quanto in Italia, a dimostrazione che questa sinistra in genere, benché internamente non compatta e in parte dibattuta, non è capace di esercitare alcun fascino sulle masse popolari per niente disposte, colte o incolte che siano, a lasciarsi trascinare da soggetti incapaci di coglierne e svilupparne criticamente le giuste esigenze e le legittime aspettative25. Ma non è certo per questo motivo che talvolta, nel perimetro del partito democratico, si sentono levare voci storiche ormai patetiche di un cattolicesimo di sinistra (non quello dei La Pira o dei Dossetti ma quello dei Prodi, Bindi, Enrico Letta, Riccardi, che, nato morto, è ormai putrescente), che pretenderebbe di riesumare, nel nome di una sorta di ecumenismo evangelico-socialista, una convinta sinistra etico-sociale ormai inesistente. Si allude, esemplificativamente, a Rosy Bindi, buona d’animo forse ma non sempre molto sveglia d’intelletto, che, pochi giorni dopo l’elezione di Schlein a deputato del Pd e pochi mesi prima che diventasse nuova segretaria del PD, affermava: «Vedo del fermento, sento dire che il Pd deve cambiare le regole, rifondare e non limitarsi al solito Congresso. Più che convocare, il partito dovrebbe farsi convocare da una società che ha dimenticato»26.
Il riscontro all’auspicio della anziana politica democristiana sarebbe venuto dall’elezione di Schlein a segretaria del partito, che tuttavia tale sarebbe stata designata sulla base di primarie atipiche che avrebbero clamorosamente contraddetto il voto e le preferenze degli iscritti. Sarebbe nato così il nuovo PD auspicato da Bindy? Ovvero un partito capace di liberare la maggioranza degli italiani da difficoltà e problemi endemici della loro storia, in vero rimasti irrisolti e forse aggravati dagli stessi governi Prodi e D’Alema di cui l’esponente politica citata avrebbe fatto parte? Ma di chi e di cosa è espressione un soggetto politico come Schlein: forse di masse gravemente disagiate, prive di assistenza sanitaria adeguata e spesso alla ricerca di un posto di lavoro sufficientemente remunerativo, di ceti popolari oppressi da un fisco troppo esoso e da un’ottusa burocrazia, di generazioni di studenti bisognosi non tanto di una scuola caramellosa e predisposta ad alimentarne carenze caratteriali e accentuate forme di disinteresse o avversione scolastico-culturale e, ancor più, etico-intellettuale? Ma è realisticamente pensabile che una persona come Elly Schlein, appartenente ad una ricca e aristocratica famiglia di antiche origini lituane, sempre vissuta in ambienti oltremodo protetti e incontaminati rispetto a convulse dinamiche di comune e popolare quotidianità, immersa in una vasta storia familiare contrassegnata esclusivamente da sfolgoranti carriere accademiche e da prestigiose carriere diplomatiche a livello internazionale, a sua volta capace di percorrere rapidamente e senza intralci di sorta la via dell’affermazione professionale personale, nonché precocemente preoccupata di munirsi di una tripla cittadinanza (svizzera, americana, italiana) e completamente disinibita nel dichiarare pubblicamente la sua plurisessualità, possa trovarsi a disporre esistenzialmente, al di fuori di ambizioni prettamente personali, di una sensibilità che le consenta di sintonizzarsi profondamente con un’identità nazionale italiana conseguita a prezzo di enormi sacrifici individuali e collettivi, con un’anima popolare italiana radicata in una storia di miseria e di duro lavoro, di lenta e faticosa emancipazione civile, con una cultura laica e religiosa di rinuncia, di abnegazione, di lotta solidale e di sofferta preghiera?
Ci sarà della retorica anche in queste righe, ma le si potrà davvero preferire una insulsa e scolastica retorica democratico-costituzionale come quella demagogicamente e aridamente agitata da questa privilegiata e modesta discendente di stirpe ebraica? D’altra parte, con intellettuali ricercati ma evanescenti e involuti di sinistra come era Salvatore Veca, teorico di una sinistra talmente “liberale” da sconfinare nella sua tautologica negazione27, persino l’opzione oggettivamente più irrazionale e insensata sarebbe potuta risultare legittima, per cui la mia domanda è da intendersi rivolta solo a interlocutori di comune e dignitoso buon senso, pur disposto ad accettare di buon grado le critiche forse irridenti di chi casualmente, in qualità di accademico consumato, si trovasse a leggere queste irriverenti parole di critica che il loro modesto autore ha ritenuto di proferire su uno dei filosofi italiani più ambigui e oscuri degli ultimi 70 anni. Peraltro, ci si potrà sempre illudere di poter rinvenire un buon motivo di consolazione nella amichevole e incoraggiante stroncatura dedicata da Kierkegaard al suo connazionale e amico geniale Hans Christian Andersen: «il genio non è un lumicino che si spegne al primo soffio, bensì un incendio che la bufera solo attizza28. Ma quello espresso dal filosofo danese era un concetto che poteva ben attagliarsi anche alla persona, se non di genio, quanto meno dotata di sicura intelligenza. L’intelligente, che è uno stupido che sa ravvedersi, l’intelligente, non meno del genio, non deve sentire infantilmente il bisogno di essere accudito, curato, per poter dare frutti, tranne che da Dio.
