Non di sola economia vivrà l’uomo

Citazione

Può darsi che mi sbagli, ma forse nella storia dell’umanità non era mai successo che a dominare ossessivamente o paranoicamente sul piano culturale fosse un pensiero unico come quello odierno, ovvero un pensiero e un sapere economici che non si preoccupano minimamente di interagire con altri ambiti fondamentali della cultura ma che ignorano completamente e la cultura e le persone. Qui ormai si ha a che fare con un sapere economico di tipo tecnicistico completamente avulso da qualsivoglia concezione filosofica e religiosa della vita e del mondo, e che questo sapere sia non solo predominante ma quasi legittimato a farla da padrone e ad esercitare una vera e propria dittatura su ogni ragionamento o argomentazione extraeconomici è dimostrato dal fatto che gli stessi partiti della sinistra, un tempo vere e proprie fucine di idee e progetti alternativi all’“ordine di cose esistente”, sembrano ormai segnati indelebilmente da una sorta di deficit permanente di riflessione teorica, diciamo pure di analisi e proposte filosofiche capaci di fronteggiare il momento presente e di imboccare coraggiosamente delle strade nuove o antiche, se si vuole, ma tali da sbarrare il passo, costi quel che costi, ad ingordi potentati finanziari e a logiche economiche semplicemente aberranti che rischiano a questo punto di prendere il posto dei meccanismi biologici della teoria darwiniana della selezione naturale.

D’altra parte, tutti quei grandi economisti che ormai fanno sempre parlare di sé, procedendo il più delle volte a tentoni, spesso o quasi sempre sbagliando previsioni, e mai o quasi mai ammettendo i propri errori che tendono anzi a giustificare nei modi più bizzarri o strampalati, sono gli ideologi di un nuovo sistema internazionale e sovranazionale di potere non solo economico ma decisamente politico che ha deciso di creare un nuovo ordine mondiale a struttura rigidamente finanziaria e classista attraverso una progressiva riduzione delle tradizionali prerogative degli Stati, a cominciare da quelle della loro indipendenza e sovranità. Si sente infatti sempre più insistentemente parlare di cessioni di sovranità nazionale senza che peraltro i partiti politici avvertano la necessità morale e politica di opporsi in modo indignato e risoluto a questa tragica se non addirittura imminente eventualità.

Non ci sono intellettuali, non ci sono filosofi, non ci sono giuristi capaci di dimostrare che ci stiamo avvicinando ad una catastrofe sociale, morale, politica, oltre che economica e finanziaria, di proporzioni inaudite che rischierebbe di mettere in discussione persino la struttura antropologica dell’umanità, alterandone irrimediabilmente sentimenti e princípi di convivenza e di socialità. Come ha detto bene la filosofa Francesca R. Recchia Luciani, nella crisi che stiamo attraversando l’essere umano, ed è la prima volta che ciò accade storicamente, non conta assolutamente nulla, perché quel che conta sono l’inflessibilità dei numeri e delle cifre non importa se calcolati correttamente o scorrettamente, l’assoluta ineludibilità del debito pubblico non importa se derivante da criteri contabili morali e giuridici legittimi o arbitrari, l’inevitabile commissariamento ovvero asservimento delle nazioni inadempienti e insolventi: «Le persone, oggi ridotte alle categorie di produttori e consumatori, sono stritolate dal meccanismo letale dei grandi poteri finanziari e non è un caso che nei diversi Paesi si salvino le banche e non le persone. Quello che vige è un sistema veterocapitalista di controllo degli esseri umani che non lascia respiro. Per questo Marx risulta più attuale che mai, e oggi può a ragione essere considerato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi» (intervista di Virginia Perini in “Affaritaliani.it”, 4 maggio 2012).

E quel che qui non si può e non si deve mancare di sottolineare è che responsabili di questa situazione non sono solo le destre ma anche le sinistre le quali «hanno avuto un progetto che poteva sembrare anticapitalistico, ma che di fatto non lo è stato mai», perché mai esse hanno dichiarato guerra sul serio ad un sistema fortemente privatistico, fondato sul profitto illimitato o indeterminato e sullo sfruttamento della forza lavoro in molti campi produttivi e di natura sia tecnica e manuale che intellettuale, come anche sulla produzione ad oltranza di merci e sulla contemporanea mercificazione di ogni più intimo aspetto della vita morale delle persone: «Porre gli esseri umani davanti al sistema economico», osserva polemicamente e giustamente la professoressa Recchia Luciani, docente di filosofia ed epistemologia del Novecento presso l’università di Bari, «non è un progetto utopico, è una rivoluzione concettuale fattibile». Ma le sinistre hanno fatto finta di non saperlo, pur tra proteste e contestazioni ipocrite antisistema, non tanto per cecità teorica quanto soprattutto per inerzia morale e compromissorio opportunismo politico.

Spiace peraltro constatare che anche nelle file cattoliche, dove dovrebbe essere ancora vivo il ricordo del comunitarismo economico e sociale delle più antiche comunità cristiane, e ancora presente un senso non meramente formale o giuridico dell’eguaglianza tra gli uomini, nonché una capacità morale di promuovere la valorizzazione delle capacità e dei meriti personali in funzione del bene e del benessere collettivi e infine una sincera e granitica fede religiosa nell’avvento di un mondo più giusto e più libero e quindi meno inquinato da egoismi e prepotenze di ogni genere, non ci siano forse personalità capaci di organizzare un movimento culturale e politico che, nell’esplicito nome del Cristo delle beatitudini, scenda risolutamente nell’arena politica per riorientare radicalmente i processi politici in atto e la stessa mentalità politica dominante.

Per la studiosa citata, in un contesto cosí disastrato sarebbe indispensabile il ritorno di un sapere filosofico aggressivo sia dal punto di vista critico che dal punto di vista etico e morale: «la filosofia è fondamentale perché solo il suo sguardo complessivo può aiutare a riflettere in maniera completa e sensata su quella realtà che deve essere trasformata dalle idee, sui meccanismi reali di funzionamento della vita sociale, portando al centro del cambiamento l’essere umano, i suoi bisogni e le sue necessità». Ma per i credenti non può non accompagnarsi ad una vigorosa rinascita dell’impegno filosofico un nuovo modo di intendere e praticare la fede in Cristo: un nuovo modo rispetto ad una corrente prassi spirituale e religiosa troppo abitudinaria e particolarmente flemmatica in ordine a questioni divenute cruciali della vita economica e sociale e della vita tout court; ma un modo sempre antico in quanto sia conforme o più conforme alla fede dei nostri più antichi padri per i quali tanto gli spazi privati quanto gli spazi pubblici furono ambiti in cui venne esercitandosi con identica passione la loro fede.

Anzi, per i credenti che ritengono giustamente ed evangelicamente innaturale vivere di sola economia e che percepiscono il “regno di Dio” non solo come una realtà metastorica ma anche come un urgente e indifferibile compito di umanizzazione di questo mondo, il destino della ricerca filosofica della verità, dell’amore e della giustizia tra gli uomini e per gli uomini non potrà rivelarsi proficuo al di fuori di un rapporto sempre più stretto di collaborazione con la fede in Colui che solo potrà salvarci da tutte le patologie della vita e della storia.

Filippo Trignani

Il Vangelo e la politica

img1Quando si sente dire, anche in ambito cattolico, che Dio con la politica non c’entra niente, che il suo messaggio di salvezza riguarda l’uomo nella sua realtà integrale e non questo o quel determinato aspetto della sua esistenza, che il mondo come la politica passano mentre la Parola di Dio rimane, non sempre forse ci si rende conto che, contrariamente all’intenzione di magnificare il divino e il suo universale piano di salvezza, il rischio è proprio o ancora quello di vanificare o di ridurre la portata dell’incarnazione e della risurrezione di Dio in Cristo. Perché è vero che Cristo non è venuto a salvare l’uomo sotto l’aspetto politico o quello economico o quello sociale ma ben al di là di ogni sua particolare condizione umana sia dal punto di vista politico che economico e sociale e via dicendo, e tuttavia è del tutto evidente che questo non implica affatto che la sua opera salvifica non riguardi e non comporti un mutamento qualitativo e liberante, una progressiva trasfigurazione spirituale di tutte le dimensioni essenziali in cui la stessa vita umana e per l’appunto nella sua interezza viene manifestandosi e svolgendosi.

E’ semplicemente errato pensare che, siccome quel che conta alla fine è la salvezza eminentemente spirituale dell’uomo, allora l’impegno degli uomini non debba esercitarsi anche in tutti i campi della sua vita spirituale ma fondamentalmente sul piano religioso, come se la religiosità significasse disinteresse o tiepidezza per tutto ciò che è costitutivamente umano. Al contrario, proprio perché il nostro compito dev’essere quello di trasformare profondamente la nostra vita personale, non potremo sottrarci, ognuno s’intende nei limiti delle sue possibilità e delle sue attitudini, al dovere di tendere ad una progressiva trasformazione della nostra vita interiore in rapporto a tutti i particolari contesti della nostra complessiva esperienza di vita.

Ancora tanta gente pensa che il vangelo non abbia una sostanziale incidenza sulla politica e che dal vangelo non derivino specifiche opzioni politiche in quanto esso sarebbe funzionale alla salvezza di ciascuno indipendentemente dalle sue scelte e dai suoi atti politici ed in quanto è funzionale a quel Regno di Dio di cui possono far parte tutti coloro che sinceramente avranno cercato di rivedere continuamente la propria vita in direzione dell’amore e della giustizia verso tutti e verso i nostri stessi nemici. Certo: è cosí.

Ma, appunto, il Vangelo, in quanto insieme degli insegnamenti di Gesù, non è equidistante, non è neutrale rispetto alle scelte che ognuno di noi compie non solo ma anche in sede politica. Il Vangelo predica il perdono incondizionato e dunque, a prescindere dalla correttezza del nostro modo di credere in Dio e di operare in società, predica la divina disponibilità a riabbracciare quanti si siano onestamente sforzati di convertire la propria vita alla parola di Verità del Cristo, laddove questa parola viene altresì articolandosi in uno spirito molto esigente ed  inesauribile di carità e di giustizia. Dunque, il Vangelo indica una precisa direzione di marcia da cui non sarà possibile derogare a colpi di sottili argomentazioni dialettiche o di mistificanti razionalizzazioni.

Evangelicamente, uno può essere monarchico ma a condizione che la sua fede monarchica non si traduca poi in una esaltazione indiscriminata del monarca e in una difesa ad oltranza dei diritti di Cesare contro i diritti del supremo e trascendente Monarca e contro i diritti del popolo; un altro può essere conservatore ma a condizione che la difesa della tradizione e di determinati assetti politici e sociali di potere non coincida con una rimozione dell’obbligo morale di favorire innovazioni necessarie al bene comune e cambiamenti richiesti da una legittima volontà popolare di maggiore partecipazione decisionale alla gestione del bene e dei beni pubblici; un altro può essere progressista, ma senza pretendere di violare, nel nome dell’emancipazione sociale, princípi naturali ed etici di comprovata e consolidata validità biblico-evangelica come la sacralità della vita umana in tutte le sue forme e le sue fasi, l’indissolubilità del matrimonio e la difesa della famiglia nella sua unica ed esclusiva struttura eterosessuale, un diritto sia pure relativo a possedere beni privati, un rispetto non idolatrico verso qualsivoglia forma di Stato, una ricerca onesta e permanente di forme non demagogiche e sempre migliori di uguaglianza giuridica e giustizia sociale. E via dicendo.

In altri termini, aver fede nel vangelo significa credere che in ogni cosa che facciamo, in ogni nostro pensiero e in ogni nostro atto, quali che siano gli ambiti in cui ci troviamo ad operare (familiare, sociale, economico, politico, ecclesiale, monastico, genericamente interpersonale, strettamente intimo e personale, ecc.), non possiamo fare a meno di chiederci senza infingimenti di sorta e in modo assolutamente rigoroso: qui ed ora, al posto mio, che farebbe o come farebbe nostro Signore Gesù? E, se anche a volte non è affatto facile discernere tra giusto ed ingiusto, ciò non ci esime in nessun caso dall’assumerci precise responsabilità al cospetto di Dio.

Bisogna dire con molta franchezza che qui il problema non sarà quello di stabilire in astratto se i cristiani debbano essere tradizionalisti o progressisti e se la Chiesa debba o non debba allearsi con il mondo moderno. I cristiani invece saranno tradizionalisti o progressisti a seconda dei casi e quindi non acriticamente. Da un punto di vista politico, per esempio, saremo cristiani tradizionalisti o progressisti nel ritenere che la comunione dei beni materiali e spirituali debba essere, come evangelicamente è, un principio fondante di una comunità e di una società cristiane? Direi che saremo sia tradizionalisti, perché si tratta di un oggettivo principio evangelico assai ricorrente seppure con diverse tonalità nella santa tradizione della Chiesa, sia progressisti perché farsi fautori di questo principio significa entrare il più delle volte in rotta di collisione con molteplici forze sociali e politiche di segno non di rado anche cristiano e cattolico che resistono all’idea e al progetto di una equa divisione dei beni in uno spirito di fraterna e caritatevole condivisione.

Siamo sicuri, per esempio, che proprio su questo terreno la modernità, per quanto disseminata di errori e di giudizi fallaci, non possa offrire contributi più precisi, qualificati e attendibili anche in sede religiosa, di quelli spesso forniti da prese di posizione prevalentemente propagandistiche e demonizzanti della Chiesa cattolica in genere? Avrà avuto ragione l’insigne studioso e sacerdote cattolico argentino padre Julio Meinvielle nell’accusare il mondo moderno di essere morto «da laicista e da ateo» e di avere «le sue radici nel fatto che cerca in primo luogo la realtà temporale, e così rimane senza la realtà eterna e finisce addirittura per perdere la realtà temporale» (Si allude alla sua ponderosa opera su “Concezione cattolica della politica” pubblicata recentemente da Edizione Settecolori 2011, curata da padre Arturo A. Ruiz Freites e molto considerata in parte del mondo cattolico); ma, parliamoci chiaramente e senza ipocrisia, questa stessa considerazione non può valere anche per la stessa prassi storica della Chiesa e del mondo religioso in genere? E’ solo la rivoluzione borghese-capitalista e la rivoluzione proletaria-comunista che hanno corrotto la politica e l’economia, come sostiene Meinvielle, o lo stesso effetto non è stato per caso prodotto da tante stagioni reazionarie della storia umana e della nostra stessa contemporaneità magari nel nome della democrazia, del moderatismo e della pace sociale?

Si comprende bene che specialmente un uomo di Chiesa sia portato ad accentuare molto la centralità di Dio nella vita e nella storia degli uomini; quello che si comprende meno è che lo si voglia fare assolutizzando il valore dei propri strumenti di analisi e di giudizio e lasciandosi andare a generalizzazioni e colpevolizzazioni francamente unilaterali o arbitrarie. Come la seguente: «Il problema primo dell’uomo è il destino eterno dell’uomo. Il problema primo dell’uomo è la situazione dell’uomo verso Dio. E’ un problema interiore, un problema che si trova entro l’anima, che non si risolve dandogli da mangiare, ma si risolve dandogli Dio». Bene, ma non sarà forse un modo per dire ancora una volta che l’uomo che ama Dio non deve vivere anche di pane e non deve pensare tanto a come procurarselo sia pure con l’aiuto di Dio stesso?

