Il Pater Noster, che Tertulliano considerava come la preghiera evangelica per eccellenza, costituisce il modello più alto del pregare cristiano, pur essendo esso inclusivo verso una gamma molto ampia di preghiere, orazioni e suppliche acquisite nel corpus della Tradizione della Chiesa. Dio, insegna Gesù, è Padre di ogni creatura e di tutte le creature, che ama individualmente, per cui bisogna rivolgersi a lui come al Padre Nostro, al Padre di noi tutti, di ognuno di noi che, nel suo Figlio unigenito, ci tratta come figli suoi, da lui creati, per cui siamo anche fratelli tenuti ad amarsi gli uni gli altri. C’è una prima parte della preghiera, in cui bisogna render grazie e lode, innanzitutto, al Padre, al suo nome ovvero alla sua reale identità divina, al suo Regno, alla sua volontà, per poi chiedergli di voler perdonare i nostri peccati, così come anche noi, in virtù della mediazione salvifica di Cristo, dobbiamo voler perdonare a quanti ci rechino offesa o danno. Il fatto di rivolgersi ad un Padre comune non toglie ovviamente che ognuno di noi possa sentirlo come suo padre, come padre che ascolta i singoli non meno che il gruppo o l’assemblea riunita in preghiera. Anzi, come spiegava il teologo Karl Rahner, Dio opera immediatamente in me e parla al mio cuore, cerca il contatto immediato con l’anima di ciascuno, per chiedere a ciascuno una cosa che non chiederà a nessun altro. Ma per poter fare la volontà di Dio bisogna impegnarsi non solo a mantenere vivo il contatto con lui attraverso l’interiore predisposizione, alimentata dalla preghiera e dalla fede, all’obbedienza e al rispetto dei suoi comandi e dei suoi precetti, ma anche attraverso un rapporto di perdono e di amore con il proprio prossimo.
Poiché Gesù è, per bocca del Padre, il suo Figlio prediletto (Mt 3, 16-17), nessun essere umano può pronunciare il nome del Padre se non credendo nella natura divina, oltre che umana, del Cristo. E la certezza del fatto che quel Dio-Padre, nel suo Figlio unigenito, ascolti attentamente tutte quelle situazioni personali e comunitarie di violenza, ingiustizia, oppressione e umiliazione, che vengono poste alla sua paterna attenzione, è ciò che conferisce a questa preghiera non una semplice funzione psicologica, meramente consolatoria o scaramantica, ma una lucida funzione spirituale che può consentire al credente di percepire, pur immerso in faticose e talvolta dolorose occupazioni quotidiane, le cose spirituali come cose reali e anzi come le cose più reali della sua quotidianità.
Se nella prima parte del Pater si glorifica Dio, dichiarando la propria fede nella sua grandezza e nella sua santità e invocandone la presenza attiva anche in questo mondo imperfetto e provvisorio, nella seconda parte la preghiera, da preghiera di lode, si trasforma in modo del tutto consequenziale o naturale in preghiera di richiesta: dacci oggi il pane quotidiano, nel senso materiale e spirituale, cioè quel che ci occorre per vivere quaggiù sia pure in funzione della vita eterna, concedici la remissione dei peccati e l’annessa e connessa capacità personale e/o comunitaria di fare altrettanto nei confronti di chi ci offende o ci danneggia e che tuttavia è tenuto a chiedere il nostro perdono per ottenerlo, così come noi dobbiamo chiedere sinceramente il perdono divino, in segno di reale contrizione per le nostre colpe, se davvero desideriamo ottenerlo. Ma è la prima delle ultime due richieste, per lunghi secoli recepite letteralmente e spiritualmente dalla comunità ecclesiale come profonde e legittime espressioni di fede, ad aver alimentato oggi, in seno alla stessa Chiesa, discussioni di valore interpretativo molto dubbio e anzi, non solo a parer mio, del tutto inconsistenti e lesive del reale significato biblico-religioso delle parole pronunciate da Gesù: non indurci in tentazione ma liberaci dal male. Sotto il pontificato di papa Bergoglio si è giunti a sostituire la tradizionale e corretta traduzione dal greco “non indurci in tentazione” con l’espressione “non abbandonarci nella tentazione”, quasi che il chiedere a Dio di non abbandonarci nel momento della prova sia eventualmente più corretto e meno lesivo dell’onore divino rispetto al versetto, recitato senza alcun turbamento personale e collettivo per venti lunghissimi secoli di storia cristiana, secondo cui a Dio veniva chiesto di non indurci in tentazione.
Beninteso, alcuni di noi, tra cui lo scrivente, anche nel corso della messa domenicale, continuano a proferire le parole originarie “non indurci in tentazione”, ma la decisione di cambiare, di alterare la traduzione originale dal testo greco del Pater, appare francamente incomprensibile e sperabilmente suscettibile di essere al più presto revocata. Si è detto che Dio non può indurre, non può spingere alla tentazione, non può portare dentro la tentazione, là dove è esattamente questo il significato del termine greco eisphérein da cui deriva il corrispondente termine latino in-ducere, ma, ammesso e non concesso che ciò fosse vero, è forse più conveniente attribuire a Dio la facoltà di abbandonare le sue creature nella tentazione? Se si giudica scandaloso che Dio possa indurre alla tentazione, perché dovrebbe risultare meno scandaloso che egli possa abbandonarci nella tentazione? Ma la verità è che questo è uno di quei casi in cui i rappresentanti del sacro non hanno avuto ritegno nel fare sfoggio di profonda ignoranza biblico-evangelica e di arroganza spirituale e religiosa. Certo che Dio non abbandona, anche se la natura umana di Gesù lo portava, nel momento del dolore più lancinante, a gridare sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!”. Ma, per quanto riguarda il non inducere in tentationem, è assolutamente falso che Dio non possa spingere determinate creature verso prove particolarmente difficili. Su base biblica, è assolutamente falso, perché evitare la croce significa vanificare la croce: Pietro voleva evitare la croce a Cristo, ma questi gli dice che le sue parole erano la conseguenza di una tentazione satanica. Quel che spesso non si capisce è che, se Satana tenta per il male, Dio tenta e può tentare solo per il bene.
