Pensiero della settimana

Gesù, quando si tratta di indicare le diverse situazioni di vita che, a seconda di come vengano affrontate, possono immettere nella via della salvezza o allontanare pericolosamente da essa, è molto esigente, anzi radicale: d’altra parte, sarebbe difficile pensare che il Dio della vita, della morte e della risurrezione per una vita eterna, possa essere tollerante secondo le modalità generalmente banali in cui la tolleranza viene concepita ed esercitata dagli esseri umani. Gesù dice chiaramente o allusivamente di non poter essere amato né come fenomeno da baraccone, né come taumaturgo, né come liberatore da disgrazie e mali terreni, né come conduttore di popoli, né come Dio da potersi adorare solo con le buone intenzioni e con parole insincere o ambigue. Chi ama Cristo, lo deve mettere al primo posto, non solo con dichiarazioni di principio ma con scelte o atti impegnativi e spesso costosi, nella gerarchia degli affetti e dei beni materiali: e quindi rispetto a genitori, figli, fratelli e sorelle, persino rispetto alla propria vita, cioè alla propria libertà di condurre una vita normale, senza preoccupazioni di ordine spirituale particolarmente assillanti e senza comportamenti esposti costantemente e deontologicamente al rischio di produrre situazioni conflittuali oltre che amorevolmente esercitati per il bene e la serenità delle anime e del popolo di Dio. In questo senso, quanti ministri ordinati di rito latino avvertono ormai drammaticamente il problema di staccarsi da affetti familiari e beni finanziari per servire al meglio la Chiesa di Cristo? Non c’è dubbio che siano sempre di meno.

Rinuncia, sacrificio di sé, disponibilità a mettere da parte i propri progetti mondani, le proprie ambizioni, i propri desideri di tranquillità, di benessere economico e rispettabilità sociale, sono componenti pregiudiziali e costitutive dell’agire di quanti, specialmente i suoi ministri troppe volte inclini a scambiare la vita sacerdotale per un tranquillo e vantaggioso mestiere, vogliano seguire il Cristo, portandone le sofferenze, le umiliazioni, le angosce, in una parola la croce, dovuta al suo modo molto umano e rispettoso ma schivo e riservato di pensare e parlare, al suo modo mai ostentato o enfatizzato ma sempre essenziale e rigoroso di amare, al suo modo molto aperto e franco di trattare il prossimo o confrontarsi con lui, come con i potenti, i ricchi, i dotti, e, in particolare, con gli uomini e le donne che gli stavano più vicino. La verità cristiana è certamente un lievito di pace ma anche e congiuntamente una spada tagliente e non sono i tempi e le culture mutevoli della storia a poterne attenuare o alterare queste due essenziali e irrinunciabili caratteristiche strutturali. Ma è un concetto che a molti cattolici di questo tempo sembra non essere per niente chiaro, dal momento che, se da una parte, il cristianesimo viene giustamente inteso come la più elevata celebrazione dell’amore, dall’altra si rabbrividisce allorchè si constati come quest’ultimo venga pensato prevalentemente nel suo significato umano, psicologico, affettivo, relazionale, più che nella sua origine divina, nella sua accezione biblica, nelle sue finalità soteriologiche.

Se si rinuncia ad interrogarsi costantemente sul senso specifico e sul reale valore dell’amore divino, cioè secondo Cristo e non secondo gli uomini, sarà inevitabile assistere ad una graduale trasformazione della Parola di Dio da strumento di salvezza in strumento di istupidimento e alienazione collettivi. Gli odierni aspiranti all’ordinazione sacerdotale devono sapere che, se la loro vita religiosa non sarà realmente una vita di nascondimento, di umiltà, di fatica, di abnegazione, di onesto e virtuoso discernimento, di scelte difficili o impopolari, essi verranno imboccando non già la via cristiana della croce ma una via sostanzialmente comoda di rispettabilità sociale e visibilità mediatica, accademica o culturale, ovvero la via esattamente opposta a quella indicata da Gesù. E anche quando si viene predicando giustamente che l’aspetto centrale dell’amore evangelico è quello del perdono, i futuri sacerdoti, a differenza dei colleghi più anziani, dovrebbero poi imparare non a genericamente affermare che il cuore dell’amore è il perdono, ma a precisare, con coraggio evangelico, che il perdono deve essere richiesto innanzitutto da colui che sbaglia, fa torto o reca offesa a qualcuno, senza lasciare cioè nel vago la specifica dinamica spirituale del perdono e dell’amore. Non è affatto vero che l’amore è amore e non ha bisogno di essere aggettivato, determinato, specificato, perché nell’amore si possono proferire le peggiori menzogne e compiere i crimini più efferati. Se un padre, pur avendo il diritto-dovere di educare i figli, non fa altro che sottoporli al suo arrogante ed egoistico volere e prenderli a calci ogni volta che sbagliano, non sono certo i figli a dovergli chiedere perdono per primi ma è lui che deve sapersi riconciliare con i figli; se un uomo o una donna divorziano dai partners nel nome dell’amore ma, in realtà, per semplici motivi sessuali, non solo l’amore non accompagnerà le loro vite di fedifraghi coniugali ma potranno guadagnarlo o riguadagnarlo solo se, con animo profondamente contrito, invocheranno il perdono divino, e quello delle persone da cui hanno voluto separarsi, fino all’ultimo giorno di vita; se un presbitero, da quello più anonimo a quello più noto, prestigioso o autorevole, manca di rispetto o reca offesa ad una singola persona o ad un’intera comunità civile o religiosa, è lui che deve chiedere esplicitamente perdono a Dio e agli uomini, senza aspettare che le sue offese cadano da sole nel dimenticatoio. Proprio stamani, per esempio, uno stimato parroco della mia città, nel corso della sua omelia domenicale, diceva che tante volte noi fedeli che andiamo a messa, proprio in quel frangente non operiamo da cristiani nel momento stesso, sia pure nell’inconscia presunzione dei nostri pensieri, esprimiamo delle differenze di valore tra noi e gli altri fedeli, tra la qualità della fede altrui e la nostra fede personale, venendo quindi meno al dovere di fare comunione.

Giusto! Ma se poi non si aggiunge contestualmente che talvolta il cristiano, per essere tale, possa avvertire altresì il dovere di non fare acriticamente comunione con la sua comunità religiosa, ove egli, per divina ispirazione o per veritiera constatazione, ne percepisca, senza compiacersene ma dolendosene profondamente, il suo occasionale o sostanziale non essere in comunione con Dio —tralascio, in tal caso, di esemplificare — l’omelia finisce, come sovente accade, per essere di natura paternalistica e moralistica. In altri termini, se l’amore evangelico viene interpretato e applicato in modo sommario e ambiguo, non c’è la croce di Cristo ad aspettarci, ma solo la perfidia diabolica che conduce alla eterna dannazione. Per seguire realmente Cristo, bisogna saper rinunciare non una volta ma sempre alle subdole e ricorrenti sollecitazioni dell’ego, nel senso di essere pronti a lasciare quel che si ha, a beni affettivi e materiali, oppure a quel che si pensa, a radicate convinzioni intellettuali o religiose, e, ove risponda alla divina volontà, anche alla propria vita.

Francesco di Maria

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