Maurizio Tenuta

Governo tecnico e fede cattolica

George Orwell, lo scrittore britannico che ha lanciato il concetto di “grande fratello”, scriveva: «Sottraete alla Libertà il Senso e avrete in pugno un concetto da poter utilizzare per asservire nazioni e popoli a vostro gradimento». Nella nostra epoca è venuto imponendosi una concezione paradossale della libertà, secondo cui quest’ultima è un concetto legale, puramente “tecnico”, avulso da ogni concreto e specifico contesto esistenziale. Oggi viviamo in una società formalmente e istituzionalmente libera ma anche in una società in cui tra la libertà e il suo senso e quindi il suo stesso significato viene producendosi un crescente e cosí rilevante divorzio da imbrigliare e depotenziare un numero sempre più alto di possibili o reali manifestazioni umane e civili di libertà.  A cominciare dalla tanto decantata “libertà di stampa” che, come è a tutti noto, può essere usata per dare notizie o anche per nasconderle, per informare o anche per disinformare, per potenziare la capacità individuale e collettiva di giudizio o anche per indebolirla e impedirla, per favorire effettivi processi di emancipazione sociale ed economico-finanziaria oppure per bloccare ogni possibile moto di liberazione e per subordinare i legittimi interessi delle persone e dei popoli agli interessi illegittimi ed arbitrari di potenti e cinici gruppi finanziari disseminati in tutte le parti del mondo. 

Oggi, per limitarci a questo nostro sgangherato Paese, quanti e quali sono i giornali o i radiotelegionali, tra quelli che a ragione o a torto contano a livello nazionale, che fanno opera di intelligente e responsabile critica demistificante, che aprono veramente gli occhi alla popolazione con dati veri e non falsi o parziali, con diagnosi rigorose ed obiettive e non asservite a logiche e manovre governative di molto dubbia utilità economica e sociale? Per esempio, chi si è preoccupato in Italia di confutare e stigmatizzare l’affermazione palesemente falsa del prof. Mario Monti rilasciata a Pechino assai di recente, ovvero in data 1 aprile 2012: «Credo che questa crisi, cioè quella economica europea,  sia quasi finita, forse c’è solo una piccola componente psicologica. Ero molto preoccupato quando sono arrivato che l’Italia potesse essere un nuovo focolaio di crisi. Ma non è successo e non succederà. Permettetemi di dire che siamo sollevati. Soprattutto nell’essere consapevoli che non soltanto la crisi è superata, ma è stato grazie all’Italia che l’Europa sta uscendo fuori dalla crisi economica, ormai abbondantemente alle spalle»? Per Monti, appena due mesi or sono, la crisi economica europea era “quasi finita” e anzi poteva considerarsi ormai superata grazie all’Italia, grazie cioè all’eccellente lavoro svolto dallo stesso governo Monti!

Dove sono coloro che hanno posto in risalto la colossale falsità di tale dichiarazione, pur potendo disporre del giudizio esattamente opposto che quasi contemporaneamente è venuto formulando l’OCSE, secondo cui l’Italia nel 2012, davanti solo alla Grecia e al Portogallo, avrà molto probabilmente la peggiore performance economica nella zona euro con un prodotto interno lordo in forte riduzione, con una disoccupazione in forte crescita, con una forte contrazione del consumo interno, con una netta diminuzione delle esportazioni e un consistente aumento delle importazioni dai Paesi extracomunitari, con una spesa pubblica in aumento e quindi con un pareggio di bilancio che contrariamente a quanto garantisce Monti sarà molto difficilmente raggiungibile nel 2013, per cui con ogni probabilità si renderà necessaria un’ulteriore manovra integrativa ai danni delle fasce sociali più deboli della popolazione? D’altra parte, ci si chiede come potrebbero andare diversamente le cose con un governo Monti che ritiene di versare immediatamente i soldi incassati dallo Stato con le tasse per il pagamento di stratosferici “interessi passivi”, con conseguente impossibilità di espansione economico-finanziaria e di riduzione della spesa pubblica che aumenta a causa della stretta creditizia.

Tutto questo non significa che “il governo tecnico”, come minimo, ha sbagliato completamente i conti e che probabilmente un tradizionale e sia pure scalcinato governo politico avrebbe fatto meno danni? Ma tutto questo non potrebbe anche significare che questo governo tecnico, in realtà, non ha affatto sbagliato i suoi conti ma, sia pure tra promesse non mantenute e mistificazioni di ogni genere ammantate di competenza professorale e persuasività tutta accademica, ha sinora egregiamente eseguito il suo compito primario, affidatogli dalle potenti lobbies finanziarie mondiali di cui è il reale mandatario: quello di smantellare lo Stato Sociale e di rastrellare denaro in ogni comparto del lavoro pubblico e privato con conseguente drastica riduzione dei redditi personali, familiari e in buona parte aziendali, proprio al fine di favorire e non certo disinteressatamente quelle lobbies criminali determinandone il maggiore arricchimento possibile? Ma chi le dice, chi le denuncia, chi le grida queste cose? O almeno, chi le prospetta nel quadro di uno spregiudicato dibattito etico-politico?

Non c’è atto politico, economico, finanziario di questo governo che non possa essere analizzato, demistificato e smontato pezzo per pezzo, e con argomentazioni ben più numerose ed incisive, diciamo pure più “scientifiche” e analitiche, di quelle pure abbastanza significative e precise che qui si possono dare. Gli stessi trascorsi scientifici e professionali del prof. Monti, a giudicare dalle molteplici e particolareggiate informazioni fornite dal web, appaiono molto meno lusinghieri e brillanti di quanto generalmente si crede, anche se tutti sanno che egli ha sempre assiduamente frequentato i personaggi più altolocati della finanza mondiale. Eppure in Italia a sentire il bisogno di smascherare quella che per molti è solo un’accolita governativa di faccendieri dalla faccia pulita sono ancora in pochi, mentre le masse mormorano con giusta ragione ma senza disporre di tutte quelle conoscenze che potrebbero metterle nella condizione di rivoltarsi per tempo, democraticamente ma energicamente, contro questi “sepolcri imbiancati”, come appare a qualcuno, che, nel nome degli interessi nazionali, indefessamente perseguono gli interessi di quelle ricche e opulente cricche internazionali nel cui ambito sembrano sentirsi davvero a casa propria. 

Non che non si debba risparmiare, che non si debbano mettere in ordine i conti dello Stato, non si debbano fare tagli alla spesa pubblica e ridurre drasticamente sprechi e spese superflue, o non si debba riformare il mondo del lavoro e la pubblica amministrazione. Nessuno nega che la politica debba tendere a modernizzare lo Stato e a renderlo quindi più efficiente e produttivo anche attraverso riforme di carattere economico e finanziario; nessuno ritiene che essa non debba occuparsi anche di debito pubblico.

Ma qui si tratta di intendersi. Risparmiare: certo, ma in che modo, su che cosa, e a danno principalmente di quali soggetti sociali? I conti dello Stato: certo, non possono che essere riportati in ordine con misure adeguate e rigorose, ma togliendo o aggiungendo a quali voci di spesa e, ancora una volta, a detrimento di quali ceti e soprattutto in funzione di quali obiettivi sociali? Se la spesa pubblica è eccessiva, va ridimensionata, ma anche in questo caso non è ragionevole interrogarsi sui modi, sui tempi e sugli specifici oggetti di questo ridimensionamento? E cosí anche per il mondo del lavoro e la pubblica amministrazione sarà senz’altro vero che bisognerà cambiare le cose, ma non è del tutto sensato chiedere ed esigere che qualsiasi programma riformatore sia realmente coerente con quelle finalità di maggiore produttività, di maggiore occupazione lavorativa, di crescita e di sviluppo, nonché di maggiore valorizzazione dei meriti professionali, che si dice continuamente di voler perseguire? E, quanto al debito pubblico, è giusto che, ove sia stato contratto, in linea di principio debba essere onorato: tuttavia anche qui sarà consentito di sapere esattamente che cos’è questo debito pubblico, le specifiche ragioni finanziarie della sua entità, le sue interne articolazioni, e di eccepire eventualmente che non c’è comunque debito pubblico che possa sfociare nell’imposizione a chi l’abbia contratto di politiche economiche e fiscali talmente coercitive e vessatorie da produrre l’assoluto impoverimento di intere popolazioni?

In altri termini, se si vuole uscire dal modo per più aspetti irrazionale in cui oggi viene usata la politica, nel mondo in genere e anche nel nostro Paese, e dall’uso spesso distorto o unilaterale che i “tecnici” governativi fanno di parole come “razionalità” o “oggettività”, bisogna ripristinare un antico ed universale principio di razionalità: che non l’economia né la finanza dettino le regole alla politica ma la politica detti o torni a dettare le regole all’economia e alla finanza. Sí, nuove regole, nuove norme che impediscano ai controllori e agli esattori dei cosiddetti “debiti sovrani” di fare puro e semplice terrorismo finanziario che inevitabilmente provocherebbe e già sta provocando un terrorismo politico che sarebbe inutile demonizzare dopo aver fatto di tutto per innescarlo e farlo tragicamente divampare. Tutti sanno che la violenza genera violenza e che non c’è violenza peggiore di quella che pretende di gettare intere famiglie e una moltitudine di individui in uno stato di fame e di schiavitù.

E, poiché la politica e una politica democratica devono preoccuparsi innanzitutto, quale che sia la specifica situazione economico-finanziaria del momento, di soddisfare le necessità primarie e talune legittime aspettative di vita dei cittadini, esse saranno una buona politica e una sana politica democratica, anche se severe e rigorose, se non maneggerà la crisi pure oggettiva in modo fraudolento e quindi tale da assicurare non tanto il “risanamento” dello Stato quanto un massiccio e pressoché indefinito trasferimento di ricchezza nazionale ai vari e inappagabili centri internazionali di potere finanziario.

Tutto ciò dovrebbe essere nitidamente percepito dai cattolici che spesso amano parlare di bene comune più che dei modi specifici in cui lo si possa davvero perseguire specialmente nei momenti più critici e più che degli stessi strumenti per mezzo dei quali sia possibile evitare, al di là delle parole e delle buone intenzioni, forme gravi e diffuse di iniquità umana e sociale. Anche Monti, come ognuno di noi, renderà conto a Dio delle sue opere: da questo punto di vista nessuno di noi ha il diritto di giudicarne la fede e l’integrità spirituale. Ma un cristiano ha anche il dovere di parlare con franchezza e di dire quello che non lo persuade a proposito di determinati comportamenti e dunque non ci si può qui esimere dal rivolgergli almeno questa domanda: è proprio sicuro il fratello cattolico Monti che il suo modo di lavorare per i suoi connazionali sia anche il modo più proficuo ed onesto di lavorare per la costruzione e l’avvento del Regno di Dio?

Cosa abbiamo, chiese Gesù ai suoi discepoli: qualche pane e qualche pesce? Bene, bisogna che bastino per sfamare tutta questa gente. Se utilizzerete al meglio il vostro intelletto e il vostro cuore, ci riuscirete. E a quell’uomo che, dopo avergli condonato il suo cospicuo debito, pretendeva che altri estinguessero  sino all’ultimo spicciolo i debiti contratti verso di lui, Gesù dice: uomo malvagio, non meriti alcuna compassione. Questo è il nocciolo di una scienza economica non asservita ideologicamente e ispirata dalla fede in Cristo: anche se le risorse sono scarse devono essere divise e condivise in modo equo ed equanime perché nessuno muoia di fame e perda la sua dignità, e, laddove vi siano debiti piccoli o grandi da saldare, bisogna tener sempre presente che la loro pur doverosa estinzione rimane subordinata alla tutela della vita materiale e spirituale delle comunità nazionali e di ogni essere umano.

Tra dittatura finanziaria e “rimozione” cattolica

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La Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB), autorità totalmente indipendente dal potere esecutivo ovvero dal governo, assolve oggi le stesse funzioni di vigilanza sul mercato borsistico e mobiliare in genere che, prima della sua istituzione nel giugno del 1974 per mezzo della legge n. 216, era il Ministero del Tesoro, e quindi un organo centrale dell’Esecutivo, a svolgere. Se la Consob non godesse di piena autonomia giuridico-amministrativa ed istituzionale, oggi probabilmente il suo presidente, Giuseppe Vegas, per quanto esponente del “Popolo delle Libertà” e uomo molto vicino all’on. Berlusconi che nessuno rimpiange come capo del governo ma che è costretto da diverse circostanze a lui sfavorevoli ad appoggiare a denti stretti il governo Monti, non avrebbe espresso sull’euro, sui mercati e sulle agenzie internazionali di rating, un giudizio cosí franco e severo e per larga parte del popolo italiano anche cosí obiettivo, come quello che egli ha invece espresso a Milano al cospetto della comunità finanziaria e del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Cos’ha detto Vegas?

Dopo aver esordito con una citazione di Epitteto secondo il quale «non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti», alludendo a tutti quegli uomini politici e di governo e più in generale a tutti coloro che ancora si ostinano a pensare che le politiche nazionali non possano essere elaborate se non quasi esclusivamente sulla base dei responsi giornalieri dei mercati internazionali, egli ha giustamente affermato che «lo spread attribuisce ogni potere decisionale a chi detiene il potere economico, nei fatti vanificando il principio del suffragio universale» e che ciò non può non alimentare il rischio di «una dittatura dei mercati» che alla lunga comprometta le fondamenta stesse delle democrazie europee. In realtà, i popoli manifestano un’insofferenza sempre più grande verso “la dittatura dello spread” e di quanti vorrebbero impedire ai popoli stessi di assumere delle libere decisioni. Quello che sul piano nazionale ed internazionale si fa molta fatica a comprendere, ha implicitamente inteso dire Vegas, è che non c’è “debito sovrano” che possa condannare uno o più popoli alla schiavitù.

Naturalmente il discorso di Vegas non poteva piacere, e non è infatti piaciuto, né a Monti né a Napolitano, entrambi notoriamente in profonda sintonia con le diagnosi e i programmi mondialisti di forzato e rapace risanamento elaborati dalle varie commissioni e dai più raffinati clubs politico-finanziari internazionali, ed è singolare e significativo che proprio Napolitano, mentre alla fine della relazione del presidente della Consob teneva ad osservare di aver conosciuto nella sua lunga vita “anni” più “orribili” di quello pure molto duro di questo periodo, a chi gli chiedeva di commentare l’espressione di “dittatura dello spread” egli  abbia ritenuto di dover laconicamente rispondere: “è solo un modo di dire”. Una importantissima autorità dello Stato parla di “dittatura dei mercati” e il presidente della Repubblica si concede il lusso di interpretare semironicamente o di banalizzare tale espressione parlando di “semplice luogo comune”! Ci si chiede se anche un siffatto atteggiamento possa rientrare nella proverbiale saggezza del nostro Capo dello Stato.

Quanto alla prima parte delle sue dichiarazioni è invece verissimo che la storia del ’900 sia stata segnata spesso da “anni orribili”. Il 1956, per esempio, fu davvero un “anno orribile” perché in quell’anno l’esercito sovietico invadeva l’Ungheria anche se il comunista Napolitano, a differenza di tanti altri comunisti che avrebbero abbandonato il partito di Togliatti, elogiava l’intervento sovietico dicendo che l’URSS non solo «in Ungheria porta la pace» ma contribuiva «a salvare la pace nel mondo». Ieri Napolitano, nel nome della pace in Ungheria e nel mondo, tesseva lodi sperticate per la repressione militare sovietica; oggi, mutatis mutandis, egli, nel nome dello sviluppo e della libertà del popolo italiano e dei popoli europei, tesse lodi sperticate per la repressione finanziaria nazionale ed internazionale. Ieri si batteva a favore dell’ordine comunista credendo che quell’ordine violento fosse un ordine di civiltà e di pace, oggi si batte a favore dell’ordine finanziario e mondialista credendo che quest’ordine altrettanto violento ma molto più esteso sia un ordine di progresso economico e di progresso civile e un importante tramite verso un’era di prosperità e di pace per tutto il genere umano.