Francesco di Maria
NOTE
1 C. M. Cipolla, Allegro ma non troppo con Le leggi fondamentali della stupidità umana, Bologna, Il Mulino, 1988, contenente scritti che però risalgono agli anni settanta.
2 Nella seconda metà del 900, si è avuta una stagione in cui il pensiero critico, sia pure talvolta in modo illusorio, non era affatto indulgente e, tanto meno, subalterno nei confronti di certe mode filosofico-culturali e di correnti modelli etico-sociali, ma anzi svolgeva una funzione demistificante di critica dell’esistente e di stimolo all’azione disegnando possibili scenari di mondi alternativi, mentre ora il pensiero e la cultura attuali evocano generalmente distrazione, imbonimento, acquiescenza o l’illusione di una qualche rilevanza personale utile a soddisfare più che altro il nostro narcisismo: cfr. G. Fofi, L’oppio del popolo, Milano, Elèuthera, 2019.
3 Cfr., in particolare, F. Betti, Le strategie della stupidità. Perché siamo stupidi. Perché siamo geniali, Milano, Rizzoli, 2006.
4 Cfr. M. Galletti, S. Vida, Libertà vigilata. Una critica del paternalismo libertario, Roma, IF Press, 2018; M. Galletti, Il volto manipolatorio del paternalismo libertario. Spinte gentili ed etica della manipolazione, “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, 2020, n. 33, fasc. 3, pp. 509-526; M. Galletti, Etica della manipolazione. Relazioni, contesti e norme, in Rivista “Etica & Politica / Ethics & Politics”, XXVI, 2024, 2, pp. 45-59. L’etica della manipolazione secondo questo studioso sarebbe alimentata soprattutto dalle destre politiche del mondo tradizionalmente propense a tutelare princìpi e valori della tradizione religiosa, anche se egli sembra accreditare l’idea, in vero infondata o illusoria, che le sinistre progressiste del mondo siano culturalmente ed eticamente capaci di confutare la razionalità e l’universalità di molti degli assunti valoriali e spirituali sostenuti, anche sulla base di precise argomentazioni logico-scientifiche, non solo in ambienti conservatori e reazionari ma più semplicemente in ambienti cristiani e cattolici autorevoli e qualificati.
5 L. Pintor, La Sinistra non può vivere e vincere senza valori ideali. Intervista, in “Il Manifesto”, 22 giugno 1983.
6 F. Totolo, La morale sinistra. Il vero volto dell’antifascismo, Cernusco (Milano), Altaforte Edizioni, 2021; L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Milano, Longanesi, 2017; L. Sturzo, Servire non servirsi. La prima regola del buon politico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015.
7 A. De Benoist, Populismo. La fine della destra e della sinistra, Bologna, Arianna Editrice, 2017.
8 Diverso è il discorso per Gramsci che sembrava esprimere un giudizio sprezzante verso la piccola borghesia italiana ma in realtà volto a segnalare l’inconsistenza socio-politica di un ceto non ancora diventato classe produttiva e responsabilmente partecipe del processo politico nazionale. Quindi, in tal senso, la critica gramsciana alla piccola borghesia (e non anche a ceti medi ancora inesistenti) era stata più che altro rivolta ai vari governi nazionali che, incapaci di favorirne lo sviluppo e una seria assunzione di responsabilità politica, si erano susseguiti per circa mezzo secolo, dal conseguimento dell’unità nazionale ai primordi del fascismo, alla guida sempre molto sterile del Paese. Peraltro, è ben significativo che la sostanza del giudizio gramsciano risultasse abbastanza condivisa da esponenti politici e culturali assai diversi tra loro, al di là dei particolari toni usati da ognuno di essi: si pensi ai «Gobetti, Rosselli, Ansaldo, Dorso, ma si pensi anche a liberali come De Ruggiero e Omodeo, o si leggano in Ferrari le pagine di denuncia del “male oscuro del compromesso” che aveva caratterizzato i presidenti del Consiglio da Depretis a Giolitti, la lucida analisi della debolezza delle istituzioni pubbliche e della sostanziale “indifferenza” … per la vita democratica di una popolazione che non aveva mai lottato per essa, ma che deliberatamente era stata sempre tenuta lontana dai pubblici affari»: (M. Salvati, Da piccola borghesia a ceti medi. Fascismo e ceti medi nelle interpretazioni dei contemporanei e degli storici, in Rivista di storia “Italia contemporanea”, marzo 1994, n. 194, p. 70).
