Pensiero della settimana

Quando gli apostoli chiedono a Gesù di accrescere la loro fede è come se essi cercassero di rimuovere la loro negligenza e di spiegare la loro difficoltà a comprendere certi ragionamenti e determinati atti del Cristo con i loro limiti naturali di esseri umani e con il fatto che il divino Maestro non li abbia ancora dotati di capacità superiori a quelle generalmente esercitate dagli uomini. Specialmente di fronte all’imperversare del male nel mondo e all’apparente e persistente silenzio di Dio, essi stentano a credere nelle promesse escatologiche di Cristo. Più che aprirsi alla visione di ciò che non si vede ancora ma che arriverà, essi si lasciano attanagliare dai dubbi, dalle momentanee evidenze negative di una ragione debole, statica, incapace di vedere nei fatti pure sconfortanti della vita inespresse e alternative possibilità di bene e giustizia, di una ragione in sostanza priva di fede. Per questo dicono piuttosto ipocritamente al Signore: “Accresci in noi la fede”, ma il Signore risponde con severità che, in realtà, essi non hanno ancora fede e che non si può accrescere o aumentare qualcosa che non ci sia. Infatti, sono le sue parole, «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17, 6). Ma la fede, per Gesù, non è altro dalla fede, non è un sentire che soppianti o sostituisca la ragione, bensì una dimensione possibile e necessaria della stessa ragione, un modo di essere o un’articolazione costitutiva della ragione stessa. Per il Figlio di Dio non può esistere il rischio che la fede sia nemica della ragione o che la ragione sia nemica della fede, perché entrambe sono facce di una medesima funzione spirituale, perché la ragione è un dono preziosissimo che Dio ha elargito alle sue creature per consentire loro di discernere tra vero e falso e tra bene e male, per esercitare consapevolmente e responsabilmente la loro stessa libertà personale.

La ragione che non si chiude orgogliosamente in se stessa, che sa umilmente intuire che essa non può sussistere, nella sua natura complessa e nei suoi diversi e più avanzati o sofisticati processi di astrazione e di elaborazione, senza una fonte creatrice, senza qualcuno che l’abbia creata, è una ragione che si scopre, in modo naturale, come funzionale alla fede, come propedeutica alla accettazione di verità che superano i confini dell’esperienza diretta e del puro e semplice ragionamento personale ma che consentono di comprendere cose altrimenti incomprensibili e di sperare in qualcosa che la morte sembrerebbe rendere invece del tutto insperabile. La ragione che si apre alla fede è la ragione che comprende benissimo il significato e il valore spirituale dell’annuncio evangelico, in particolare là dove esso insegna alle creature e ai credenti che in questo mondo essi non vivono solo per fare dei servizi ma per servire, al di là di tutti gli usi ipocriti, ambigui, menzogneri o mistificatori che si potrebbero fare di questo termine proprio nel nome del vangelo. E Gesù avverte i suoi seguaci che non solo essi devono considerarsi servitori, servi, nelle diverse e mutevoli circostanze della vita, ma addirittura che, nell’esercitare i loro doveri morali e spirituali verso il prossimo e verso Dio, non devono pensare di individuare particolari motivi di merito semplicemente perché i servi fanno semplicemente quel che devono fare, quel che sono chiamati a fare, quel che non possono rifiutarsi di fare se non vogliano incorrere nei rimproveri e nei castighi del loro padrone.

Sì, perché la Parola di Dio non è sempre dolce, e anzi non è mai melliflua o caramellosa, ma è sempre ragionevole e finalizzata al bene non momentaneo ma più completo e definitivo degli esseri umani. I servi devono capire che questo sarà il loro destino, quello di essere servi del peccato e soggetti a morte eterna, se non continueranno a fare fino alla fine quel che il loro Signore si aspetta che essi facciano. Certo, subiranno offese, discriminazioni ingiustizie, maltrattamenti, e saranno tentati di pensare che non ci sia o non ci sia più nessun Dio ad occuparsi di loro, a proteggerne la dignità, a fare loro giustizia per i tanti torti subiti. Ma Dio, se non nel tempo, nell’eternità provvede sempre prontamente «a fare giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui» (Lc 18, 7-8). Ecco: la fede richiede pazienza, fiducia, perseveranza nella preghiera continua, incessante, a Dio, anche e soprattutto nei momenti di crisi, di angoscia, di pericolo o di solitudine, nella profonda certezza che, a suo tempo, quei servi, quegli eletti, potranno sperimentarne largamente la misericordia e la sorprendente magnanimità. 

I suoi eletti sono coloro che, più e meglio di altri, conoscono le proprie debolezze, le proprie criticità esistenziali, dolendosene sinceramente senza accampare scuse e rivolgendo tuttavia al Signore una insistente e implorante preghiera di perdono, di aiuto, di salvezza. Sono coloro che, senza vantarsi mai di nulla se non in casi particolari nel nome del Signore, non smettono mai di battersi il petto per accusare le proprie colpe e per umiliarsi davanti a lui come aveva fatto il buon pubblicano: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18, 13). Sono coloro che, benchè consapevoli di non essere meritevoli di nulla al di fuori dell’insindacabile giudizio divino, continuano ad avere fede, al di là delle contraddizioni e dei drammi personali e delle gravi contrarietà della vita e del mondo, nel ritorno salvifico e pienamente ristoratore di Cristo Salvatore. Gli eletti sono coloro che, nel bene e/o nel male, continuano a confessare la propria reale indegnità ma anche a professare e a testimoniare la propria granitica fede nella giustizia finale di Dio, fino all’ultimo giorno di vita, fino alla fine del mondo.

Francesco di Maria

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