Fede e criminalità finanziaria

In data 7 marzo 2013, all’indomani dei travolgenti risultati elettorali italiani del 24 e 25 febbraio 2013, che hanno segnato la sensazionale affermazione del movimento 5Stelle di Beppe Grillo, Mario Draghi a Francoforte dichiarava con apparente imperturbabilità: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Come dire: Grillo e il suo populismo antieuropeo o euroscettico hanno vinto, ma questo non è certo un problema né per i mercati né per l’Unione Europea che sanno bene come la democrazia sia un elemento costitutivo ed ineliminabile dello scenario in cui operano.

Ma Draghi, in realtà, nell’esprimersi in questi termini, intendeva veicolare un concetto ben più perfido di quel che molti hanno percepito: quello per cui la democrazia, pur cosí “cara” ai mercati finanziari e ai banchieri europei e mondiali, non può impedire che la finanza continui ad avere le sue dure necessità e ad imporre severe direttive soprattutto ai paesi debitori, per cui Grillo o non Grillo, niente e nessuno potranno impedire che le politiche europee dell’austerità facciano il loro corso sino al completo conseguimento degli obiettivi fissati.

Come ha brillantemente chiosato Barbara Spinelli, per Draghi l’austerità non potrà essere intralciata da eventuali dubbi e ripensamenti dei governi europei, essendo essa «divinamente indifferente a quel che mugghia nei bassi mondi. In altre parole: la democrazia può emettere le sentenze che vuole, ma nelle chiome dell’Unione e dei mercati se ne udirà appena l’alito» (Il pilota automatico nei palazzi del potere, in “La Repubblica” del 13 marzo 2013). Ma su che cosa Draghi basa questa certezza? Sul fatto, egli ha detto esplicitamente sempre in quel di Francoforte, che «gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico» e questo ben garantisce che «l’unità d’intenti dei governi» europei non sarà minimamente scalfita. Il “pilota automatico”: ovvero gli impegni precisi che sono stati già assunti e sottoscritti, e che dovranno per forza essere onorati, anche e principalmente da quei governi europei che, come Grecia, Cipro, Portogallo, Spagna e Italia, hanno già conosciuto un terribile tracollo economico-finanziario o rischiano di scivolarvi in tempi molto brevi.

Draghi, pertanto, pensa cinicamente che, quale che sia l’indicazione o la reazione democratica dei popoli, i patti sono patti, o per meglio dire i contratti sono contratti, e non possono in ogni caso essere disattesi. Per lui, il pilota automatico o autopilota «è il dispositivo che fa avanzare il veicolo senza assistenza umana. E’ impersonale, non si cura del singolo e degli elettorati, ed è il contrario della democrazia» (ivi), ed è come se il presidente della BCE, nel farsi garante dei mercati, avesse detto di voler rispettare formalmente la democrazia ma dichiarando sostanzialmente che i trattati economici, le regole finanziarie e le stesse penalità previste in caso di infrazione, tutte cose custodite e garantite gelosamente dagli inflessibili organi di controllo della stessa Unione Europea, non possono essere violate impunemente da nessuno dei Paesi membri.

Ciò significa che, per quanto ci riguarda, secondo Draghi «l’Italia è già commissariata, dunque calma e gesso, fatti giunco, la tempesta passerà. Dice passerà: non come, né se sarebbe forse meglio sostituire al dispositivo un governo fatto di uomini, e avere statisti europei con carisma non solo alla Bce» (ivi). Ora, a parte il fatto che la tracotanza di un Draghi, curiosamente cosí osannato dai media delle democrazie occidentali, può durare sino a quando i popoli se ne stiano fondamentalmente muti e passivi e non passino a concrete e convincenti vie di fatto, prese di posizione cosí ostentatamente autoritarie e cosí povere di sensibilità sociale possono essere assunte solo in un’Europa economico-finanziaria priva, e non a caso, di un’Europa politica. E’ per questo, per gli automatismi finanziari europei, che, nota ancora Barbara Spinelli, «ogni Stato diventa una specie di rione municipale, dove le più varie sperimentazioni (buone e non) diventano possibili: il pilota automatico le incanalerà. Il potere vero ha cambiato sede ed è una virtual machine che simula il politico» (ivi).

