di Vincent Fondi
Quasi alla vigilia delle elezioni politiche europee del prossimo 25 maggio, la sinistra renziana dice e ribadisce di volere un’altra Europa, cioè non più l’Europa dei burocrati e degli esattori ma l’Europa dei popoli che ne fanno parte e del loro benessere economico. Per determinare questa svolta, dice l’odierno partito democratico, bisognerà cambiare le regole, e quindi verosimilmente anche i Trattati su cui poggia l’Unione Europea e i presupposti dell’unione economica e monetaria europea consistenti in quell’istanza ossessiva di controllo dei conti pubblici e di austerità che è venuta determinando nel tempo l’immiserimento delle economie nazionali dell’Eurozona meridionale.
Questo programma Renzi si propone di attuare in Europa nei prossimi mesi e nei prossimi anni se l’imminente responso elettorale sarà favorevole alla forza politica di cui è segretario e al governo di cui è presidente del Consiglio. La sua speranza è anche quella per cui a prevalere elettoralmente non siano le forze populiste e nazionalistiche europee pure indubbiamente alimentate e potenziate dalla crisi in corso, perché altrimenti gli scenari potrebbero diventare talmente conflittuali nel nuovo Parlamento europeo da indurre a scelte drastiche che potrebbero poi risultare catastrofiche o alquanto svantaggiose per il nostro stesso Paese, in modo da presentarsi a Bruxelles come partner credibile che, avendo onorato gli impegni fiscali e finanziari necessari ad un risanamento dell’economia italiana, sia ora pienamente legittimato a chiedere agli altri Stati membri di cambiare responsabilmente rotta alla politica e alla stessa politica economica europee per imboccare la via dello sviluppo, degli investimenti e dell’occupazione specie giovanile.
Ora, le intenzioni di Renzi sono certo lodevoli ma probabilmente sono anche irrealistiche. Perché per riformare e rifondare quest’Europa bisognerebbe smantellarne gli attuali indirizzi politico-economici e finanziari dal momento che, ad esempio, una modifica del Trattato di Maastricht o dello statuto della BCE richiederebbe, per regolamento, il voto unanime dei 28 Paesi UE, per non dire che da un punto di vista politico generale è e resterà nettamente preponderante il numero dei governi nazionali, Germania in testa, favorevoli a politiche fiscali molto restrittive e a criteri molto rigidi di contenimento e riduzione del debito pubblico, e non si vede proprio in che modo, almeno a breve, potrebbero crearsi condizioni di radicale o almeno sostanziosa ridefinizione delle linee generali della politica europea.
Sarebbe probabilmente più facile abolire che non riformare l’Europa, e non è da escludere che proprio la sua abolizione o rottura o crollo strutturale possa essere in un prossimo futuro il suo esito conclusivo. Dunque, la speranza di poterla riformare resta affidata alle possibilità di successo delle forze più serie e responsabili della sinistra europea, e non necessariamente della cosiddetta sinistra alternativa rappresentata principalmente dalla lista Tsipras il cui settarismo e confusionarismo ideologico ha prodotto già in Italia, al di là di alcune posizioni di politica economica in parte condivisibili, evidenti disastri sia sul piano politico-legislativo (si pensi all’esperienza della “Rifondazione Comunista” di Bertinotti e compagni) sia sul piano morale e giuridico (si pensi alla richiesta, ancor oggi più che mai insistente, di introdurre nella sfera dei “diritti civili”, e quindi nei rapporti tra soggetti omosessuali o nell’ambito di delicati temi di natura etica e bioetica, come il nascere e il morire, le modalità della fecondazione, la definizione di matrimonio e di famiglia, le norme della politica educativa e scolastica, le norme penali relative ai casi di assunzione di droghe leggere e pesanti e via dicendo, tutta una serie di riforme legislative inquietanti e, almeno per i cattolici, sicuramente rovinose).
Nulla impedisce di pensare che sul piano europeo si moltiplicherebbero gli sforzi della “Sinistra Alternativa” per accrescere il potere decisionale già preponderante delle forze laiche del parlamento europeo non in relazione a compiti e funzioni della BCE o della Commissione Europea, resi statutariamente immuni da qualsivoglia condizionamento parlamentare, ma in relazione a problematiche culturali, etiche e giuridiche di grandissimo rilievo umano e civile.
Solo se vince nettamente Renzi (ma il suo connazionale Draghi gli ha fatto già sapere che le “regole” non si toccano), l’Italia, almeno teoricamente, avrebbe l’opportunità di lottare concretamente per democratizzare la UE e per conferire al Parlamento europeo il potere di fare proposte di legge ed eventualmente di rifiutare le decisioni della Commissione UE e dei capi di governo, per recuperare almeno parte della propria sovranità nazionale e quindi anche della propria sovranità monetaria e per poter resistere meglio in tal modo sia alle politiche liberiste e neocoloniali della stessa UE e della Germania, sia alla speculazione finanziaria internazionale attraverso la sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo sostenibile e di nuove forme di cooperazione tra gli Stati.
Ma è realistico pensare e sperare che un’Europa costruita ad arte per espropriare i popoli e per fare la fortuna di alcune grandi oligarchie finanziarie mondiali possa concedere cose che ne altererebbero profondamente sia l’originaria e strutturale fisionomia, sia le finalità programmatiche? Non sarebbe meglio prepararsi a studiare una strategia d’uscita dall’euro, cercando possibilmente di concordarla con gli altri, a cominciare dalla Germania?
Vincent Fondi