9 Peraltro, astenersi dal voto è anch’esso una scelta democratica e non necessariamente un sintomo di disaffezione verso le istituzioni in generale della democrazia, come emerge bene da: R. Sampugnaro, Astensionismo, Milano, Mondadori, 2024.
10 M. Revelli, Elezioni. A che punto è la notte, in sito on line“volerelaluna.it”, 13 giugno 2024. Revelli si conferma un critico-critico anche in un altro articolo: Europa/Occidente Il canto stonato delle anatre zoppe, ivi, 19 giugno 2024.
11 S. Benvenuto, Perché la sinistra perde, in Rivista on line “Le Parole e le Cose”, 16 febbraio 2023; Abdel-Samad Hamed, Fascismo islamico, Milano, Garzanti, 2017; G. Lentini, Islàm. Il problema politico-religioso del terzo millennio, Alba (Cuneo), Viverein, 2003; M. C. Allam, Islam, siamo in guerra, Youcanprint, 2015; AA.VV., Tolleranza per l’intollerante? L’Occidente e l’Islam, Firenze, Clinamen, 2015.
12 E’ ciò che ritengo di dover sostenere anche dopo aver letto scritti di velleitaria resipiscenza etico-politica quale F. Barca e A. Morniroli, Sinistra, è ora. Prima mossa: visione e valori, in sito on line “volerelaluna.it”, 29 luglio 2024. Osservazioni intelligenti sulla natura ambigua dei modi soggettivi di percepire il proprio io, sono contenute in Th. Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009, ma pregevoli riflessioni sono presenti anche in F. Germinario, La coscienza annientata. Il presente e la mercificazione dell’Io, Trieste, Asterios, 2019, in cui si scrive di “una narcosi della coscienza ormai mercificata”.
13 Molto significativo è il libro della teologa ed economista Ina Praetorius, L’economia è cura. Una vita buona per tutti: dall’economia delle merci alla società dei bisogni e delle relazioni, Milano, Edizioni Altreconomia, 2019.
14 M. Veneziani, I valori della destra e quelli della sinistra, nel sito on line dello stesso studioso, 12 novembre 2022.
15 Ivi.
16 Utili gli spunti offerti al riguardo da Ch. Gave, Gesù economista. Ricchezza, proprietà privata e giustizia sociale, Torino, Edizioni Istituto Bruno Leoni, 2018.
17 M. Veneziani, I valori della destra e quelli della sinistra, cit.
18 P. Flores d’Arcais, La sinistra è morta, viva la sinistra? 25 riflessioni provvisorie, discutibili, scomode, in “MicroMega” del 26 gennaio 2023. Il direttore di “MicroMega” contesta giustamente anche l’antioccidentalismo non occasionale o circoscritto ma sempre più sistematicamente presente nelle formazioni della sinistra: «Occidente è l’Illuminismo, Occidente è la Rivoluzione americana, Occidente è la Rivoluzione francese, Occidente sono i movimenti socialisti, la Comune di Parigi, Occidente è la Rivoluzione dei Soviet del ’17 e l’insurrezione del Soviet di Kronštadt contro la dittatura bolscevica del ’21. Occidente è la casuale sinergia di scienza ed eresia che dà luogo alla modernità. Occidente sono i valori di liberté>égalité>fraternité che da queste lotte si affermano, solennemente ricamate nelle Costituzioni democratiche e calpestate quotidianamente dagli establishment. Essere a sinistra vuol dire rivendicare questo Occidente, questi valori, questa eredità di lotte, per portarlo a compimento, contro l’Occidente del privilegio, del profitto selvaggio, della subordinazione della donna, del colonialismo e dell’imperialismo…», ivi. Al tema della guerra, nel quadro del conflitto russo-ucraino in corso, ho dedicato un volumetto: F. di Maria, Caino. Pamphlet sulla guerra, Torino, Pathos Edizioni, 2023.
19 Espressione usata allo scopo di evidenziare l’esistenza di una popolazione, al di là delle tradizionali appartenenze di classe, sempre più incapace di adattarsi agevolmente all’evoluzione tecnologica ed economico-finanziaria della società: cfr. F. Berti-M. Caselli, Chi sono e perché si studiano i ceti popolari in F. Berti, & L. Nasi, Ceti popolari. Una ricerca sulle nuove vulnerabilità sociali, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 7-18.