Ora, basterebbe solo riflettere sull’indecenza del modo di ragionare e di esprimersi di un esponente autorevolissimo del mondo finanziario internazionale qual è certamente Draghi per decidersi non solo a replicare duramente che il concetto di pilota automatico è un’offesa all’intelligenza di chi lo pronuncia e un insulto sprezzante per i popoli e gli Stati cui è destinato, ma anche e soprattutto a sostituire radicalmente i ceti politici governativi di tutta Europa, complessivamente e sostanzialmente proni alle continue ossessive ingiunzioni finanziarie degli organismi decisionali della UE, con uomini e donne capaci di rappresentare nelle sedi decisionali preposte le reali necessità economiche delle proprie comunità nazionali e di farsi portatori di istanze politiche che riflettano non già o non più astratti quanto corposi interessi di determinate oligarchie finanziarie ma concreti, stringenti e diffusi bisogni sociali di vita, e quindi di occupazione, di lavoro, di coesione comunitaria e di dignità personale, dove solo in funzione di tali bisogni, e non a prescindere da essi, sia possibile discutere di finanza, di unione europea, di cooperazione internazionale e di quant’altro viene generalmente utilizzato in modo strumentale e mistificante e quindi non a fini di servizio ma di potere o di dominio.

E’ tempo che il “pilota automatico” venga sostituito con la guida di persone serie, coraggiose e responsabili, capaci di rovesciare con tutte le forze i piani economico-finanziari che spiriti perversi ed irrazionali hanno concepito ed intendono porre in essere non per lavorare all’emancipazione della civiltà europea e mondiale ma alla desertificazione materiale e spirituale dell’umanità. Ed è tempo che quel pilota venga quindi trasformato prestissimo in sovranità del popolo europeo se si vuole evitare che esso «ci bombardi come un drone».

Sta accadendo davvero qualcosa di assurdo: l’Unione Europea, nata per rendere più forti e sicuri tutti i popoli del vecchio continente, sta producendo irresponsabilmente, con la diretta o indiretta complicità di molti governi nazionali, una tale serie di disastri da mettere in serissimo pericolo non solo la civiltà europea ma la stessa sopravvivenza materiale di interi popoli: si pensi emblematicamente alla tragedia greca. Ma che senso ha, a questo punto, una politica europeistica che, lungi dal garantire un buon governo ai popoli, ne favorisca lo sfascio e la irreversibile decadenza? Che senso ha rimanere in Europa se ogni popolo in casa propria non è più libero di decidere il proprio futuro e il proprio destino? E perché mai bisognerebbe rimanere legati all’euro se il mantenimento di questa moneta è funzionale alle esigenze dei mercati e agli interessi finanziari di Paesi come Germania e Francia o Stati Uniti ma non indistintamente alle necessità di sviluppo economico di tutti gli Stati membri della UE? Perché ogni Stato dovrebbe uniformare la sua politica a scelte decise sempre da altri sia pure in nome di una molto astratta ed equivoca unità europea?

L’umanità europea e mondiale non ha bisogno affatto di governi automatici e impersonali ma di governi di uomini seri e responsabili che siano capaci di dare luogo a un governo di leggi finalizzate alla risoluzione di gravi problemi economici reali, ovvero non creati ad arte da attività o giochi speculativi sfuggenti ad ogni controllo politico, e al soddisfacimento almeno parziale e moralmente accettabile di non solo legittime ma doverose e non più prorogabili aspettative di redenzione umana, morale, economica e sociale. E’ tempo che l’etica e la politica abbiano un soprassalto di dignità perché nel codice etico-spirituale dell’umanità non è affatto previsto che ciò che è mezzo di vita per tutti, ovvero il denaro, possa o debba trasformarsi in fine primario di alcuni fondato sulla forzata privazione di molti. Perché è verissimo ciò che scriveva Giorgio Agamben, poco più di un anno fa: «se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese. Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’ archeologia – non la futurologia – è la sola via di accesso al presente» (Se la feroce religione del denaro divora il futuro, in “La Repubblica” del 16 febbraio 2012).