Sembra che tra il giovane e il vecchio Napolitano non ci sia soluzione di continuità: sbagliava 56 anni or sono quando pensava che da un’ingiustificata violenza politica e militare potesse scaturire libertà e pace, continua a sbagliare oggi nel pensare che da un forsennato attacco di gruppi plutocratici internazionali alla libertà e alla dignità dei popoli e dei loro cittadini più poveri possa derivare un sicuro futuro di stabilità economica e di benessere per tutti. Sembra proprio che questo “saggio” Capo di Stato sia stato e continui ad essere succube o vittima di una vera e propria mistica della potenza: della potenza politica e militare ieri, della potenza politica e finanziaria oggi. A cosa è servito, ci si chiede, che Napolitano abbia chiesto scusa, sia pure molto tardivamente, a quell’Antonio Giolitti che nel ’56 aveva bollato come una specie di traditore per aver protestato contro la brutale invasione sovietica ed essere uscito dal PCI?

Vegas chiede giustamente alla politica di reagire e di fare in modo che ad essere o a restare in campo non sia semplicemente la politica dei mercati e delle semiocculte forze finanziarie che la ispirano e la alimentano ma la politica dei governi che dovrebbero sentire il dovere di contrastare responsabilmente ed energicamente tutte quelle politiche interne ed esterne volte non a tutelare ma a distruggere i veri interessi dei loro popoli. Vegas, a prescindere dalle sue personali posizioni partitiche e politiche, chiede qualcosa che in generale non può non essere condiviso e sostenuto da chiunque abbia veramente nel cuore la patria, la nazione, e si preoccupi di rendere quanto più possibile serena la vita popolare e sociale che non può rimanere perennemente sottoposta ai violenti e spesso gratuiti o umorali scossoni dei mercati e dei mercanti del mondo intero. Se si è stati capaci di liberarsi della follia nazista, non si vede perché oggi non si potrebbe e dovrebbe essere capaci di liberarsi della follia di mercati e mercanti non solo esigenti ma ormai sempre più manifestamente criminali. A volte ci si chiede sgomenti quale differenza ci sia, a parte i modi dei processi estorsivi, tra l’estorsione creditizia e mercatista, avallata dalla politica ordinaria degli Stati, e forme più comuni e più note di estorsione criminale.

Tuttavia qui il problema è più complicato di quel che si potrebbe pensare: perché coloro che continuano a credere nei mercati come in un vincolo obbligato e imprescindibile di ogni seria politica governativa sono anche coloro che vorrebbero rimettere a posto le cose e risanare in toto la società lasciandone sostanzialmente immutati gli assetti fortemente privatistici e anzi potenziandone ulteriormente, al più con qualche cambiamento legislativo del tutto insignificante, fondamentali strutture di potere come istituti di credito o banche, società multinazionali, enti come per esempio le fondazioni o libere associazioni come per esempio i partiti,  e poi naturalmente redditi o patrimoni ingentissimi di singoli privati, per rovesciare quindi quasi tutto il peso del “risanamento” sui ceti medio-bassi con riforme mortali più che strutturali, mentre coloro che si oppongono alla dittatura dei mercati e a politiche fiscali particolarmente esose non appaiono generalmente propensi a prendere in seria considerazione l’idea di origine evangelica che ogni guadagno, ogni profitto, ogni accumulazione di denaro o di capitale debba servire esclusivamente a soddisfare le prioritarie necessità materiali e morali o spirituali della società e i bisogni specifici e reali di ogni suo cittadino attivo ovvero capace di produrre, oltre che quelli di chi non può produrre non per sua responsabilità ma per pura e semplice impossibilità, indipendentemente dalla ricchezza complessiva che la società stessa produce o è capace di produrre. Dove si intende sottolineare con forza che il soddisfacimento delle istanze vitali della popolazione non deve affatto dipendere dal cosiddetto “sviluppo” o dal mitico concetto di una crescita economica necessaria o indefinita e che deve essere invece possibile non solo sopravvivere ma vivere dignitosamente con i beni e i mezzi di cui volta a volta si dispone e attraverso regole o provvedimenti realmente equi ed equanimi per tutti e per ciascuno.

Alle pretese di quanti, invocando sempre rigore e razionalizzazione, sviluppo e crescita, lavorano in realtà e unicamente (non importa se in buona o cattiva fede), sul piano nazionale ed internazionale, per l’incremento illimitato di determinate ricchezze personali o individuali e per il benessere di pochi contro il malessere dei più, sarebbe tempo di opporre risolutamente la prospettiva morale, economica e finanziaria, in cui certi diritti privati alla proprietà e al possesso di qualunque genere non abbiano più un valore giuridico assoluto ma siano suscettibili di adeguata revisione o rinegoziazione a seconda delle specifiche e concrete condizioni dei popoli e dei loro cittadini. Purtroppo, sono pochi anche i cattolici che si fanno realmente fautori di quello spirito evangelico di radicale condivisione materiale e spirituale che sarebbe stato alla base delle prime comunità cristiane in cui si era capaci di vivere in modo sobrio ma dignitoso e in cui non esistevano né ricchi né poveri. La stessa Chiesa cattolica, generalmente parlando, pur facendosi portatrice di istanze comunitarie solidaristiche e giustamente non pauperistiche, forse non sta facendo abbastanza per rendere chiara e inequivocabile la volontà di Cristo che può riassumersi cosí: qualunque cosa abbiate, dividetela e condividetela fraternamente dando ciascuno secondo le sue risorse e a ciascuno secondo i suoi bisogni. Se avete molto, fate comunione del molto; se avete poco, fate comunione del poco e amatevi sempre gli uni gli altri come io ho amato voi. Non sprecate il molto quando c’è molto, non vi preoccupate eccessivamente del poco se avete poco perché il Padre celeste che pensa alle necessità degli animali e della natura non può dimenticarsi certo delle necessità dei suoi figli.

Non basta parlare di “opzione preferenziale per i poveri”, né è privo di ambiguità l’invito talvolta rivolto ai fedeli a “non invidiare i ricchi”, né forse è sufficiente ripetere ogni tanto che Dio ascolta la voce dei poveri senza tuttavia negare misericordia ai ricchi, perché ogni volta che Cristo ha avuto a che fare con i ricchi li ha sempre invitati a lasciare ogni ricchezza per seguirlo o a mettere la propria ricchezza a disposizione di non abbienti e bisognosi: cosí è stato con Matteo, cosí è stato con il giovane ricco, cosí è stato con Zaccheo, per non dire del celebre discorso della montagna in cui ai ricchi vengono rivolte vere e proprie minacce di condanna. Non si tratta di fare terrorismo religioso, si tratta solo, anche in questo caso, di rispettare e testimoniare il pensiero e la volontà di nostro Signore.

Per il cattolico, dunque, non può darsi altra economia più efficiente di quella che, con o senza crescita economica, punta sempre a distribuire le risorse e i beni disponibili in modo tendenzialmente egualitario anche se nel rispetto delle effettive necessità di ciascun membro della comunità. Qui non si tratta di tagliare la spesa pubblica, finalizzata al mantenimento di servizi primari dal punto di vista sociale e sanitario o di salari e pensioni decorose e del tutto legittime e indispensabili, per pagare un debito salatissimo che, contratto con investitori stranieri e multinazionali, non potrà mai essere saldato data la sua entità permanentemente irraggiungibile, ma si tratta di spiegare a quest’ultimi che nessuno ha il diritto di spogliare il prossimo perfino della sua dignità e che semmai essi, se non per fede quanto meno per semplice buon senso, dovrebbero essere pronti a rinegoziare il debito stesso per consentire a quanti già versano in uno stato grave di crisi di uscirne con il minor danno possibile. Qui si tratta di ricordare cristianamente a tutti che, specialmente in tempi di dura crisi, i ricchi per primi e poi via via quelli che possiedono di più dovrebbero mettere in senso rigorosamente proporzionale i propri averi al servizio della comunità di appartenenza, senza coinvolgere quanti non abbiano mezzi finanziari neppure per onorare i più elementari doveri civici e fiscali, e che un governo guidato da cattolici verso un siffatto obiettivo dovrebbe avere il coraggio di spingere.

Occorre pertanto che in particolare noi cattolici ci decidiamo a credere con i fatti in ciò in cui diciamo di credere, posto che almeno talvolta lo diciamo, con la bocca. Il che implica che in quanto cattolici non operiamo più “rimozioni” nei confronti di doveri morali e spirituali che, pur essendo punti centrali e qualificanti  della fede che professiamo, possono metterci in conflitto con nostri concreti interessi materiali e psicologici di vita. Proprio tali interessi acquisiti in buona o cattiva fede e con mezzi leciti o illeciti sono alla base delle nostre dolorose “rimozioni” e quindi delle nostre “dimenticanze”, per cui spesso accade, nella fenomenologia del comportamento religioso cattolico, che tutti quei precetti cristiani, come lo spirito di povertà e di comunione, l’umiltà o la stessa castità sul piano sessuale, che richiedano un sacrificio del nostro io rispetto a quanto può insinuarsi nel suo orizzonte esistenziale – ricchezza, potere, piacere, successo –, vengano a collidere appunto con i nostri desideri che, a seconda della loro intensità, si oppongono in modo più o meno forte, attraverso le relative “censure” più o meno sofisticate della nostra mente, e quindi “resistono” inconsciamente (Freud parlava di “resistenza psichica”) all’emergere cosciente o nella coscienza di verità, precetti, norme etico-religiose rimosse e quindi dimenticate.

Ma, premesso che non è certo dimenticando, sia pure inconsciamente, che potremo ogni giorno accostarci alla santa mensa eucaristica per “fare questo in memoria” di Lui, la “rimozione-dimenticanza” cattolica rende ancora più difficile la situazione che stiamo vivendo e non aiuta tanti laici, tra cui il nostro Capo dello Stato, a cambiare idea sulla finanza e sui mercati, sul neoliberismo e sullo sviluppo economico.

Ivana Barricar

I cattolici, la crisi e la “causa dei miseri”

Il capitalismo non è possibile, non può sussistere senza periodi di crisi e connesse convulsioni sociali. Esso, come ha insegnato Marx, opera sempre attraverso crisi e ristrutturazioni. E’ quel che pensa uno dei più insigni storici contemporanei e uno dei pochi rimasti di orientamento marxista, Eric Hobsbawm, che aggiunge poi a proposito della crisi attuale: «non possiamo sapere quanto sia grave, perché ci siamo ancora in mezzo» (Colloquio con Eric Hobsbawm di Wlodek Goldkorn, Hobsbawm: “Il capitalismo di Stato sostituirà quello del libero mercato” in L’Espresso n. 19, maggio 2012). Quel che si può dire è che la crisi in corso è diversa da quelle precedenti perché oggi ad essere colpiti non sono più tanto, come in passato, grandi aree e paesi extraoccidentali come India, Brasile o Argentina, Cina e Russia, ma proprio i vecchi paesi capitalisti occidentali (in generale USA e Europa). Se una crisi emblematica come quella del 1929 colpiva tutto il mondo, ad eccezione dell’URSS stalinista, oggi le maggiori ripercussioni della crisi economica in atto si hanno in Occidente più che altrove. Inoltre, se in passato le gravi crisi economiche coincidevano con un arresto generalizzato dello sviluppo economico, oggi lo sviluppo economico sembra fermarsi solo in Occidente e non altrove.

In questo scenario pare allo storico inglese di poter affermare che i paesi occidentali, malgrado gli sforzi di riorganizzazione economico-finanziaria, siano «in rapido declino», mentre per i cosiddetti paesi emergenti, tra cui possono essere compresi la Russia postcomunista e la Cina comunista e capitalista ad un tempo, il problema sembra essere quello di «come mantenere il ritmo di crescita senza creare problemi sociali giganteschi», problema a cui sia la Russia che la Cina sembrano voler cominciare a rispondere attraverso una totale rimozione dell’idea, ancora cosí sentita in Occidente, di Welfare State o Stato Sociale, che implica un doversi fare carico da parte degli Stati di costi finanziari molto elevati, benché poi sia molto problematico stabilire se e per quanto tempo l’assenza di Welfare possa produrre per gli Stati, anche sul piano economico, effetti realmente vantaggiosi.

La tendenza che si sta oggi delineando, anche nei paesi occidentali in crisi, è il graduale passaggio del capitalismo dal libero mercato classico, dove contavano la scommessa personale, la creatività, le capacità individuali dei borghesi, allo Stato programmatore ed efficientista che ha proprio tra i suoi obiettivi più concreti ed immediati lo smantellamento progressivo dello Stato Sociale, senza il quale però non è affatto scontato che «il capitalismo possa funzionare». Il vantaggio di un neocapitalismo di Stato rispetto al tradizionale capitalismo del libero mercato è che il primo non si deve preoccupare tanto del consumatore ma del consumo, di come limitare i costi, e d’altra parte «non è legato al dovere di una crescita senza limiti… Detto questo, il capitalismo di Stato significa la fine dell’economia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro decenni. Ma è la conseguenza della sconfitta storica di quello che io chiamo “la teologia del libero mercato”, la credenza, davvero religiosa, per cui il mercato appunto “si regola da sé e non ha bisogno di alcun intervento esterno”».

Il capitalismo, peraltro, ha molteplici varianti: cioè non è proprio vero che esso in tutto il mondo sia “un sistema unico e coerente”. E tuttavia è un sistema che sta conoscendo delle indubitabili difficoltà, delle battute d’arresto, delle crisi che non è detto siano ancora una volta la via obbligata di nuove “ristrutturazioni” del sistema medesimo che gli consentirebbero di sopravvivere alla sua ennesima morte apparente e di risorgere appunto nel quadro di un più efficiente, più produttivo e più competitivo mondo del lavoro che manterrebbe però i suoi elementi di continuità rispetto al o ai precedenti modi di produzione nella regola prioritaria del profitto a tutti i costi, nello sfruttamento della forza-lavoro, nella mercificazione dei bisogni morali degli individui. Qui è il caso di notare, con il sociologo polacco Zygmunt Bauman, che è certamente deprecabile e pericolosa quella recente tendenza delle società occidentali a presentare il mercato come canale sostitutivo di autentici rapporti umani per il soddisfacimento di esigenze e bisogni morali.

Ora, osserva molto criticamente Bauman, è evidente che la mercificazione e la commercializzazione dei bisogni morali degli individui sono funzionali alla riproposizione di una crescita illimitata dell’economia, che è solo una mistificazione della realtà e una mistificazione rischiosa per la sopravvivenza stessa dell’umanità, dal momento che le risorse naturali sono limitate e ormai in via di esaurimento, per cui appare semplicemente folle continuare a parlare di crescita o di sviluppo illimitati, mentre ormai sarebbe molto più saggio che la società mondiale, per non condannarsi al vicolo cieco della crescita senza freno, cominciasse ad orientarsi verso la via della sostenibilità economica, sociale e ambientale. 

