Pensiero della settimana

Per conseguire la salvezza eterna bisogna amare Dio al meglio delle proprie capacità spirituali e il prossimo nella stessa misura in cui ognuno ama se stesso soddisfacendo necessità primarie e cercando di vivere nel modo più dignitoso possibile. Ma, in realtà, il concetto di prossimo non di rado ancora oggi viene frainteso anche se Gesù, con la parabola del buon samaritano, ne illustra esattamente il significato. Gesù spiega che il prossimo è colui che mi sta più vicino nel bisogno, è il bisognoso che mi si fa prossimo nel momento in cui io ho la concreta possibilità di constatarne il reale stato di necessità e, soprattutto, l’oggettiva consapevolezza di poter fare qualcosa, di poter provvedere in qualche modo al suo bisogno di aiuto o di assistenza umana, materiale o morale o spirituale, a seconda dei casi, e sia pure nei limiti delle mie personali possibilità. In tal senso, tutto quel che può essere fatto verso colui o colei, o coloro, che in tutta coscienza io giudichi come soggetti realmente alle prese con difficoltà superabili, almeno provvisoriamente, solo in virtù di forme soggettive di soccorso, deve essere evangelicamente fatto senza scusanti o alibi di nessun genere, sempre che io sia nella condizione non solo economica, ma psichica, morale, spirituale, di adoperarmi attivamente e diligentemente a loro favore.

In realtà, se sono già condizionato da gravi preoccupazioni familiari, dallo sconforto per la perdita di una persona cara o per avvenimenti particolarmente drammatici o disumani, o da una intima crisi esistenziale, o da qualunque altro fattore non marginale che possa indebolire decisamente la mia libertà di azione, potrebbe risultare molto problematico, ancorchè desiderabile, un atto altruistico di particolare rilievo morale: si danno casi e circostanze in cui il prossimo bisognoso non lo vedi, non lo senti, non lo percepisci, per il semplice fatto che sei a tua volta vittima di situazioni così dolorose o disperate e ti senti talmente avvilito e svuotato da non disporre della sufficiente energia per interagire generosamente, caritatevolmente, con il prossimo in difficoltà. Se poi a chiederti di aiutare il prossimo in generale, su un piano prettamente economico e finanziario, sono enti di beneficienza o filantropici, associazioni di volontariato, organizzazioni umanitarie internazionali e via dicendo, la riserva mentale che potrebbe trattenerti dall’aderire prontamente a tali sollecitazioni potrebbe ritenersi non necessariamente ipocrita ma perfettamente lecita, per il semplice motivo che, come un’amplissima esperienza storica insegna, la richiesta di carità a beneficio di prossimi generici o ipotetici, di prossimi non meglio identificati o identificabili, oppure anche di prossimi bisognosi realmente esistenti ma non destinatari inequivocabili di essa, risulta essere molto più spesso funzionale a perfide e ciniche opere di arricchimento criminale o a clamorose forme di estorsione legalizzata che non a reali iniziative di onesta e proficua solidarietà comunitaria.

Né si può tacere sui molteplici abusi che oggi si vengono facendo dell’amore evangelico in relazione a quel variegato mondo di sofferenza, disagio, emarginazione, solitudine, in cui i malati, i bambini, i vecchi, i perseguitati, si trovano associati a uomini e donne di malaffare o di perversi costumi, a individui corrotti o a criminali senza scrupoli, come se nel nome della carità fosse doveroso indulgere a qualunque tipo di esigenza, di richiesta, di istanza o di rivendicazione. Persino nella comunità ecclesiale cattolica, la parola carità viene adoperata talvolta più a scopo di condizionamento psicologico della coscienza credente, quando non addirittura di ricatto spirituale, che non al fine di incentivare lo sforzo personale e comunitario di scelte realmente generose e costose nel segreto della coscienza.

Viene inoltre applicata incautamente e unilateralmente a situazioni umane certamente molto delicate ma che, proprio per questo, richiederebbero ben altro grado di riflessione rispetto a quello di cui appaiono dotati giudizi e prese di posizione anche autorevoli tutt’altro che evangelicamente rigorosi e attendibili: si pensi per esempio ai rapporti omosessuali e alle cosiddette famiglie sessualmente aperte, che, secondo parte del mondo cattolico, dovrebbe essere accolte in spirito di carità e normativamente integrate nell’odierna società civile, o alla prostituzione o alla droga che andrebbero legalizzate, per non parlare poi dell’epocale fenomeno migratorio per cui, dicono alti prelati e teologi più mediaticamente visibili che biblicamente e spiritualmente autorevoli, non i singoli individui o singoli gruppi privati di un determinato Stato si dovrebbero adoperare in talune circostanze a favore dei migranti, ma lo Stato in quanto tale avrebbe l’obbligo di aprire il cuore, di offrire accoglienza incondizionata a tutti gli immigrati dell’universo mondo. Già, anche questa per certo mondo cattolico sarebbe un’elevata e illuminata forma di carità, senza minimamente dubitare del fatto che molto probabilmente la parabola del buon samaritano, l’invito ad amare il prossimo come se stessi, riguardino i singoli, non gli Stati, giacché, com’è scritto, “a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”, e Cesare deve preoccuparsi di procurare sicurezza, ordine e benessere, innanzitutto al popolo che esso governa.

Il prossimo evangelico non è l’umanità in generale, la specie umana in astratto, il genere umano come idea, ma è l’umanità di chi e di quanti in quanto persone, hic et nunc possono aiutare il prossimo sofferente o smarrito a stare meglio, con un bicchiere d’acqua o un pezzo di pane, con un rifugio o una coperta di lana, con una parola di conforto o con un atto mirato a restituirgli quel di cui è stato o potrebbe essere privato. Il prossimo evangelico è colui che io soccorro liberamente come singolo o come gruppo senza pretendere che lo Stato si carichi di responsabilità umanitarie che potrebbero impedirgli di assolvere la sua naturale funzione umana, sociale e istituzionale. In questo senso, pure, il prossimo evangelico, al di là delle differenze di nazionalità, di ceto sociale, di fede religiosa, di formazione culturale e via dicendo, è colui che in questo momento potrei soccorrere o aiutare direttamente o indirettamente soprattutto se in assenza di condizioni di pericolo per me o per altri. Gesù, con la parabola del buon samaritano, si rivolge ad ognuno di noi, alla nostra facoltà di condividere con chiunque versi in gravi difficoltà e in difficoltà realmente percepibili o riscontrabili e nei limiti delle capacità di ciascuno, al soddisfacimento delle sue esigenze. Ma, più in generale, ognuno di noi, nelle normali vicende del vivere, può trovarsi ad essere prossimo bisognoso di una qualche particolare attenzione, di forme intelligenti e non angustamente pietistiche di comprensione, sostegno e solidarietà.

Francesco di Maria

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