20 L. Ricolfi, La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra, Milano, Rizzoli, 2022.
21 Non si intende dire che non si diano forme sane e rispettabili di femminismo come si può evincere da libri o articoli quali ad esempio AA.VV, Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, (a cura di D. Dioguardi), Roma, Castelvecchi, 2024, e Elisabetta Moro, Per essere femministi bisogna essere per forza di sinistra?, nel sito on line “thevision.com”, 30 dicembre 2019.
22 F. Lamendola, La banalizzazione del corpo è il frutto di una erotizzazione esasperata che ottunde le emozioni, in sito on line “Arianna Editrice” del 3 novembre 2011. Che il nudo femminile possa valere come atto politico è, peraltro, un falso e penoso argomento con cui si cerca inutilmente di nascondere le voglie inconfessabili di individui perversi. E che, d’altra parte, si diano oggi, accanto a persistenti modelli di maschilismo arcaico, anche forme di femminismo completamente irragionevoli, inutili o addirittura retrograde e antisociali, è ciò che comincia ad emergere con chiarezza da studi recenti, tra cui in particolare: A. Vallarino, Il femminismo inutile. Vittimismo, narcisismo e mezze verità: i nuovi nemici delle donne, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2024; C. Rottenberg, L’ascesa del femminismo neoliberista, Verona, Ombre Corte, 2020, e soprattutto la ponderosa opera in 2 volumi di Santiago Gascó Altaba, La grande menzogna del femminismo, Bologna, Persiani, 2019) insieme al libro di Jessa Crispin, Perché non sono femminista, Roma, Sur, 2018. Molto intelligentemente polemico sul femminismo politico fatto proprio dalla sinistra, è l’intervento di P. Flores d’Arcais, La sinistra è morta, viva la sinistra? 25 riflessioni provvisorie, discutibili, scomode, cit., in cui si legge: «Ci sono donne e donne, uomini e uomini. Vale anche per sincerità e menzogna. La Donna, non è per sua natura Angelo e l’Uomo per sua natura Bestia. Il conflitto non è tra Uomini e Donne, ma tra donne e uomini civili e ugualitari, da una parte, e uomini che vogliono conservare privilegi e prepotenze, contando anche sulle donne assuefatte alla servitù volontaria, dall’altra. Farne una guerra tra sessi in quanto tale non solo è cattiva ideologia ma propizia anche l’ennesima replica del gattopardesco cambiare tutto perché tutto resti eguale». E poi un affondo micidiale: «I settori radicali del movimento Lgbtqia+, e un vastissimo mondo di establishment accademico, editoriale, giornalistico, mediatico (corrivo o militante), mettono in discussione il carattere biologico della differenza sessuale. La pretesa che la differenza cromosomica XX e XY debba cedere il passo al sentire soggettivo e alla sua mutevolezza nel tempo è scientificamente insostenibile e socialmente reazionaria. Progressista è garantire che chi, maschio, si sente femmina o, femmina, si sente maschio, non subirà nessuna discriminazione nei suoi diritti civili. Pretendere che un maschio, definendosi femmina, possa condividere toilette, carceri, gare sportive eccetera, come fosse una donna, significa negare i diritti delle donne (sport) e perfino metterne in pericolo l’incolumità (carceri eccetera). Progressista è difendere la libertà di scelta sessuale ed erotica, etero, omo e ogni altra variante, fra adulti consenzienti; non lo è confondere la preferenza sessuale con il genere sessuale, che è biologico».
23 P. Flores d’Arcais, La sinistra è morta, viva la sinistra? 25 riflessioni provvisorie, discutibili, scomode, citato, ma innanzitutto: AA.VV., La sinistra ha fallito? Opinioni a confronto, a cura di I. Inglese, Chieti, Solfanelli, 2020, con relativa recensione di G. Malgieri, Perché la sinistra ha fallito? Un libro a più voci, in sito on line “Formiche.net”, 22 agosto 2020.
24 Sahra Wagenknecht, Contro la sinistra neoliberale, Roma, Fazi Editore, 2022.
25 R. Simone, Il mostro mite. Perché l’Occidente non va a sinistra, Milano, Garzanti, 2008.
26 R. Bindy, Il Paese ha bisogno di una nuova sinistra, in “La via libera” del 6 ottobre 2022.
27 Se ne veda, per esempio, l’inafferrabile esercizio di teoresi aliena contenuto nell’intervista di D. D’Alessandro, Salvatore Veca e “quei valori della sinistra in attesa di risvegli”, in AA.VV., Filosofia e psicoanalisi, Le parole e i soggetti, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis, 2020, a cura dello stesso D’Alessandro.
28 Frase citata in B. Berni, «Il genio non è un lumicino». Hans Christian Andersen e Søren Kierkegaard: scrittura e weltanschauung, in “Rivista di Filosofia Neo-Scolastica”, n. 3-4, 2013, pp. 979-986.