Ma, al momento, continuano a pretendere rigore ad oltranza soprattutto e nuova crescita economica, come opzione ipotetica e subordinata, i banchieri centrali dell’Occidente, senza minimamente preoccuparsi di verificare se il peso finanziario e i costi sociali da essi ingiuntivamente richiesti ai popoli siano da parte di quest’ultimi e sino a che punto sostenibili, quali siano oggettivamente i margini ancora disponibili per la crescita o ricrescita economica occidentale visto che le risorse naturali (non solo come il petrolio ma come l’acqua, per esempio) non sono illimitate, e senza riflettere sul fatto che un’economia globalizzata presupporrebbe una politica globalizzata, uno Stato e una unità politica globali anche se articolati, senza cui né l’economia né la politica alla lunga potrebbero salvarsi dalla più catastrofica delle bancarotte.

Come rimediare, dunque? C’è un solo modo, dice Hobsbawm: rendersi conto per tempo che «l’economia non è fine a se stessa, ma riguarda gli esseri umani» e che pertanto economia, finanza, alta contabilità internazionale e amministrazione dello stato non possono valere per se stesse ma sempre in relazione agli obiettivi primari di vita delle popolazioni, il che implica che i  calcoli, le tabelle, i piani di rientro e riordino finanziario, i tagli alla spesa sociale e quant’altro gli “esperti” e i mercati ritengano di dover elaborare ai fini del risanamento e dei pareggi di bilancio, possono essere legittimi o necessari solo nei limiti in cui essi non risultino in parte o totalmente arbitrari e non violino due princípi essenziali della civile convivenza: la dignità delle persone e quindi il loro inalienabile diritto non solo alla sopravvivenza ma ad una vita non mutilata nelle sue essenziali necessità materiali e spirituali seppure oltremodo sobria e onesta, e poi la democrazia dei popoli al di sopra della quale non c’è “debito sovrano” che possa e debba essere “onorato”.

I banchieri, i mercati, gli esperti, i professori di cose economiche e finanziarie, e i loro sostenitori massmediali, dovrebbero comprendere facilmente che essi possono fare il bello e cattivo tempo solo fino a quando non divampano rivolte sempre più ampie e diffuse e solo fino a che i popoli non si rivoltino: quel giorno sarebbe il caos probabilmente per l’umanità intera ma essi certamente perderebbero per sempre averi e funzioni decisionali. Non è affatto chiaro dunque a chi potrebbe giovare maggiormente un eventuale braccio di ferro.

Il benessere dell’umanità non può essere legato alla semplice crescita dell’economia, «all’aumento del prodotto totale mondiale», cosí come non può essere sostenuto ed alimentato da un ossessivo richiamo alla necessità di saldare un debito pubblico molto probabilmente pompato a dismisura sulla base di parametri di misurazione o di calcolo non solo arbitrari ma demenziali. Specialmente i cattolici, che dovrebbero subordinare forse più di altri l’intera loro esistenza al culto della verità ma che spesso più di altri sono purtroppo dormienti o “tiepidi”, dovrebbero sentirsi coinvolti, dovrebbero mobilitarsi per denunciare in tutte le sedi istituzionali, culturali, economico-finanziarie e persino religiose in cui si trovino ad operare, e al di là di consuete e generiche o logore paternali sull’edonismo e sul materialismo contemporanei, il colossale e specifico imbroglio politico-finanziario a cui un’umanità superficiale e distratta ha permesso di proliferare e di minacciare il mondo civile al di là di ogni possibile immaginazione. Noi cattolici abbiamo veramente bisogno di Dio?

Ricordiamoci sempre che «il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri» (salmo 139) e che chi lo ama con cuore sincero deve difendere, ora, al meglio delle sue possibilità, senza incertezze e senza rinvii, senza ragionamenti arzigogolati o troppo sofisticati, la causa dei miseri e il diritto dei poveri, dei miseri che non abbiano mai avuto né desiderato la ricchezza e dei poveri che abbiano voluto vivere e vorrebbero continuare a vivere dignitosamente.

Rifondare l’economia secondo il vangelo

E’ sempre opportuno tentare di rifondare l’economia, che è una dimensione essenziale della vita associata, per correggerne anomalie, incongruenze, distorsioni o vere e proprie degenerazioni, e riorientarla cosí non solo verso la produzione di un benessere materiale quanto più possibile allargato o partecipato ma anche e innanzitutto verso il soddisfacimento di inderogabili priorità di ordine umano e sociale. Ma se l’economia, e in primo luogo il diritto al lavoro, vengono rifondati nel senso di un loro progressivo sganciamento e di una loro irreversibile autonomizzazione  da fondamentali vincoli etico-giuridici ai fini di un perseguimento sempre più indiscriminato della cosiddetta libertà di impresa e in ossequio ai giochi sempre più ambigui e cinici dei mercati, il risultato non può essere altro se non un irreversibile impoverimento delle masse sociali, una inevitabile riduzione del potere d’acquisto, un crescente decremento della produzione e della ricchezza, l’insorgenza di convulsioni sociali sempre più frequenti e violente, la destabilizzazione graduale ma inarrestabile di ogni ordine costituito, il crollo tombale del sistema o la fuoriuscita da esso in forme drammatiche e devastanti.

Non si può stabilire quanto tempo occorra perché tutto questo accada ma è certamente questo quel che non potrà non accadere se si continua a parlare di economia, magari anche in senso genericamente etico, ma con l’idea precisa di renderla esclusivamente funzionale a ragioni e ad interessi finanziari che, soprattutto per la loro dichiarata e pretesa entità, a molti non sembrano né comprensibili né tanto meno giustificati. Ancor meno comprensibili e giustificate, peraltro, appaiono quelle politiche economiche alla Monti che, pur fondate su premesse teoriche e promesse morali di equità, non possono non sottrarre ricchezza ai ceti meno abbienti in una misura incomparabilmente più ampia di quella riservata ai ceti più ricchi e possidenti.

Per esemplificare attraverso il riferimento alla situazione del nostro Paese, pare che le cosiddette politiche di risanamento dei conti pubblici, alla Monti appunto, abbiano una delle loro più forti motivazioni in un presupposto a tutt’oggi francamente indimostrato o inverificato: che, a fronte di servizi sociali sempre più carenti e di una situazione occupazionale sempre più critica,  le montagne di tasse dirette e indirette pur versate dal popolo italiano e largamente soverchianti quelle di qualunque altro popolo europeo, che le continue “riforme strutturali” attuate a partire dagli anni ’90, che gli ingentissimi prelievi fiscali anche in chiave antievasione effettuati ogni anno dagli organi dello Stato, che le sistematiche e molteplici inadempienze burocratiche e soprattutto fiscali e finanziarie di quest’ultimo nei confronti di imprese, aziende, privati cittadini e pubblici lavoratori, i cui diritti e le cui legittime aspettative vengono solo in parte e assai tardivamente rispettati e soddisfatti, che proprietà e beni mobili ed immobili significativamente recuperati attraverso la lotta alla criminalità organizzata, non siano stati sin qui e non siano oggettivamente sufficienti né a far fronte decorosamente al “debito pubblico”, né a finanziare adeguatamente sagge ed efficaci politiche di investimento con ricadute occupazionali stabili e proficue, né a tenere in qualche modo sotto controllo i mitici conti dello Stato, né ad assicurare un ragionevole controllo dei prezzi, e via dicendo.

Pare insomma che, per quanto inflessibile e draconiana, non ci sia misura, tra quelle numerosissime e dolorosissime adottate dalla politica governativa e statuale nazionale degli ultimi vent’anni, capace di ridare slancio all’economia, di creare veri e stabili posti di lavoro, di alleviare il bilancio delle piccole e medie imprese come quello delle famiglie e dei soggetti sociali più provati, di introdurre concreti elementi di serenità e motivi non fittizi di speranza nella vita sociale e in particolare nella vita delle giovani generazioni. Dove vanno a finire quei fiumi torrentizi di denaro destinati alle casse dello Stato? Come vengono utilizzati? Per chi e per cosa esattamente? Sono tutte lecite e prioritarie le vie che il denaro pubblico, tra un anno finanziario e l’altro, viene prendendo? Come si fa esattamente a controllare i controllori dello Stato? Ed è ragionevole pensare che una buona parte del popolo italiano debba essere eternamente condannato ad una sorta di fatica di Sisifo? Sono scontate, sono ingenue, sono troppo sospettose ed irriverenti queste domande? Non saprei: certo è che le pubbliche autorità non fanno molto obiettivamente né per rassicurare tutti coloro che individuano i principali destinatari del pubblico denaro nel complesso ed articolato arcipelago della politica istituzionale, nel non meno composito e strutturato sistema bancario e negli stati maggiori della grande industria, né per evitare che sprechi e scelte inopportune o comunque fallimentari abbiano a ripetersi in modo assolutamente indefinito.  

Ora, ha osservato Jorge Arturo Chaves Ortiz, professore emerito di Economia etica all’Universidad Nacional San José del Costa Rica, senza scomodare maestri del pensiero morale o del pensiero religioso, «basterebbe che gli economisti e il loro circondario capissero che cosa è l’economia e per che cosa è, per intraprendere subito severe rettifiche alle teorie e alle pratiche attuali», e per recuperare la dimensione intrinsecamente e costitutivamente etica dell’economia stessa (Rifondare l’economia: lo esige l’economia stessa!, in De la utopia a la politica economica. Para una ética de las políticas económicas, Editorial San Esteban, 1999). In realtà, sin dalle sue origini «la scienza economia si sviluppò come una disciplina scientifica che non soltanto si prospettava come risolvere i problemi tecnici che si presentavano nel funzionamento dell’economia reale ma che, prima e in più, si interrogava circa la stella polare della sua attività, definita da due domande chiave: per che e per chi funziona l’economia e per che e per chi si risolvono i suoi problemi, in un modo o nell’altro. Mentre la prima domanda, che sorge nella vita quotidiana, definisce la dimensione tecnica o ingegneristica dell’economia, gli altri due interrogativi esprimono il carattere etico e politico che ha ogni attività economica. Per questo motivo non occorre che autorità morali o religiose esterne vengano a indicare una direzione in senso morale, perché un’economia propriamente detta tenderà sempre a confrontarsi con questa intrinseca dimensione etica. Senza la quale l’economia perderebbe il suo carattere scientifico, sino a smarrire la sua stessa razionalità, pretendendo di convertirsi in un mero insieme di raccomandazioni tecniche per risolvere problemi, ignorando gli obiettivi per i quali lo sta risolvendo e a favore di chi lo sta facendo» (ivi).

Gli strumenti della scienza economica dunque non possono essere in alcun caso “neutrali” o puramente “tecnici”, come troppo spesso si suole ripetere, dal momento che, a seconda che si scelgano questi piuttosto che quegli altri strumenti, gli obiettivi o gli scopi economici perseguiti non possono non risultare diversi o addirittura opposti. E’ insomma evidente che tutte «le politiche economiche, gli strumenti governativi o imprenditoriali, portano sempre a costruire un certo tipo di economia e a favorire determinati gruppi sociali, per quanto non lo si dica. Gli strumenti tecnici che si escogitano per risolvere i problemi o contribuiscono a costruire una società più equa oppure rafforzano la concentrazione di ricchezze. O riescono a togliere dalla povertà gruppi sociali svantaggiati ovvero si interessano soltanto a generare profitti per i gruppi di potenti. Non esistono strumenti ‘neutri’. Lo si può vedere nelle ‘soluzioni’ previste più frequentemente per le recenti crisi: si rinvia l’aiuto ai disoccupati e alle famiglie che hanno perso la casa per rafforzare, al contrario, i gruppi finanziari che, paradossalmente, sono stati i principali responsabili della crisi. E tutto questo col pretesto di risolvere i problemi» (ivi).

Purtroppo, l’odierna dinamica economica, comprensiva beninteso di tutta una serie di supporti teorici ed accademici particolarmente sofisticati ed influenti e di intenzionali esoterismi tecnici volti a confondere le idee delle popolazioni, «favorisce in misura sproporzionata piccoli gruppi con grandi poteri. Questi, e i teorici che li legittimano, si opporranno con tutte le loro forze a che l’economia cambi e ritorni a essere ciò cui è chiamata» (ivi). Ciò cui è chiamata: laicamente ed evangelicamente non ad assolvere solo in senso retorico o generico una funzione etica troppo spesso relegata nella sfera delle buone intenzioni ma ad elaborare strategie giuridico-economiche che, nel rendere impossibile il perseguimento di forme indefinite o illimitate di profitto e nell’incoraggiare apertamente forme di lavoro comunitarie tanto quanto quelle di natura privatistica, risultino coerentemente finalizzate ad un reale incremento sociale delle risorse economiche e finanziarie, ovvero un incremento non più a vantaggio dei soggetti economici più forti o già forti ma di quelli più deboli o non ancora emersi o emergenti dal punto di vista produttivo.

Ma, perché questo accada, è necessario tra l’altro che nel mondo cattolico, troppo impegnato sul fronte convegnistico e troppo poco dedito all’impegno politico diretto, si assumano presto iniziative politiche concrete, possibilmente culminanti nella costituzione di un nuovo partito politico dichiaratamente cattolico e affidato a personalità tanto nuove quanto antitetiche a quelle molli ed ambigue già presenti nella scena politica italiana, iniziative politiche concrete e coraggiose perché basate su una ricerca non approssimativa ma rigorosa della verità e in virtù delle quali, pur senza pretendere di imporre dall’alto ricette o soluzioni  indipendentemente dalla dinamica del mercato, non appaia più utopistico sperare in un mondo non ineluttabilmente votato alla catastrofe.

Senza patria e senza Dio

Alta e chiara, come sempre, la voce del vescovo mons. Giancarlo Bregantini, presidente della commissione Lavoro Giustizia e Pace della CEI, si è alzata anche sulla riforma, il cui varo parlamentare-governativo sembra ormai imminente, del tanto discusso art. 18, per dire non solo che questo articolo non dovrebbe essere abolito ma anche che «la tematica di fondo dell’articolo 18 dovrebbe coprire tutti i lavoratori, non solo quelli con più di 15 dipendenti, già garantiti. Va estesa come espressione di valori di dignità e difesa come normativa». La Chiesa, argomenta mons. Bregantini, «davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, ‘flessibilità in uscita’» deve sempre tener presente che il lavoratore «è persona», non «merce», come insegna l’enciclica sociale Rerum novarum di papa Leone XIII, e in particolare in quei punti in cui sottolinea che «nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per se stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue».

Parole chiare, tassative, assolutamente indipendenti da particolari congiunture economiche, da periodiche crisi finanziarie, da nervosismi più o meno ingiustificati dei mercati: il vangelo questo suggerisce e questo uno Stato sarebbe tenuto evangelicamente a fare sempre e comunque. Ma se le risorse sono poche o scarse, come si fa? La risposta dell’enciclica: si mette in comune quel poco o quella scarsità di cui si dispone dando priorità al soddisfacimento dei bisogni primari di vita degli operai e dei lavoratori, di quelli che già ci sono beninteso e che hanno in ogni caso diritto per sé e le loro famiglie ad una vita dignitosa, e non di quelli futuribili, di quelli che eventualmente verranno, che sono generalmente oggetto non già di sincera e obiettiva preoccupazione economica morale e sociale ma di mera, strumentale e particolaristica propaganda ideologica e politica.

