
Gherardo Colombo non è solo un famoso magistrato italiano ma anche un uomo di notevole cultura storico-letteraria e di discreta cultura biblico-religiosa, là dove questo abbinamento di scienza e pratica del diritto e cultura umanistica e teologica non costituisce certo un dato scontato e particolarmente ricorrente almeno nell’ordine dei magistrati italiani. Si conosce anche il suo impegno civile di ex magistrato e di uomo sensibile alle variegate problematiche della società italiana sia pure in relazione, in modo specifico, al tema della giustizia. Per Colombo, tale tema rischia di essere incomprensibile o insufficientemente chiaro ove lo si venga trattando esclusivamente e riduttivamente in termini di diritto positivo, di corpo storico di leggi date, di pratica giuridico-giudiziaria. E’ molto significativo, per esempio, che egli si sia trovato ad affrontarlo nel quadro di una conferenza su Dante Alighieri come cantore insuperabile della giustizia divina, sebbene caratterialmente molto passionale e forse non sempre capace di giudizi del tutto imparziali. In tal senso, la giustizia divina nella sua somma opera, la “Divina Commedia”, pur esprimendone gli alti ideali e gli universali valori, riflette altresì l’ostinata o caparbia fermezza del poeta nel dare seguito coerentemente alle proprie convinzioni su questioni di vitale importanza morale e sino al punto di preferire l’esilio al ritorno nella sua città natale, per non essersi visto tributare il giusto riconoscimento. Continua a leggere
L’inarrestabile incivilimento del mondo comporta un graduale allontanamento dalla naturalità della vita, da un modo naturale di vivere. E questo è destinato a complicare enormemente l’esistenza umana, in quanto la crescente separazione dalle leggi naturali della vita non può che comportare verosimilmente, negli esseri umani, una tendenza altrettanto crescente all’«indifferenza», alla «morte delle passioni e delle emozioni», all’«impossibilità di sentire e di immaginare», che «sono solo alcuni degli effetti visibili nel cambiamento di paradigma»
Oggi pomeriggio è stata diramata una nota giornalistica dell’Agensir, 19 giugno 2024, da cui si apprende che il vescovo di Cosenza abbia pronunciato in Cattedrale parole molto critiche nei confronti del popolo di Dio. Infatti, dal comunicato risulta che monsignor Giovanni Checchinato, che i cosentini hanno soprannominato “il vescovo dal sorriso sgargiante”, soprattutto a favore di fotografi e telecamere, abbia testualmente dichiarato: «Oggi la società pretende di avere le sue radici nel cristianesimo e invece privilegia i ricchi, battaglia con i crocifissi in mano ma continua a far morire gente nel Mediterraneo. Sembra che una sorta di torpore stia invadendo le menti e i cuori dei cristiani dell’Occidente cristiano e che la potenza del Vangelo si stia ridimensionando sempre più».
Voltaire è ancora considerato dalla maggior parte degli studiosi del periodo illuministico come uno dei massimi promotori della modernizzazione e della laicizzazione del pensiero non solo francese ma europeo1, oltre che come grande critico della Chiesa cattolica e della religione in genere, intesa, vissuta e praticata nelle sue varie forme confessionali, tutte indistintamente intolleranti e reciprocamente conflittuali. Tuttavia, se certo non fu religioso nel senso confessionale del termine, Voltaire fu credente in un Dio della coscienza e della ragione, vale a dire nel Dio cui si potesse pervenire spontaneamente solo per via di coscienza morale e di intuizione razionale e non necessariamente sulla base di particolari verità rivelate dall’alto, per cui non fosse necessario dimostrare, con ragionamenti particolarmente laboriosi e complessi, l’esistenza di Dio, visto che quest’ultima era qualcosa di intuitivamente innegabile. Il Dio voltairiano era un Dio di ragione: per credere in esso non era necessario uno speciale atto di fede. La stessa immortalità dell’anima era un corollario dell’esistenza di Dio, perché se c’è Dio, che in quanto tale deve essere eterno e quindi immortale, anche l’anima da lui creata, pur soggetta alla morte a causa della sua stessa creaturalità, in qualche modo non potrà che partecipare della stessa immortalità divina in quanto, altrimenti, anche quel desiderio di felicità che è connaturato nella vita stessa degli individui, non potrebbe mai essere soddisfatto, mentre Dio non può fare le cose a caso.