E insomma, per dirla in termini comprensibili in relazione all’Italia, il nostro debito pubblico è talmente patologico che la terapia da cavallo ad essa imposta dalla Troika non è sostenibile e quindi non deve essere sostenuta, perché se pareggio di bilancio e fiscal compact vengono di fatto implicando non solo l’immiserimento delle generali condizioni di vita della nostra nazione ma la persistenza di una disoccupazione giovanile galoppante e persino la non sopravvivenza fisica di migliaia o di centinaia di migliaia di persone, se quindi le perdite sono di gran lunga superiori ai vantaggi, non si capisce proprio per quale motivo si dovrebbe ottemperare senza batter ciglio ai vergognosi diktat usurai europei. Una politica finanziaria quale quella richiesta dall’Unione Europea non consentirebbe alcuna riduzione della pressione fiscale né riaprirebbe la strada ad interventi espansivi per esempio nell’ambito delle politiche industriali. Già essa ha provocato una fase di recessione, cui è seguita l’attuale fase di depressione, cui ineluttabilmente seguirebbe, se continuassimo ad assecondarla, una fase di vera e propria e definitiva disperazione.        

Certo, non ci si può illudere che la politica economica europea possa essere cambiata facilmente non solo perché le forze semiocculte che la sostengono fanno molto pesare i loro ricatti estorsivi sui popoli ma anche perché al momento non tutti i paesi stanno subendo i pessimi effetti dell’austerità e anzi alcuni se ne stanno ora avvantaggiando, pur senza capire che di questo passo non possono non venir compromessi e distrutti due beni fondamentali della civiltà europea, ovvero la democrazia e la pace. I fatti però sono quelli che sono e, se proprio bisogna litigare per cambiare le cose, è molto meglio farlo subito che non quando sia troppo tardi.

   Il punto di vista cattolico su questa materia è stato espresso efficacemente dall’economista Carmine Tabarro (Ridurre l’austerità e ripartire con la crescita, in “Zenit” del 24 marzo 2013), il quale ha osservato che «essere custodi della creazione», come si è espresso papa Francesco, «significa stare accanto agli altri con attenzione responsabilità e amore, prevedendo, provvedendo, farsi fratello dei più deboli, avere come meta il bene comune alla luce di Cristo. Questo concetto di custodire l’altro, di generosa responsabilità, sembra smarrito almeno in certi ambiti bancari e politici dell’Europa», per cui è probabile che la Chiesa sia sul punto di non considerarsi più “Chiesa europea” per riassumere e riaffermare la sua antica funzione di “Chiesa universale”.

Visto che le austere politiche economiche europee stanno producendo disastri in modo reiterato mettendo in pericolo la stabilità e il futuro dell’euro e le stesse democrazie europee, è evidente che all’Unione Europea manchi una visione d’insieme e che, ne sia o meno consapevole, essa stia portando avanti semplicemente un piano usuraio e criminale di prelievo sistematico di denaro e di prosciugamento di tutte le risorse economiche disponibili sul vecchio continente, operando significativamente delle discriminazioni tra paese e paese: e per esempio, tra l’Italia che dovrebbe rispettare i patti fiscali entro e non oltre il 2013 e la Francia che, pur avendo un deficit ben superiore ai parametri del patto di stabilità, si è vista concedere la possibilità di pareggiare il suo bilancio interno solo a partire dal 2017. 

Non solo la carità cristiana ma la stessa logica, argomenta giustamente Tabarro, vorrebbe che l’attuale superiorità economica di cui oggi dispongono, per effetto dell’andamento dei mercati, i Paesi nordici su quelli mediterranei si traducesse in una disponibilità dei primi a prestare denaro a un bassissimo tasso d’interesse ai secondi per rilevanti investimenti industriali e finanziari di cui quest’ultimi appunto hanno un’assoluta necessità. Anche perché, se andrà crescendo sempre più un sentimento di ostilità fra nord e sud d’Europa, non si rischierà forse di precipitare in una situazione storico-politica simile, se non analoga, a certe situazioni del recente passato da cui sono scaturite guerre fratricide tra i popoli europei?