Fa dunque bene mons. Bregantini, ripercorrendo quei vecchi ma sempre attuali insegnamenti evangelici e pontifici, a ripetere con forza che, quali che siano le contingenze critiche dell’economia, contingenze critiche peraltro continuamente riaffioranti nella storia non certo per caso o per arcane ed incomprensibili ragioni, la «questione di fondo» è e resta quella per cui «il lavoratore non è una merce e non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto in magazzino». Da questo punto di vista, certe lezioni professorali di personaggi come Elsa Fornero, che si illude di spiegare con una gestualità tipicamente e boriosamente accademica come si possano dare situazioni occupazionali suscettibili di non essere più giustificate dalle cangianti richieste di mercato e quindi ineluttabilmente destinate ad aver termine con conseguente espulsione dai processi lavorativi ed economici dei soggetti colpiti, sono semplicemente risibili, perché è come se uno Stato dovesse rimanere necessariamente in balía di forze spesso irrazionali come banche e mercati o mercanti, senza poter assolvere alcuna funzione politica degna di questo nome e quindi anche capace di tutelare in primis, anche a costo di gravi sacrifici e rinunce fatti però nel nome della giustizia sociale e non della necessità di saldare un inintellegibile debito sovrano, i legittimi interessi delle fasce sociali più disagiate e meno abbienti della sua popolazione.

Il professor Monti, supertitolato esponente dei più forti e influenti gruppi bancari del mondo, delle più prestigiose e “segrete” organizzazioni economiche e “culturali” internazionali, i cui macrointeressi certo non può tradire dall’oggi al domani, si sforza di chiarire che, in momenti di grave difficoltà economica, ogni parte sociale deve cedere una parte dei suoi “interessi legittimi”, trascurando però di riflettere sul fatto che gli interessi legittimi di un operaio o di un impiegato non sono uguali a quelli di un imprenditore dal reddito milionario e che gli interessi legittimi di un modesto pensionato non sono minimamente paragonabili a quelli di uno strapagato professore universitario o direttore di banca che, pur dichiarando pubblicamente i loro ingentissimi redditi, sarebbero tenuti a spiegare perché essi, a differenza di certi pensionati della pubblica amministrazione e della scuola che il sistema retributivo avrebbe reso “privilegiati”, non sono invece né economicamente privilegiati né socialmente soggetti in larga misura parassitari.  

Il professor Monti è stato chiamato per salvare l’Italia dal baratro. Per ora, non si può certo dire né che l’abbia salvata, come sta ad indicare chiaramente il saliscendi di uno spread oltremodo ambiguo (che si riduce tutte le volte che Monti compie atti da cui si sente appagata la libidine finanziaria dei cosiddetti mercati, mentre aumenta non appena un sindacato italiano si mostra intransigente verso qualche misura del governo Monti), né soprattutto che ne abbia realmente favorito quella “crescita” senza la quale, come egli stesso continua a ripetere in modo disinvolto ma per noi tutti preoccupante, ogni “riforma” sarà stata inutile. Che l’Italia sia stata salvata dal governo Monti o da governi come quello di Monti proni alle esigenze non già dell’economia ma dei suoi grandi potentati, è e resta per ora un puro postulato. Se ne riparlerà fra alcuni anni e, benché speri con tutte le mie forze di sbagliarmi, vedremo allora di trarne un bilancio obiettivo.

Quel che è certo è che il governo Monti, simmetrico all’astuta e perfida opera che il dott. Draghi svolge come presidente della BCE, sta facendo esattamente quello che il mondo economico-finanziario di cui è espressione e voce autorevolissima si aspettava da lui: ovvero quell’opera raffinata ma sistematica di rapina, di espoliazione della ricchezza nazionale a tutto favore dei magnati della finanza internazionale, dell’alta imprenditoria, dei settori di punta del capitalismo mondiale e nazionale, anche attraverso un’abile ma inesorabile attività di smantellamento dello Stato Sociale e di princípi giuridici essenziali della vita civile e democratica del nostro Paese.

Ora però, ammonisce Bregantini, per un cattolico né l’aspetto economico e finanziario può prevalere su quello politico e sociale, né l’aspetto tecnico (ammesso e non concesso che di pura tecnica si tratti) può prevalere su quello etico ed umano. L’economia non è solo scienza di come si produce e si distribuisce ricchezza, ma è anche la scienza di come si amministrano con equità ed equanimità i beni disponibili e non necessariamente suscettibili di incremento a breve o lungo periodo, in tempo di crisi, di mancato sviluppo e di persistente e galoppante disoccupazione. Peraltro, proprio sotto il profilo “tecnico” il lavoro governativo montiano appare singolarmente equivoco nel fatto che esso abbia varato immediatamente delle riforme strutturali che indeboliscono e riducono in misura notevole il reddito e il potere d’acquisto di persone e famiglie normali o già disagiate ma che prescindono completamente dal perseguimento di un ordinamento giuridico-normativo non solo nuovo ma coerente rispetto a quelle finalità sociali, quindi ad obiettivi di sviluppo economico e di occupazione, che si dice e si ripete senza troppa convinzione di voler perseguire.

Qui i trucchi, in una prima fase tenuti ben coperti, cominciano a venire alla luce, e mons. Bregantini non può fare a meno di chiedersi preoccupato se la riforma governativa del mondo del lavoro, che a ben vedere ha il suo punto di attacco anche ideologico proprio nella volontà di sbarazzarsi dell’art. 18, «diminuirà o aumenterà il precariato dei nostri ragazzi», riuscirà «ad attrarre capitali ed investimenti dall’estero solo perché è più facile licenziare», riuscirà a snellire «la burocrazia» e a dare «più vigore all’esperienza imprenditoriale». Ma soprattutto, osserva l’arcivescovo di Campobasso-Bajano, «non vorremmo nemmeno che la cosa fosse schiacciata su questi temi, perché ripeto, al centro di tutto ci deve essere la dignità dell’uomo e della famiglia».

Però, bisogna riconoscere che sul governo Monti e in particolare sulla riforma complessiva del mondo del lavoro da esso voluta la Chiesa è profondamente divisa: non solo a livello gerarchico, dove le posizioni in verità non sono mai espresse in modo sufficientemente nitido e univoco, ma anche tra i cattolici laici tra cui non di rado accade che il vangelo possa interpretarsi con una certa liberalità e con ampi margini di discrezionalità soggettiva. Si legge, per esempio: «per Luca Diotallevi, vice presidente del Comitato delle Settimane Sociali (nonché ascoltato consulente del cardinale Bagnasco)», (capite: uno dei vertici delle settimane sociali e molto vicino a Bagnasco!) «le novità portate avanti dal ministro Fornero sono un passaggio necessario. Egli infatti ha detto: ‘L’accordo va in una direzione giusta per almeno due ragioni. La prima è che aumenta la flessibilità, la seconda è che non si ferma alle vecchie convenzioni della concertazione’. E pazienza per la rottura con la Cgil. Il sindacato ‘ancora una volta’ ha espresso una visione ‘fortemente conservatrice’. Intervistato dalla Radio Vaticana Diotallevi si è espresso esattamente all’opposto di Bregantini: ‘Credo che questa riforma abbia dietro un grande consenso’, inoltre ‘è positivo che si sia fatto un passo nella stessa direzione di Tarantelli, Biagi e D’Antona’» (Franca Giansoldati, La Chiesa/I vescovi: “i lavoratori non sono merce”, in “Il Mattino” del 23 marzo 2012).

Povero Bregantini che ha avuto il torto, comune a tanti di noi, di ritenere un grave errore la decisione di «lasciare fuori la Cgil dalla riforma, quasi che il primo sindacato italiano per numero di iscritti non sia una cosa preziosa per una riforma del lavoro…Dietro questa fetta di sindacato c’è tutto un mondo importante, cruciale, da coinvolgere per camminare verso il futuro. Altrimenti c’è il rischio che questa parte sociale, con i suoi milioni di iscritti, resti disillusa, arrabbiata, ripiegata su atteggiamenti difensivi, su un passato che non c’è più. Lasciare fuori la Cgil sarebbe una perdita di speranza notevole, un grave errore». Ma l’autorevole esponente Cei fa poi un altro rilievo alla riforma targata Fornero-Monti: «Ci voleva un po’ più di tempo per mettere in atto una riforma cosí importante. Non era necessaria questa fretta cosí evidente. La questione è chiusa, è stato detto da parte del premier Mario Monti. Si poteva dire: la questione è posta, ora dialoghiamo, nelle fabbriche, negli uffici, in Parlamento, nella società civile, ovunque perché il lavoro è il tema cruciale del nostro Paese».

Sí, un cattolico non può ragionare diversamente da come ragiona Bregantini, che, pur svolgendo meravigliosamente la sua opera evangelizzatrice, non è un eroe, non è un prelato dotato di particolare sensibilità sociale o di eccessivo zelo apostolico (come qualche presunto cattolico potrebbe maliziosamente etichettarlo), ma semplicemente un cristiano e un cattolico, un fedele seguace di Cristo che non può non avere la sensibilità che per l’appunto Bregantini ha verso i lavoratori e il mondo sociale. Non è dato sapere se i vari Monti, i vari Fornero, i vari Napolitano, sempre più manifestamente complici e promotori di una delle più ambigue e reazionarie manovre della storia politica italiana dal ’45 ad oggi e proprio oggi allarmati “per il crollo delle aziende” più che “per facili quanto improbabili licenziamenti” (!), siano davvero convinti di poter essere giudicati prima o poi dal “popolo” quali soggetti morali e politici dotati di elevato senso patriottico o addirittura di un afflato religioso di cui in realtà, vangeli e ultrasecolare dottrina sociale della Chiesa alla mano, sono molto carenti (anche se Napolitano non fa mistero del suo personale disimpegno quanto a fede e a religiosità in senso classico).

Cosí come non potranno coltivare questa stessa speranza tutti quei cattolici tecnocrati, burocrati, banchieri, esperti, specialisti, economisti ed intellettuali, che non siano capaci di intendere che il pane materiale come il pane della vita si spezza con tutti quelli che, anche se il primo scarseggia pur essendo prezioso quasi quanto il secondo, ne hanno comunque bisogno e diritto, non in quanto fannulloni ma in quanto persone desiderose di guadagnarselo col sudore della propria fronte. Per alcuni di noi, per nulla predisposti a sputare sentenze e ad emettere facili e definitivi giudizi moralistici sui singoli, che ovviamente regoleranno i propri conti solo con Dio e con la propria coscienza, ma solo preoccupati di testimoniare senza supponenza la loro fede nella verità e nella giustizia divine, molti, anche fra i credenti cattolici e i laici apparentemente più impegnati sotto il profilo etico-civile, sono in vero i senza patria, non nel senso che il cristiano abbia la sua unica patria nel regno dei cieli ma nel senso di un uso semplicemente territoriale e strumentale della propria patria-nazione a tutto vantaggio della patria dei propri interessi personali spesso coincidente con la patria dei grandi interessi finanziari transnazionali, e i senza Dio, incapaci cioè non già di interpretare “dialetticamente”, e quindi anche con i possibili arzigogoli esegetici che la dialettica consente, ma di aderire seriamente e intimamente alle parole del salmo 139: «So che il Signore difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri».   

 

I giovani, la crisi e la Chiesa

giovani

Molti pensano che i giovani abbiano bisogno di crescita economica per trovare occupazione e realizzarsi cosí nel lavoro, nella famiglia e nella società. Senza sviluppo, senza progresso economico, senza capacità statuale di far crescere produttività e competitività sul piano internazionale, si dice, essi saranno condannati alla disoccupazione o ad uno stato di perenne precarietà per cui non potranno sfuggire ad una condizione esistenziale complessiva di instabilità e di incertezza. Fino a qualche tempo fa si poneva enfaticamente l’accento sulla assoluta necessità che il rapporto intergenerazionale fosse corretto e reso più equo attraverso una riforma delle pensioni che, togliendo qualcosa agli anziani, avrebbe un giorno consentito ai giovani di avere una pensione dignitosa. Adesso la riforma delle pensioni è stata fatta e, siccome il suo vero obiettivo non era il futuro dei giovani ma altro, adesso naturalmente, come sempre accade in questi casi, bisogna alzare la posta e si parla con la stessa enfasi di prima della crescita, dello sviluppo e via dicendo, quasi che, se per ipotesi, non ci fosse né l’una né l’altro per un prolungato periodo di tempo, la società non possa avere ugualmente bisogno di molteplici e qualificate attività lavorative e di altrettanti e capaci lavoratori anche se non previsti o previsti secondo ben determinate modalità dalla cosiddetta domanda di mercato che spesso non nasce spontaneamente in seno alla società stessa ma è imposta più che altro dalle multinazionali e da gruppi tecnocratici di dubbio spessore morale.

Si ha perciò più di una semplice sensazione, anche o proprio nei giovani più consapevoli e responsabili, che di crescita, di sviluppo, di produttività, di competitività si parli ormai sempre più a vampera, senza avere una precisa e rigorosa cognizione di quel che si va dicendo, senza sapere se le ricette economico-finanziarie proposte e adottate siano realmente giuste ed efficaci, o meglio ben sapendo che esse saranno vincenti ed efficaci per il conseguimento di fini inconfessabili, e continuando d’altra parte a sostenere che se non ci fosse un debito pubblico cosí alto, se non ci fosse stato negli anni passati un eccesso di spesa, se si fossero fatte prima le “riforme” che solo adesso si cominciano a fare (delle pensioni, del mercato del lavoro, della giustizia e via dicendo), se si fosse intrapresa per tempo la via delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, a quest’ora la situazione sarebbe completamente diversa, certamente più rosea e non sottoposta alle pesanti restrizioni attuali.

Pochi, nel mondo adulto, nel mondo della cultura e dei massmedia, e purtroppo anche nel mondo ecclesiale cattolico, sono quelli che hanno il buon senso di chiedersi se sia proprio vero che crescita e sviluppo, produttività e competitività, possano darsi in forma indefinita ed illimitata, solo che si individuino ciclicamente strategie e misure economico-finanziarie idonee a garantirne processi di continuo ed inarrestabile avanzamento, e se tale indefinita e illimitata processualità non sia per caso richiesta dalla strutturale anche se non ineluttabile esigenza storica delle più alte oligarchie di potere di riprodurre ed intensificare stabilmente i propri profitti e i propri privilegi sociali. Pochi si chiedono se la crescita richiesta dai massimi istituti tecnocratici del mondo sia realmente necessaria e a chi sia veramente necessaria, se le pretese modalità di tale crescita siano frutto di analisi e valutazioni obiettive o piuttosto di calcoli per niente disinteressati e “neutrali”, se questa tanto decantata crescita e i suoi strumenti saranno effettivamente in grado di assicurare e in che misura e per quanto tempo eventualmente quel diffuso benessere economico che le politiche del vecchio Stato sociale, come dicono i molti critici di quest’ultimo, non potevano garantire o conservare e non hanno infatti né garantito né conservato.