Senza prove molto impegnative di vita, senza passione e morte non è possibile risorgere. Dovrebbe essere ben noto, biblicamente, che Dio sottopone a prove molto ardue tutti coloro che ama o predilige in modo speciale: Abramo fu messo duramente alla prova da Dio (Gn 22, 1) e a prove molto più dure sarebbe stato sottoposto Gesù che “fu condotto (ἀνήχθη, anechthe) dallo Spirito nel deserto per essere tentato/provato da Satana” (Mt 4,1), e che chiese in modo accorato al Padre di allontanare da sé il calice di sangue, ovvero la morte violenta, pur soggiungendo subito dopo che avrebbe tuttavia accettato “la sua volontà”. E’ dunque corretto pregare il Signore di non indurci in tentazione, cioè di non farci trovare in situazioni troppo più grandi di noi, di non sottoporci a prove troppo complicate, di non voler esaltare la nostra santità troppo al di là delle nostre capacità, perché alla fine potremmo cadere nella depressione e cedere alla tentazione di non sentire Dio, il Padre, nella nostra vita e nel nostro cuore. E’ giusto, e per niente irrispettoso verso Dio, pregarlo di non sopravvalutarci per amore e di non sollecitarci a resistere spiritualmente al male al di là delle nostre reali possibilità personali. Per onorare la nostra fede non possiamo fare a meno di implorare il Padre di non spingerci verso prove troppo difficili, anche se finalizzate a forme oltremodo gloriose di santità, verso prove che molti di noi potrebbero non superare.
Noi siamo carnali, siamo fragili; in noi molte sono le contraddizioni e le zone oscure, tra noi molte le incomprensioni, le discordie, le divisioni, e solo con l’aiuto reiterato di Dio, con la sua paterna disponibilità ad accogliere i nostri sforzi e la nostra pur limitata umanità, possiamo tentare di vivere la comunione fraterna, l’unità spirituale e sacramentale all’interno di una comunità in qualche misura sempre conflittuale. Non inducere nos in tentationem: anche perché se gli altri, pur operando noi il bene, ci criticano, ci mettono i bastoni tra le ruote, ci denigrano, ci bloccano, potremmo non avere abbastanza pazienza, perseveranza e umiltà, per resistere alla tentazione di contraccambiare con pari astio e disamore il trattamento ricevuto. Persino i nostri fratelli di fede, non di rado, ci avversano e ci complicano incomprensibilmente la vita per via di errate e conformistiche aspettative esistenziali che essi vengono coltivando nel nome del vangelo ma di fatto contro il vangelo. Come si potrebbe evitare, in un caso del genere, pregare il Signore di non farci trovare al centro di esperienze comunitarie talmente disturbanti e deplorevoli da indurci a reazioni troppo scomposte e virulente. Ma sono tante le situazioni in cui anche buoni cristiani potrebbero sentirsi tentati di cedere agli istinti o a passioni per lungo tempo represse.
Pertanto, Signore, liberaci dal male, non da questo o quel male che potrebbe contribuire anche alla nostra crescita spirituale, ma dal male, dal male dei mali, ovvero dalla possibilità che noi possiamo dannarci allontanandoci anche solo inconsapevolmente da te e dai tuoi santi comandi. Liberaci dal male, perché da soli non siamo capaci di liberarci dalla malvagità che ci circonda da ogni parte alimentando la nostra stessa malvagità personale, dalla malvagità che ci sconvolge, ci travolge, ci sollecita a lasciarci andare a parole rabbiose e ad atti inconsulti. Certo, Signore, ti chiediamo anche di liberarci e preservarci da tanti orrendi mali ordinari di questo mondo di cui talvolta noi stessi siamo corresponsabili o complici: come potremmo non chiederti di proteggere popoli o singole persone da conflitti fratricidi e sanguinosi, carichi di odio e crudeltà, o anche da “finti atti di guerra umanitari” oppure da false e ipocrite forme di pacifismo; da stupri di massa o da fenomeni sempre più consueti di violenza sessuale e non sessuale; da efferate attività omicide o genocide a sfondo terroristico o criminale; dai sentimenti ostili di chi non ama né la tua giustizia, né il tuo diritto? Ma, alla fine, ci rendiamo conto che, comunque vadano le cose nel mondo, dobbiamo chiederti li liberarci principalmente dal più terribile dei mali: il non poter risorgere in Cristo Salvatore per l’eternità. E’ una minaccia che incombe su tutti, perché come scriveva il cardinal Martini, «soprattutto chi cammina nella via della verità e del Vangelo viene attaccato dal Maligno con la tristezza. “E’ proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, creare impedimenti, turbando con false ragioni affinchè non si vada avanti”, suggerendo che non siamo capaci, che per noi è troppo, che non ce la facciamo. E’ il modo di agire ordinario del Maligno con chi cerca di camminare bene, di vivere il Vangelo: rattristarci facendoci perdere coraggio, perdere quota, infondendo tristezza e malinconia» (C. M. Martini, Non sprecate parole. Esercizi spirituali con il Padre Nostro, Casale Monferrato (AL), Portalupi Editore, 2005, p. 88). Ecco perché, nel rivolgersi al Padre, non c’è richiesta più opportuna e saggia da esprimere se non quella di poter ottenere da lui il dono illuminante e fortificante del suo Santo Spirito.
Francesco di Maria