Gesù chiama “figli di questo mondo” le persone interessate esclusivamente ai beni e ai vantaggi materiali e temporali del mondo. Pur di perseguire il loro utile, di accrescere il loro profitto, di perseguire le proprie sicurezza e prosperità personali, sono pronti a fare qualunque cosa, a ricorrere a qualsiasi trucco o raggiro, pur di ottenere quel di cui necessitano e di poter disporre di mezzi economici e di buone relazioni interpersonali sufficienti a garantire loro una condizione di vita comoda e tranquilla anche nei momenti di grave difficoltà o di improvvisa sventura. Queste persone non si scoraggiano mai, non cedono alla tentazione di mollare tutto quando, per errori o torti da esse commessi, rischiano realmente di essere travolti. Sono persone reattive, che continuano a lottare, con tenacia, con furbizia, magari anche con mezzi illeciti, pur di perseguire i loro obiettivi e di non rinunciare ai loro interessi. Possono anche cadere in disgrazia, ma non subiscono passivamente la sconfitta, la punizione, il disonore: si danno da fare per riemergere, per riabilitarsi o, almeno, per riguadagnare la propria dignità. Anche se si danno da fare solo per il loro tornaconto e non certo per ragioni morali, per nobiltà d’animo, per volontà di riscatto morale, in un certo senso sono degni di ammirazione, per il semplice fatto che non si danno per vinti neppure nelle più sofferte o cocenti esperienze di vita. E, inoltre, pur se in funzione di fini personali, possono anche rendersi utili agli altri, procurarsi delle amicizie, e persino legami affettivi e di stima molto solidi. Sebbene in modo disonesto, in sostanza, possono essere capaci di fare del bene. Restano, tuttavia, “figli di questo mondo”, incapaci di lottare ed essere resilienti in una prospettiva diversa da quella puramente terrena di una vita senza valori, senza scopi etici e spirituali, senza senso perché completamente immanente e priva di qualsiasi orizzonte di trascendenza e di qualsiasi speranza di vita ultramondana.
Non è che Gesù intenda lodare la disonestà di costoro, naturalmente, ma sembra apprezzare il modo lesto, dinamico, propositivo, in cui essi agiscono pur di non rimanere isolati dagli altri, dalla comunità, dalla società, e in cui essi fanno del bene al prossimo, sia pure non in termini di carità totalmente disinteressata, con la speranza di esserne contraccambiati. Ma Gesù aggiunge una considerazione che sembra avere qualcosa di apparentemente sconcertante: «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne» (Lc 16, 9). Sembra cioè che egli suggerisca, per quanto molto severo verso coloro che considerano e bramano la ricchezza come bene in sé piuttosto che come opportunità di solidale condivisione con poveri, bisognosi o non abbienti, di usare o utilizzare la ricchezza, sempre e comunque “disonesta”, e in particolare la ricchezza non solo di fatto derivante da modi anomali e perversi di esercitare umanamente la libertà individuale e quindi anche dai modi storici in cui viene organizzandosi l’attività produttiva degli uomini, ma soprattutto quella proveniente da attività corruttive o pratiche prevaricanti, da illecite operazioni finanziarie o da vere e proprie ruberie organizzate, per fare del bene a quanti versino in stato di indigenza ovvero nella realizzazione di generose opere di carità.
Gesù, in altri termini, intende dire che chiunque trattenga o persegua la ricchezza esclusivamente per se stesso, per la propria famiglia o per il proprio gruppo sociale, non potranno avere accesso in paradiso, e che chi persegua o desideri forme di ricchezza non solo disonesta, perché evidentemente scaturiente da meccanismi umani ed economico-sociali alterati e difformi da criteri naturali di equanimità e giustizia individuali e collettivi, ma anche manifestamente illegale e immorale, truffaldina o criminale, ha tuttavia la possibilità di riscattarsi in qualche modo sotto il profilo etico e spirituale provvedendo a soddisfare esigenze e bisogni di persone povere e indifese. Purtroppo, quelli che il Signore chiama “figli della luce”, cioè discepoli e credenti, tante volte appaiono molto più prudenti e incerti sul da farsi quando si tratta di andare incontro alle necessità di chi non ha e di chi spesso non è in quanto privo di vera identità morale e sociale, molto diligenti e osservanti nelle manifestazioni esteriori della fede e nelle pratiche liturgiche, oratorie e catechetiche, ma molto più esitanti nell’esercizio effettivo, reale, fattuale di quello spirito di carità senza cui ogni dichiarazione e atto di fede non possono che risultare del tutto privi di valore evangelico. Se uno non sa usare, non sa fare buon uso dei beni esteriori, materiali, spesso disonesti, come potrà utilizzare in modo adeguato e in senso salvifico i propri beni interiori, spirituali e religiosi?
Francesco di Maria