Le idee sono molto confuse e approssimative. Si parla continuamente di democrazia e di stato di diritto, ma poi passano provvedimenti su cui le masse popolari non hanno alcuna possibilità di esprimersi proprio mentre i diritti collettivi ed individuali vengono sistematicamente violati dalle politiche sempre più verticistiche e dirigiste di stati nazionali sempre più deboli e docilmente sottomessi alle ordinanze extragovernative di uno stato trasversale internazionale di banchieri, uomini d’affari, tecnocrati ed esperti di varia natura, che nessuno ha eletto e non potrebbe mai eleggere. Si parla di volontà popolare solo per quanto riguarda i momenti elettorali e per ottenere quel consenso con cui poi gli eletti o i nominati continueranno ad imbrogliare gli elettori, di necessario investimento su scienza cultura e tecnologia ma al tempo stesso ci si duole del fatto che i fondi dello Stato non siano sufficienti a consentire quegli investimenti che pure sarebbero necessari in questi settori raggiunti peraltro da processi solo apparenti o presunti di “modernizzazione”, di snellimento burocratico della pubblica amministrazione ma i normali cittadini si trovano sempre costretti a gestire una montagna di carte e ad effettuare mille e complicati adempimenti senza che il corrispettivo sia alla fine per loro la possibilità di usufruire di servizi davvero efficienti, di norme volte ad abbattere finalmente i molteplici ed onerosi “costi” dei consumatori i quali però generalmente incontrano crescenti difficoltà nel pagamento delle varie bollette, di austerità e sobrietà proprio mentre proprio coloro che se ne fanno araldi o banditori esibiscono pubblicamente redditi personali e proprietà immobiliari da capogiro (certamente convinti di fare opera di trasparenza ma altrettanto convinti che sia normale che, in un Paese in cui milioni di persone non hanno lavoro o stentano a sbarcare il lunario o versano in condizioni di estremo disagio, alcuni professionisti del sapere, dell’economia e della finanza, percepiscano guadagni cosí elevati).

Ci si dichiara realisti, pragmatici, efficientisti, ma in realtà si tende a perdere progressivamente il senso della realtà e del decoro e si scambia disinvoltamente per capacità pragmatica ed efficientistica quel che altro non è se non semplice arte del semplificare e del cambiare, o meglio del “razionalizzare”, all’unico scopo di poter meglio imbrogliare attraverso la programmazione e la creazione di strutture giuridico-operative destinate a ben funzionare sí e no solo per un determinato periodo di tempo: quello che serve a privati, managers, banchieri, funzionari di stato, politici, speculatori ed affini di incrementare lautamente i propri guadagni.

Né, d’altra parte, la realtà, piena di mistificazioni e di sottili ed astute manipolazioni, viene resa più accessibile e comprensibile dall’apporto delle forze culturali e massmediali che generalmente fanno da semplice cassa di risonanza a quel pensiero unico che, elaborato non solo per l’economia dai grandi centri internazionali di comando che ovviamente dispongono di numerosi proseliti e soci rappresentanti in tutte le nazioni del mondo, si tenta di imporre in modo sempre più massiccio a tutte le comunità nazionali. Tali forze spiegano forse in modo adeguato il funzionamento della finanza mondiale, i suoi regolamenti e le sue clausole, i suoi trucchi e i suoi inganni, e poi le unilateralità e le norme spesso arbitrarie degli stessi trattati politici di cui il complessivo mondo finanziario può vantaggiosamente avvalersi? Si potrebbe credere di sí, vista la enorme mole di servizi giornalistici offerti in televisione e sulla carta stampata, di libri e di saggi firmati da illustri accademici ed intellettuali, ma in realtà a passare nell’opinione pubblica sono principalmente i giudizi conformisti e spesso asserviti di esperti, economisti, uomini di affari, capi di stato, politici più o meno affermati.

E’ molto difficile, per esempio, che faccia breccia nella pubblica opinione, creando reale sconcerto ed energiche reazioni di massa, un articolo come quello di Laurent Cordonnier (Debito pubblico, la congiura delle buone idee, in “Le Monde Diplomatique” del 22 febbraio 2012), in cui, non ideologicamente ma sulla base di dati inoppugnabili, vengono prese di mira la BCE di Mario Draghi, che statutariamente non può acquistare i debiti sovrani e prestare direttamente denaro agli Stati per concorrere a riequilibrare i loro conti, e le banche private, alle quali invece la stessa BCE ha recentemente erogato 500 miliardi di euro all’1% per un loro rifinanziamento a lunga scadenza (3 anni) senza che esse abbiano ritenuto di mettere tali fondi a disposizione delle imprese o di acquistare una parte sia pure piccola dei debiti pubblici ma al contrario depositandoli di nuovo sul loro conto presso la BCE con l’evidente scopo di incrementarli con gli interessi.

Ed è un peccato, non certo dovuto al caso, che in questo momento storico processi particolarmente involutivi e pericolosi per tutta l’umanità stiano progredendo rapidamente a causa di un vuoto abissale di intelligenza e senso etico. Perché se, sia pure all’insegna dell’austerità e della sobrietà, si pensa di fare riforme solo per alleggerire o per svuotare il portafoglio dei comuni cittadini e non anche e innanzitutto, per mezzo di leggi giuste ed oculate, per impedire i sin troppo disinvolti guadagni di banche e banchieri, di mercati e mercanti, e di tutti coloro che in modi diversi ma ugualmente redditizi vi fanno capo o ne fanno parte integrante, il problema è proprio quello di sperare in un sussulto di intelligenza e di coscienza morale in contesti sociali in cui sembrano prevalere largamente fenomeni di pigrizia intellettuale e cecità culturale, di passività etica, di sudditanza politica. Bisogna aggiungere: il problema è anche o soprattutto quello di sperare e pregare che ci sia al più presto un vigoroso sussulto della fede.

Non basta che la Chiesa cattolica invochi il ritorno della società e in particolare dei giovani ai valori e a sani princípi di vita morale, non basta la sua condanna pur doverosa dell’individualismo sfrenato e dell’asservimento agli idoli del potere, della ricchezza e del successo a tutti i costi, né la sua costante e ferma riprovazione del relativismo e del nichilismo morali dilaganti. Il mondo, senza saperlo, è in attesa che la Chiesa pronunci parole più profonde e credibili, che essa si faccia testimone più scomodo e affidabile della parola di Cristo, che essa torni ad essere evangelicamente capace o più capace di illustrare correttamente alle folle il senso spirituale della primitiva comunione dei beni, alimentando le speranze dei poveri e riducendo quelle dei ricchi.

Di fronte alla crisi in atto, la Chiesa cattolica non può ridurre il suo magistero, il suo insegnamento, la sua testimonianza, la sua fede, ad un insieme declamatorio di pie esortazioni e di giudizi per cosí dire “equidistanti” che non producano sano ed effettivo turbamento in nessuno. Essa, senza derogare dalla sua ordinaria e complessiva catechesi, è chiamata oggi non solo a reclamare, come ha già fatto e continua a fare, nuove e più giuste regole per le attività e i processi finanziari, e maggiore equità economica e sociale, ma ad ammonire i potenti e i potentati della terra, tutti indistintamente e senza riguardo per nessuno, a non coltivare aspirazioni bassamente materialistiche o pensieri egoistici e perversi, e a non perseguire scopi illeciti ed iniqui, sia pure sotto la copertura di programmi apparentemente nobili e proficui, pena la inesorabile ed eterna punizione divina.

Se è vero, come dice qualche illustre esponente del mondo cattolico, che il mondo andrà dove andranno i giovani, la Chiesa ha il preciso dovere di aiutare i giovani a capire chiaramente, con la semplicità e la nettezza della parola evangelica, cosa e come fare, nel nome di Cristo, per spingere il mondo verso la giusta direzione.

I cattolici italiani e la crisi. Che fare?

Per monsignor Romero il capitalismo, non questo o quel capitalismo, non questa o quella forma di capitalismo, ma il capitalismo tout court che viene naturalmente manifestandosi ed attuandosi in forme e modi differenti nelle diverse aree del pianeta, era una controreligione assoluta, una mentalità ateistica particolarmente pericolosa per la Chiesa cattolica perché facilmente e subdolamente suscettibile di infiltrarsi nella sua stessa coscienza religiosa chiamata a discernere e ad operare in un mondo per l’appunto capitalistico in cui troppo spesso di fatto «i beni materiali si erigono a idoli e sostituiscono Dio». Noi viviamo in un mondo in cui realmente il denaro, come diagnosticava e profetizzava Marx, è diventato cosí onnipotente da eguagliare l’onnipotenza divina: e questo spiega, almeno in parte, perché troppo spesso negli stessi cattolici l’amore del denaro tenda a soverchiare nettamente l’amore verso Dio.

Il vero nocciolo della crisi economica, della crisi etica e culturale contemporanea è proprio qui: nel ritenere che, pur essendo necessarie delle profonde riforme del sistema capitalistico, quest’ultimo sia tuttavia insuperabile ed eterno. Non si riflette più abbastanza sulle parole di Cristo: «cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno». Cioè: in questo nostro mondo non c’è nulla di eterno, tranne che le “mie” ovvero le sue parole, che sono parole di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di invito alla condivisione personale e comunitaria delle pene e delle gioie della vita e alla comunione delle necessità e dei beni materiali e spirituali. Il sistema capitalistico è un prodotto storico e, come tutte le cose della storia, è destinato a passare e a trasformarsi in altro. E’ molto grave che, dinanzi ad una crisi economica e finanziaria cosí profonda ed estesa che incombe sempre più minacciosa sul presente e sul futuro del mondo occidentale ed europeo, si continui a pensare che le cose possano essere ancora rimesse in gioco, corrette, raddrizzate, attraverso semplici inversioni di rotta rispetto alle politiche economiche precedenti, ai privilegi delle cosiddette “caste” e alle colpe presunte o reali della moneta unica, e non piuttosto attraverso una radicale messa in discussione della stessa economia capitalistica sempre più staccata dal lavoro da cui dovrebbe originarsi e trarre la sua naturale alimentazione e sempre più asservita ad un potere finanziario chiuso ed autoreferente che non può non alterarne e non peggiorarne la naturale dinamica.

Qui non si tratta più di distinguere tra un «capitalismo sfrenato» e un «capitalismo moderato o temperato», perché molteplici sono le varianti del capitalismo ma tutte, a seconda delle circostanze e delle epoche storiche, ugualmente e cinicamente funzionali allo sfruttamento della forza lavoro e al perseguimento di un profitto illimitato attraverso un sistematico disconoscimento di vincoli e valori morali. Né, realisticamente, si può continuare a ripetere che l’economia capitalistica senza regole morali produca solo disastri, perché l’economia capitalistica, in quanto costitutivamente fondata sul duplice meccanismo dell’indiscriminata produzione di merce e di una distribuzione necessariamente e costantemente diseguale della ricchezza prodotta, e in quanto non più condizionata e inibita dalla presenza di forme statuali particolarmente agguerrite di comunismo, è intrinsecamente votata a misconoscere ogni genere di vincoli morali che ne frenerebbero inevitabilmente lo sviluppo.

Zygmunt Bauman (Capitalismo parassitario, Laterza 2009), parlando di un “capitalismo parassitario”, ha ben evidenziato come, per precisi motivi di evoluzione storica, gli unici “ospiti” attuali di cui il capitalismo può nutrirsi siano «gli stessi cittadini degli Stati ad economia capitalistica», i quali vengono sfruttati attraverso il loro assoggettamento al pagamento di interessi sempre più arbitrariamente alti sul debito contratto con banche e istituti finanziari, e come le politiche degli Stati capitalisti “democratici” o “dittatoriali” (come la Cina) vengano costruite e condotte nell’interesse e non contro l’interesse dei mercati. Se un tempo gli  Stati  promuovevano e proteggevano l’accumulazione di capitale attraverso lo sfruttamento della manodopera operaia, oggi assolvono questa stessa funzione attraverso lo “sfruttamento dei consumatori”. Hai contratto debiti, hai chiesto crediti? Bene, adesso paghi alle mie condizioni, con il tasso di interesse che stabilisco io! Questa è la sostanza del problema. Ma, allora, se questo è il prezzo da pagare, perché continuare ad indebitarsi? Perché continuare a chiedere credito e rifinanziamento del debito stesso? E perché non ribellarsi con opportuna sagacia agli istituti finanziari internazionali che impongono agli Stati come l’Italia di pagare persino interessi sugli interessi ordinari relativi ai debiti contratti, allo stesso modo di come istintivamente e moralmente si ritiene generalmente giusto e doveroso negli Stati civili ribellarsi alle criminali ingiunzioni di mafiosi e usurai?

Come può l’Occidente cristiano consegnarsi mani e piedi, corpo e anima, a quei lupi famelici che sono chiamati mercati e che tendono a far strage di tutto, oltre ogni più elementare considerazione di ordine umano e morale, e a divorare tutto pur di ingrassare se stessi? Come possono i credenti in Cristo, e perciò credenti in un Dio che tutto restituisce alla vita, continuare a favorire la crescita a dismisura di questi mostruosi leviatani politico-finanziari che consegnano tutto alla morte e condannano tutti, o meglio tutti coloro che vivono o si sforzano di vivere di onesto lavoro, ad una condizione di schiavitù? Come possono cristiani e cattolici, battezzati in spirito e verità, continuare ad accettare un sistema economico e sociale che incita all’egoismo, che spinge a dilatare le esigenze consumistiche, a moltiplicare esigenze narcisistiche e irrazionali di competitività e di ricchezza indefinita? Non ha forse ragione il teologo Carlo Molari di affermare senza ipocrisie di sorta che «l’attuale sistema capitalistico è per principio incompatibile con l’annuncio cristiano»?

Si dirà che non si può creare ricchezza senza capitale e che, dove d’altra parte c’è il capitale, dev’esserci realisticamente il capitalismo e non un capitalismo che può anche essere riformato e più temperato ma il capitalismo nell’intera gamma delle sue possibili forze espropriatrici. O non c’è accumulazione continua e indiscriminata di ricchezza e siamo in una società chiusa, arcaica, immobile, preindustriale o improduttivamente postindustriale e incapace di sviluppo, o c’è il capitale e restiamo dentro il capitalismo con tutti i benefici ma anche e soprattutto con tutte le negatività sempre più distruttive che esso inevitabilmente comporta. Tertium non datur, potrebbe dirsi.

Se però cambiano i modi e i tempi della produzione, e quindi l’organizzazione complessiva del mondo del lavoro e i suoi livelli di produttività, le forme stesse dello sviluppo, della crescita e del profitto, nel senso che esse non siano più concepite e perseguite in termini assoluti e illimitati ma in termini di sostenibilità relativa alla situazione e alle necessità specifiche ed oggettive delle diverse regioni del pianeta e dello stesso occidente europeo, noi possiamo evitare il rischio della staticità o dell’immobilismo economico senza tuttavia rimanere imbrigliati nel quadro dello sfruttamento capitalistico, e al tempo stesso ci facciamo promotori di una prosperità economica reale ma non ossessiva e soprattutto non vantaggiosa solo per alcuni bensí volta a non costringere nessuno, e in particolare i meno abbienti, ad indebitarsi e a chiedere prestiti forzosi e letali o a vivere in condizioni assolutamente miserevoli.

Non si tratterebbe quindi di aggiustare il sistema con qualche cambiamento o riforma di facciata o immettendovi un po’ di etica, di salvarlo ancora una volta per salvarlo sempre e per mantenerne sostanzialmente inalterati assetti e meccanismi di potere, ma di superarlo radicalmente attraverso una serie di coraggiose ed incisive trasformazioni strutturali, ovvero anche di natura legislativo-normativa e giuridico-finanziaria, di cui naturalmente dovrebbe imparare a farsi carico la politica, sebbene oggi essa sia ancora esercitata, mi perdonino se esagero, da soggetti generalmente impreparati, codardi e inaffidabili.

A ben vedere, una siffatta prospettiva non contribuisce a ridisegnare il nostro mondo economico e sociale? Non può inaugurare una nuova stagione della storia umana ed introdurre in un’organizzazione sociale non più capitalista perché organicamente fondata più su vincoli comunitari di tipo morale che non su vincoli sociali di tipo meramente contrattuale? Non sarebbe il caso che, in presenza di una sinistra politica incredibilmente assuefatta all’idea che il mondo debba vivere e svilupparsi dentro il capitale (F. Rampini, Alla mia sinistra, Mondadori 2011), anche i cattolici e anzi i cattolici per primi, nel nome della loro stessa fede, cercassero di rovesciare tale prospettiva per costringere il capitale a stare nel mondo, a calarsi cioè nelle differenze della storia e della politica, nei bisogni reali e non artificiali dei popoli e delle singole comunità nazionali?

Urgono regole radicalmente nuove, leggi radicalmente alternative a quelle che garantiscono gli attuali equilibri economico-finanziari nel mondo e in Italia. Forse in parte è vero che «coloro che credono che la democrazia liberale e il libero mercato possano essere difesi con la sola forza delle leggi e delle regole, senza un senso interiorizzato del dovere e della morale, si sbagliano tragicamente», ma è certo che, a parte il fatto che quello della fede in una democrazia liberale è un cliché ormai logoro e sempre più privo di mordente tanto quanto lo sarebbe quello di una fede in una democrazia socialista di già noto stampo culturale, regole e leggi esemplarmente nuove e severe sono più che mai necessarie e improcrastinabili, anche se esse presuppongono un “senso interiorizzato del dovere e della morale e, aggiungerei, della stessa fede per chi ce l’ha o ritenga di averla (Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito, L’anima perduta dell’Europa. Risanare l’Europa è molto più che stabilizzare l’euro, lezione del 13 gennaio 2012 presso la Pontificia Università Gregoriana).

I cattolici sono oggi chiamati a battersi non più per rattoppare un sistema ormai logoro e irreversibilmente corrotto, non più per rinviare ancora una volta un fallimento delle finanze pubbliche destinato comunque a restare in agguato contro i popoli e le persone più indifese, ma per invertire radicalmente la rotta dell’economia nazionale e mondiale attraverso prese di posizione e misure politiche drastiche e limpide ad un tempo per mezzo delle quali i cosiddetti “poteri forti”, i mercati, le famigerate agenzie di rating, i vari organismi della finanza internazionale, gli stessi istituti di studi economici e finanziari esclusivamente riservati a riconosciute eminenti personalità del mondo politico, scientifico e culturale di ogni parte del pianeta, siano costretti a mettersi l’anima in pace, a rivedere profondamente le proprie dottrine, le proprie teorie, i propri calcoli, i propri criteri di previsione e programmazione politico-economiche, e quindi anche a rinunciare alle proprie ambizioni circa la creazione di una governance sovranazionale, alle proprie manie di globalizzazione indiscriminata persino degli stili di vita, delle sensibilità e dei gusti, delle tradizioni e delle peculiarità di ciascun popolo e di ciascun individuo, delle specificità antropologiche di ogni gruppo umano, nel quadro di una progressiva e presunta quanto indifferenziata unificazione razionale dei vari sistemi giuridico-legislativi, economico-finanziari, culturali e religiosi.

I cattolici dovranno resistere all’idea che l’unità del genere umano su valori e scelte di vita, specie se manifestamente e irragionevolmente contrari agli interessi collettivi e personali di larga parte delle masse popolari, possa essere imposta dall’alto e da parte di un ristretto gruppo di persone, i cosiddetti “illuminati”, che non esprimono molto altro, con i loro progetti di risanamento tanto sofisticati quanto spesso illusori e ingannevoli, al di là degli interessi forti di potenti caste finanziarie internazionali. Noi cattolici siamo tenuti ad aprire gli occhi evangelicamente, con il candore dello spirito e la circospetta ed intuitiva intelligenza della mente, sui processi in atto che, di riforma in riforma, di taglio in taglio, di privatizzazione in privatizzazione, puntano ad una espropriazione quanto più possibile avanzata e generalizzata della ricchezza pubblica, sia in senso materiale che in senso immateriale, di tutti i cittadini del mondo. Dobbiamo renderci conto e mostrare chiaramente che il re è sempre più nudo, che di sacrificio in sacrificio la gente muore o vive in preda alla disperazione, che è semplicemente vergognoso ritenere di poter tutto cambiare e riformare (riforma del sistema pensionistico, della pubblica amministrazione, del mercato del lavoro, ecc.) tranne che i mercati stessi e i mercanti non certo probi e disinteressati che li gestiscono e li manovrano.

C’è un altro aspetto dell’analisi che è necessario fare. Tutte quelle imposte dirette ed indirette, tutti quei tributi locali e nazionali, tutte quelle tasse governative regolarmente versate, tutte quelle azioni volte spesso con successo contro grandi evasori fiscali e contro immensi patrimoni più o meno legali, non sono mai sufficienti a tenere in equilibrio il bilancio dello Stato, ad onorare l’impegno di pagare i debiti nazionali e ad assicurare servizi pubblici decenti ai cittadini? Fiumi torrentizi di denaro che riempiono sistematicamente le casse dello Stato sino a farle straboccare, non bastano mai a risanare debiti, a rimettere le cose a posto, ad assicurare alle fasce sociali meno protette condizioni di vita quanto meno accettabili? Possibile che lo Stato abbia sempre bisogno di manovre economiche che, anziché favorire l’emancipazione qualitativa della vita della generalità dei suoi cittadini, sottopongano questi ultimi ad interminabili e dolorose vessazioni? Cosa bisogna aspettare per risanare lo Stato: un depauperamento progressivo della società? E alla fine cosa sarà rimasto di tanto appetibile? Uno Stato risanato, forse; ma per quanto tempo, ma per chi, a vantaggio di chi e a quale prezzo? Che differenza c’è, a parte l’orribile immagine di cadaveri disseminati per le strade, tra le rovine di una guerra e le rovine ineluttabili di queste “civilissime” e truffaldine manovre governative e statuali?

Dare a Cesare quel che è di Cesare non significa affermazione astratta del rispetto per qualunque autorità di governo e per qualsiasi obbligo di legge previsto da un ordinamento statuale; significa affermazione consapevole e responsabile del rispetto che si deve allo Stato e ai suoi ordinamenti nei limiti in cui essi restino compatibili con l’obbligo di obbedire a Dio e di rispettare i suoi comandamenti, tra cui quello di non rubare, di non espropriare in modo non già illegale ma illecito, di non privare nessuno della propria dignità personale, di non comminare pene per gli innocenti, di non creare disperazione nella vita dei popoli e delle persone. Per il cristiano e per il cattolico, Cesare non può fare quello che vuole, specialmente se quello che vuole è assecondare sempre e comunque i mercati e i mercanti, soddisfare impunemente le brame dei ricchi e dei potenti, veicolando propagandisticamente ipocriti e irresponsabili messaggi di risanamento e civilizzazione.

Cesare è legittimato da Dio a fare uso del potere, della forza, della coercizione, per far rispettare l’ordine sociale, le leggi, le norme della convivenza, e certo anche il possesso privato di beni, ma solo nei limiti in cui egli non usi la frode, l’inganno, l’iniquità deliberata come strumenti di potere e di governo. Se evangelicamente occorre dare a Dio quel che è di Dio, il cristiano sa di non poter indulgere a prassi governative di qualsivoglia natura, di non potersi e non doversi inginocchiare di fronte ad una violenza beluina sebbene incruenta di Stato, ma di doversi opporre per cambiare quanto più pacificamente possibile quel Cesare che sta infrangendo le regole più elementari della vita associata e della vita comune voluta da Dio, pur sempre disposto a sacrificarsi per il bene comune senza far uso di violenza.

La storia cambia gli uomini non meno di quanto gli uomini siano chiamati a cambiare la storia: la storia, la politica, l’economia, la vita stessa di ogni comunità. Ma se la storia cambia gli uomini più di quanto gli uomini siano capaci di cambiare la storia con una sana capacità di discernimento, l’umanità si condanna ad essere oggetto passivo di trasformazioni impersonali e oppressive. Chi più del cristiano-cattolico può e deve mostrarsi pronto ad impedire che la vita sia asservita all’economia che dovrebbe esserne invece un semplice strumento per quanto prezioso? Chi più di lui è tenuto a perseguire la giustizia di Dio piuttosto che la giustizia degli uomini quando questa nasce dalla menzogna, dalla falsità, dall’inganno più o meno premeditato?

E non è manifestamente falso e ingannevole sostenere che, poiché c’è una crisi economica globale che mette a repentaglio la tenuta economico-finanziaria di molti paesi occidentali fra cui l’Italia, allora non si può fare a meno di imporre gravi “sacrifici” alle masse popolari, e in particolare ai ceti più poveri o meno abbienti? Non è ipocrita sostenere che i sacrifici devono essere fatti da tutti quando appare del tutto evidente che il reddito di molti cittadini, già abbondantemente tartassati da imposte tasse e tributi, è nei casi migliori appena sufficiente ad assicurarne la sopravvivenza? E’ mai possibile che non si possa e voglia capire che, specialmente in certe congiunture economico-sociali, i poveri e i disagiati devono essere totalmente risparmiati dalle politiche fiscali e che sia assolutamente giusto ed equo che l’intero peso fiscale di determinati provvedimenti governativi ricada unicamente e sia pure proporzionalmente sulle spalle di benestanti e “ricchi”?

Un reddito personale di 60.000 euri netti annuali è o non è il reddito di una persona benestante? E chi percepisce più di 100.000 euri all’anno si può o non si può definire ricco? Bene, è cosí complicato accertare il numero di questi “fortunati” in un paese come l’Italia? O si continuerà ad argomentare che non si debbano troppo infastidire i ricchi perché ne andrebbe della loro volontà produttiva e di investimento, della loro capacità di creare posti di lavoro e di contribuire allo sviluppo e alla ripresa economica di tutta la nazione? Come dire: attenti a non toccare troppo i ricchi perché altrimenti si rischia di condannare la classe imprenditoriale a una sorta di demotivazione produttiva che determinerebbe a sua volta una notevole riduzione della produttività e della competitività nazionali sul piano internazionale.

Ma è morale tutto questo? I cattolici possono far finta, e per quanto tempo ancora, di credere veramente che tutto ciò sia sensato, sia vero, sia giusto, sia praticabile e funzionale al bene comune? Io non so se il governo Monti sia davvero, come dice il cardinale Bagnasco, «un esecutivo di buona volontà» che si starebbe seriamente sforzando di rimettere a posto le cose e che meriterebbe di essere apertamente coadiuvato da tutte le forze politiche italiane (Relazione introduttiva alla Conferenza Episcopale Italiana, 23-26 gennaio 2012), ma, dato il curriculum vitae del professor Mario Monti, è oggettivamente difficile immaginare che egli, di punto in bianco, si renda completamente autonomo da quegli “illuminati” e molto discutibili ambienti internazionali di stampo neoliberista e da quel variegato e spesso oscuro mondo economico-finanziario di cui ha sempre fatto parte e continua a far parte, condividendone analisi diagnosi e terapie, e che hanno prodotto e continuano a produrre irresponsabilmente i maggiori disastri dell’economia mondiale e delle diverse economie nazionali, a cominciare da quella italiana.

Dobbiamo sentirci affetti da inguaribile malizia nel ritenere che, ove il risanamento nazionale riesca almeno per i prossimi dodici-diciotto mesi (giusto il tempo di restare e di lasciare il governo), tale risanamento sia eventualmente solo e proprio quello voluto nell’immediato dalle multinazionali dell’alta finanza internazionale, e che di successive ipotetiche crisi finanziarie egli potrebbe disinvoltamente lavarsi le mani? Non che ci si voglia fare, ci mancherebbe altro, difensori dello status quo: ma qui il problema è che i cambiamenti proposti dagli “esperti” sembrano tutti oggettivamente orientati ad impoverire la condizione economica dei popoli, a ridurre notevolmente il tasso democratico e la qualità della nostra vita civile. Ecco perché, in questo frangente, mi pare più condivisibile la preoccupazione espressa dalla Chiesa per bocca di un altro suo eminente esponente, ovvero monsignor Bregantini, responsabile della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, il quale non si è affatto compiaciuto della manovra del governo Monti e ha dichiarato che, pur essendo “necessaria”, essa «poteva essere più equa», per cui si «sono fatti dei passi…che però potevano essere più equanimi» e più decisi in relazione «ai redditi alti» (dichiarazione del 5 dicembre 2011).

Non mi auguro affatto di avere ragione. Spero sinceramente che i dubbi qui espressi possano essere fugati da fatti incontrovertibili che dimostrino la giustezza e l’efficacia delle misure varate dal governo Monti e che questi non sia un volgare imbonitore ma un vero servitore dello Stato, della società e della Chiesa. Ma, francamente, non sussistono per ora elementi che consentano ai cattolici di pensare che il tentativo di Monti sia uno di quei tentativi attraverso cui si fa più vicino il giorno in cui «Cristo sia il cuore del mondo». E allora cosa dobbiamo fare, cosa resta da fare?

Innanzitutto, pur riconoscendo ovviamente che «evadere le tasse è peccato» (Relazione introduttiva di Bagnasco alla Cei, cit.), è assolutamente necessario precisare, e tenerne ben conto sia in sede morale sia in sede politica, che altro è il peccato del ricco che evade le tasse e altro è il peccato di chi le evade in quanto versi in uno stato di indigenza o di grave precarietà economico-finanziaria; in secondo luogo, bisogna impegnarsi a fondo perché i princípi e i valori della nostra carta costituzionale non vengano cancellati o sepolti da un pragmatismo politico orientato a distruggere le più avanzate conquiste di civiltà e progresso ottenute dai popoli europei e in particolare dall’Italia relativamente a stato sociale, a diritti e tutele a beneficio del mondo del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici, oppure bisognerà impegnarsi per ripristinare il più presto possibile quei princípi e quei valori ove fossero stati già parzialmente vanificati; in terzo luogo, si dovrà essere capaci di elaborare una nuova strategia politica con la quale sia possibile non più accondiscendere a tutti gli umori dei mercati e alle relative istanze dei potentati finanziari del mondo ma metterne in discussione e persino fuori legge metodiche di misurazione dei debiti sovrani, aspettative e pretese, ove esse dovessero apparire manifestamente illegittime e contrarie al comune senso civico e morale del genere umano: una delle richieste più odiose che in questo periodo si sente fare, ovvero la cessione parziale della sovranità nazionale in materia fiscale da parte di paesi particolarmente indebitati, dovrebbe essere respinta al mittente come criminale ed infame.

Inoltre, sarà necessario sventare per tempo il pericolo di un radicarsi nella coscienza comune di idee che hanno tutta l’apparenza delle banalità e delle mistificazioni. Fa sorridere ad esempio Monti quando, per giustificare la reintroduzione dell’ICI-IMU, afferma che la non tassazione della prima casa è una stonatura esclusivamente italiana e che era necessario eliminare tale anomalia per mettersi finalmente sul piano degli altri stati europei, quasi che tutto ciò che vige in Europa dovesse essere preso per oro colato, mentre d’altra parte l’Italia sarebbe in perfetta media europea per ciò che si riferisce agli stipendi dei parlamentari e degli europarlamentari europei.

Come mai, peraltro, non si ritenga di aumentare gli stipendi degli operai, dei dipendenti del pubblico impiego, degli insegnanti della scuola primaria e secondaria o degli ospedalieri in Italia, visto che essi sono largamente inferiori a quelli dei colleghi europei, resta un mistero che genera profonda tristezza in chi vorrebbe ma non può riporre la sua fiducia nel cosiddetto “governo tecnico”. E preoccupazioni non meno gravi non possono non essere ingenerate da parte di chi propagandisticamente e solennemente dichiara, ma qui anche la Chiesa non deve peccare di ingenuità, che la civiltà di una nazione si misura dalla modernità e funzionalità delle carceri.

Ma come: voi dite che non ci sono soldi, che dovete riformare oggi le pensioni riservandovi magari di decurtarle insieme agli stipendi domani, che dovete imporre tasse a destra e a manca per far fronte al debito contratto con gli investitori stranieri, e poi, proprio mentre si abbassa spaventosamente il tenore di vita di larga parte della popolazione e la sua possibilità di soddisfare decentemente bisogni primari, proprio mentre si razionalizza la spesa pubblica chiudendo e accorpando scuole e ospedali e lasciando in uno stato fatiscente numerosi luoghi dell’edilizia scolastica e beni del patrimonio artistico-culturale, vorreste ricominciare la ricostruzione “europeista” del nostro paese dalle carceri, investendo denaro pubblico nell’edilizia e nella tecnologia carceraria? Ma vogliamo provare a ragionare seriamente prima di parlare o vi deve essere consentito di dire qualunque sciocchezza solo perché “tecnici”?

Ma, in questo momento, i cattolici, e si spera a breve un nuovo e coriaceo partito cattolico, né classista né interclassista ma semplicemente dotato di un forte senso della giustizia sociale e della giustizia tout court, e quindi per niente indulgente verso forme sofisticate o volgari di relativismo etico, devono porre al centro della loro agenda politica le istanze e le misure da far valere nei confronti di quei “mercati” arroganti e omnipervasivi che pretendono in modo sempre più impudente di avocare a sé la sovranità e dunque il governo della vita di milioni e milioni di persone, quella sovranità e quel governo che le costituzioni degli stati democratici assegnano ai popoli.

Certo, perché ormai è abbastanza chiaro che dietro questi “mercati” c’è la finanza internazionale che è la forma più compiuta, astratta e “delocalizzata” del capitale, che a sua volta è costituito e rappresentato da enormi patrimoni privati (hedge fund, private equity o fondi di investimento) che in un periodo di tempo relativamente breve sono cresciuti in virtù di un gigantesco trasferimento di ricchezze (circa il 10 per cento del PIL di quasi tutti i paesi; che per un salario può corrispondere al 40 o al 50 per cento del potere d’acquisto) dai redditi di lavoro ai redditi da capitale. Dietro i “mercati” ci sono anche le grandi banche e le grandi multinazionali, e soprattutto assicurazioni e fondi pensioni, ben adusi alle più svariate e sofisticate operazioni di investimento e di speculazione che presentano altissimi margini di rischio e di guadagno e le cui eventuali perdite alla fine ricadono sui consumatori e sul loro portafoglio.

Per imparare a intercettare, a smascherare e a combattere gli scaltri mercanti apparentemente e momentaneamente anonimi dei mercati e di questi mercati, non basta certo il ripudio della politica e il ricorso istintivo all’antipolitica. Con la Chiesa bisogna ribadire invece che «la politica è assolutamente necessaria, e deve mettersi in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione. Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisibili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo. Sembra, invece, che i grandi della terra non riescano ad imbrigliare il fenomeno speculativo; che giochino continuamente di rimessa, sperando ogni volta di scamparla alla meno peggio, ma è un’illusione: prima o poi arriva il proprio turno, e ci si trova in ginocchio come davanti ad un moderno moloch di non decifrabile direzione. Il dubbio è che si voglia proprio dimostrare ormai l’incompetenza dell’autorità politica rispetto ai processi economici, come se una tecnocrazia transnazionale anonima dovesse prevalere sulle forme della democrazia fino a qui conosciuta, e dove la sovranità dei cittadini è ormai usurpata dall’imperiosità del mercato» (Relazione Cei del 23 gennaio 2012, cit.).

Il che però implica che almeno i cattolici italiani si mettano totalmente a difesa della democrazia repubblicana e della inalienabile sovranità popolare da essa sancita pensando a come rifondare la politica per renderla più idonea a rappresentare e a tutelare coerentemente i legittimi interessi del popolo e della stessa umanità attraverso un’adeguata accentuazione dell’istanza di socializzazione e di comunione dei beni rispetto a quella, pure legittima e socialmente necessaria ma non dotata di valore assoluto né gerarchicamente superiore alla prima, di privatizzazione dei beni medesimi.

Dovremo altresí imparare a neutralizzare i veementi e sistematici attacchi dei mercati di questo tempo con misure appropriate e persino insubordinate rispetto alle implacabili logiche mercantili della finanza europea e mondiale, anche se suscettibili di arrecare ulteriori sofferenze alle popolazioni e ai cittadini economicamente più deboli. Ulteriori sofferenze, forse, in quanto rifiutarsi di continuare a pagare i debiti usurai implica un default dalle conseguenze probabilmente pesanti (ma non necessariamente pesanti), ma questa volta sofferenze all’interno di un processo di liberazione e di affrancamento definitivo da un’idolatria monetaria e non solo monetaria sempre più vorace, e non più nel quadro di un graduale e irreversibile asservimento dei popoli e del nostro popolo all’onnipotenza del dio denaro.

Dio, che non abbandona mai i figli che lo invocano con cuore sincero, ha liberato una volta il suo popolo dalla schiavitù egiziana; Dio libererà il suo popolo anche dall’attuale schiavitù finanziaria prima di liberarlo definitivamente dal peccato, dal male e dalla morte.

Il governo Monti e i cattolici

Un individuo si apre al mondo esterno e agli altri perché non potrebbe vivere senza relazionarsi ad entrambi; allo stesso modo una determinata comunità religiosa cerca di non rimanere chiusa in se stessa ma di allargarsi ad una comunità religiosa sempre più grande o universale per evitare di essere settaria e per arricchirsi di una spiritualità che da sola non potrebbe produrre e praticare, e cosí anche una comunità civile nazionale tende ad accrescere il suo benessere e le sue opportunità sociali e culturali di vita attraverso un’apertura costante alla comunità internazionale o mondiale. Va da sé che questo movimento, questa dinamica dello spirito umano, sono del tutto naturali e necessari nei limiti in cui sia l’individuo o la persona, sia una data comunità religiosa, sia una comunità nazionale abbiano buone ragioni per ritenere di trarne un reale vantaggio e un accrescimento delle proprie potenzialità umane, morali, spirituali, economiche, sociali e religiose. Ma se ci si rende conto già originariamente o sulla base di successive esperienze che in realtà “i costi” complessivi di tali forme di apertura sono ben superiori ai “benefici” effettivi che se ne possono trarre, sarebbe veramente diabolico perseverare nell’errore o nel peccato solo per amore di malintesi princípi altruistici e caritatevoli  o di un ecumenismo fine a se stesso o infine di ambigui ideali internazionalistici o mondialistici che, perseguiti fondamentalmente secondo le direttive di invisibili ma ben reali e dispotici governi finanziari transnazionali, non possono che condurre popoli, famiglie e soggetti umani e sociali alla rovina.

Anche da un punto di vista evangelico, si è tenuti sempre a valutare le ragioni delle proprie scelte, a soppesare quel che si fa e come lo si fa, a declinare eventualmente certi inviti ad accettare la compagnia di individui empi o non dotati di sicuro senso morale o a far parte di gruppi e di associazioni ecclesiali più ampi dei propri ma non necessariamente più sani e virtuosi, e infine a rinunciare persino a certi apparenti vantaggi materiali ove non siano ancora per nulla chiare le vere e complessive finalità per le quali ci si dovrebbe decidere ad essere parte integrante di una società globale, planetaria o europea che sia, sulla base peraltro di prevalenti interessi economici e finanziari.

Tutto si può fare ma a condizione, ammonisce il vangelo, che si sia candidi come colombe e furbi come serpenti. Per cui, è certo necessario che la Chiesa di Cristo si espanda quanto più possibile nel mondo, che agisca in ogni ambito familiare, civile, parrocchiale, economico, politico, territoriale del mondo, ma non evidentemente a costo di smarrire o dissolvere o diluire la sua identità religiosa e la sua capacità spirituale e missionaria di testimoniare ciò che è vero e ciò che è santo. E’ o sarebbe molto meglio quindi che la Chiesa resti o restasse eventualmente “un piccolo gregge” o “un piccolo resto” di persone davvero credenti e fedeli a Cristo Signore, se il prezzo ad essa richiesto per ampliare la propria presenza e la propria influenza nel mondo dovesse implicare una ritrattazione o un ammorbidimento sostanziali dei rigorosi richiami e valori evangelici.

Oggi la Chiesa cattolica, per bocca di alcuni suoi eminenti esponenti, ha avuto forse comprensibilmente fretta di salutare il governo Monti come un governo di persone serie e competenti. Lo speriamo, ma io non avrei troppa fretta nel decretare la natura e le finalità virtuose di tale governo solo perché molti dei suoi componenti pare si professino cattolici. Monti, sino a qualche tempo fa, era colui che attaccava le lobbyes di ogni ordine e grandezza, era molto critico con le grandi rendite finanziarie e molto severo verso una pressione fiscale eccessiva. Era anche determinato a tagliare aiuti finanziari alle imprese private. Francamente, è difficile ritrovare traccia di tutto questo nella sua recente manovra governativa, stracolma di tasse ben più gravose per i non abbienti che per i ricchi, e puntata essenzialmente su un prelievo fiscale strutturale che sembra danneggiare molto più i ceti medio-bassi che non i ceti alti e privilegiati della nazione italiana. A questo si aggiunga la fede assoluta e quindi dogmatica di Monti nella comunità economica internazionale, nei processi di globalizzazione, nella economia europea, benché non gli sfugga talvolta che in essi si aggirano veri e propri “avvoltoi” sempre pronti a speculare sulle debolezze delle economie nazionali e a portar via rapacemente dai popoli quanta più ricchezza possibile.

Nulla invece egli ha detto sin qui sulle consorterie ideologiche di segno prevalentemente massonico e anticristiano che molto probabilmente agiscono e decidono ai più alti livelli di comando economico-finanziario. Ecco: la Chiesa e i cattolici, prima di esprimersi su certe realtà mondane pure cosí importanti per il bene spirituale e materiale di tanta parte di umanità, dovrebbero forse essere più riflessivi, più prudenti, e soprattutto molto più candidi interiormente. E dovrebbero sottoscrivere in larga misura le recenti parole di Raniero La Valle, per il quale «alle nuove generazioni» bisogna far sapere, in modo molto più chiaro ed incisivo di quanto ancora non siamo riusciti a fare, «che il mercato non è tutto e che il pareggio di bilancio non è un dogma di fede. Se l’economia di mercato fosse stata fuori della portata delle decisioni politiche, Dossetti non avrebbe potuto fare quel discorso ai giuristi cattolici nel ‘51, e su Cronache sociali non si sarebbero potute discutere e criticare le ricette di Einaudi e di Pella, non si sarebbe potuto negare che il problema fosse solo nel controllo del credito e nella difesa della lira, e non si sarebbero rivendicate politiche di intervento e di spesa. A Dossetti, a Fanfani, a La Pira, a Glisenti, a Federico Caffè, a Novacco, a Massaccesi, che scrivevano su Cronache Sociali, era ben chiaro che si doveva uscire dal cerchio magico di un “dogmatismo liberale” e dal mito di un automatico funzionamento del meccanismo di mercato, cosí come dall’abbaglio della “deflazione benefica e risanatrice”; essi scrivevano che non è solo col bilancio in pareggio “che si occupano le migliaia di braccia inerti, che si dà la vita al Paese, che si muovono le energie, si moltiplica il reddito, si utilizzano i sussidi esteri, si diffonde il benessere” e si risponde alla domanda e ai bisogni dei poveri.

E cosí le generazioni di oggi almeno dovrebbero sapere che nel Novecento a tutti gli uomini e le donne è stato proposto un nuovo annuncio di fede, con una nuova narrazione e un nuovo linguaggio, e che anche l’annunciatore, cioè la Chiesa, è cambiato, come ha scritto Karl Rahner; c’è stata nel Novecento una straordinaria teofania di un Dio personale che con infinita tenerezza è tornato a parlare ai suoi figli nel Figlio, è tornato a reclamare un rapporto con ciascuno, dentro e fuori le religioni e le Chiese.

Dicono le inchieste che le prossime generazioni non sapranno più nemmeno chi sia questo Dio, mentre nuove culture e nuovi teologi si affannano a spiegare che non può esserci un Dio personale, che Dio consiste in una potenza neutra dell’essere energia, che la divinità sarebbe una forza vitale astratta, una idea regolatrice, una pura dimensione dell’essere, un brivido di trascendenza interno e non esterno a ciascuno; una specie di ectoplasma che sarà pure il grembo dell’esistenza, ma è senza nome, senza volto e senza parole di vita. Forse la Chiesa dovrebbe accorgersi che il Novecento, col suo Concilio, le ha offerto l’ultima possibilità di narrare agli uomini il Dio di Gesù Cristo» (Grandezza e miseria del Novecento in Dossetti, Monteveglio, 17 dicembre 2011).

Intanto però, per cattolici che non si accontentano del vangelo delle buone intenzioni di cui peraltro è lastricata la via dell’inferno, non può non essere un motivo concreto di speranza il nuovo monito del cardinal Bagnasco, sebbene probabilmente esso non sia stato rivolto al governo Monti: «Al di là di ogni ventata antipolitica, la politica è assolutamente necessaria, e deve essere in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione facile e garantita…Che la grande finanza internazionale guidi ormai i giochi sembra un dato innegabile ma così non deve essere. Una finanza fine a se stessa non serve il mondo ma se ne serve, e alla fine ne risentono i più deboli. Quando, infatti, il criterio sembra essere il guadagno il più alto e facile possibile, e nel tempo più breve possibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso e quindi immorale perché condiziona e sottomette anche l’economia e la politica, e quindi l’uomo… Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno» ha detto ancora il porporato, e modellare la vita sulla base delle sentenze giornaliere e quasi sempre nefaste dei mercati.

Il che significa che «la politica non può prescindere» dal suo ruolo «se vuole corrispondere al suo mandato di promuovere la giustizia e il bene comune» e deve fare in modo che la vita dei popoli e della gente comune non sia concepita in funzione dei mercati ma, al contrario, i mercati sussistano ed operino nei limiti e in funzione delle possibilità e dei bisogni oggettivi delle popolazioni europee e mondiali (Bagnasco: la politica regoli la finanza. E va fermata la macchina del fango, in “Il Sole 24 Ore” del 31 dicembre 2011), magari, mi permetto di aggiungere, con l’aiuto più responsabile di governi nazionali che, in tempo di grave crisi come quello attuale, farebbero cosa saggia e utile se dalle loro politiche fiscali e tributarie escludessero completamente tutti quei cittadini che obiettivamente già vivono intorno alla cosiddetta soglia di povertà.