Non è che ci si possa limitare a condannare i crescenti populismi ed estremismi europei, che sono peraltro il fedele riflesso del bisogno oggettivo dei popoli di difendersi dalla politica criminale che stanno subendo, ma almeno come cristiani non ci si può non domandare «se abbia ancora senso un’Europa aggrappata soltanto alla moneta che non sa più guardare avanti, mentre una parte importante del continente sta vivendo una decrescita sempre più infelice. Come cristiani non possiamo non essere preoccupati della crisi sistemica che stiamo attraversando; inoltre siamo, per le nostre radici sostenitori dell’Europa, intesa come progetto a un tempo civile, valoriale e culturale che va oltre l’utilitarismo economicista. Un’Europa come l’attuale, politicamente frammentata, economicamente squilibrata, culturalmente segnata dal ritorno degli egoismi, dei particolarismi regionali e linguistici, poco attenta ai valori dell’etica del bene comune, sembra destinata a cercare di gestire una lenta e buia decadenza» (ivi).

Per i cristiani non esistono ragioni al mondo per le quali si possa concepire un’economia che non abbia al suo centro l’uomo e uomini specifici e concreti e in cui il denaro non sia funzionale al benessere di tutti e principalmente al benessere dei soggetti economicamente e socialmente più svantaggiati. Motivazioni del tipo: bisogna pagare il debito, bisogna onorare i patti, bisogna osservare gli accordi fiscali, bisogna pagare le multe in caso di infrazione, per i cristiani non hanno e non possono avere un valore assoluto e certamente non hanno alcun valore e alcun carattere di vincolo morale oltre che politico se o quando esse contravvengano ai precetti evangelici di fraterna condivisione, di uguaglianza, di giustizia anche e non solo sociale. 

Perciò, se l’economia viene realmente assolvendo la funzione di contribuire al bene comune sia nelle sue forme materiali che in quelle immateriali, essa potrà essere e sarà probabilmente ancora imperfetta ma pur sempre suscettibile di essere accolta e riconosciuta come un’economia sana e utile; altrimenti non potrà essere che malata e, com’è noto, se non ci si allontana o non si guarisce dalle cose malate si va incontro alla morte.

E’ in un’ottica del genere che banche e finanza dovrebbero trovare la loro giusta collocazione, come sottolinea ancora Tabarro in un suo recente volume (Dalla società del rischio all’economia civile, Pardes 2010), e svolgere un ruolo importante come quello svolto storicamente dai Monti di Pietà dei francescani che furono il primo esempio di banca popolare. L’economia dev’essere civile e a fondamento di un’economia civile «vi sono la reciprocità e la felicità relazionale, ovvero la felicità che può essere goduta solo con gli altri e insieme agli altri» (ivi), ciò che comporta una notevole distanza rispetto a logiche puramente strumentali e a teorizzazioni pseudoeconomiche che, per lungo tempo applicate, hanno riconosciuto «ai manager d’impresa l’unica responsabilità di far guadagnare quanto più possibile agli azionisti, sviluppando un sistema fondato sulla crescita esponenziale delle disuguaglianze, fra persone e fra popoli» (ivi). I cristiani non possono aderire a modelli di agire economico che non presentino un chiaro ed inequivocabile valore sociale. Se l’economia, anziché rendere prospera la vita sociale, la inaridisce e la distrugge, vuol dire che ha incorporato in sé qualcosa che non ha a che fare con l’economia correttamente intesa quale servizio sociale ma solo con una forma deteriore di economia qual è quella che punta non a servire ma a dominare sulla società.

Se è vero che nel mondo globalizzato non può darsi etica senza economia è altrettanto vero che in esso non può darsi economia senza etica e senza un’etica quanto più possibile comunitaria e giusta. Questo è l’unico parametro da cui i cristiani e i cattolici non possono e non devono mai derogare.

Economisti italiani “non allineati” su euro e debito pubblico

Pare che non tutti gli economisti italiani abbiano creduto o continuino a credere nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea e della moneta unica su cui essa si fonda, ovvero l’euro. Dico “pare”, un po’ seriamente e un po’ sarcasticamente, perché a dire il vero, specialmente nell’ultimo biennio, i media hanno veicolato ossessivamente quella che è stata presentata come la tesi di gran lunga maggioritaria della scienza economica più accreditata sul piano internazionale e consistente nel ritenere che non ci fossero alternative possibili o realmente desiderabili né all’Unione Europea né all’euro né alle politiche europee di austerità. Ora invece, dinanzi all’emergere sempre più chiaro di nodi molto ingarbugliati della politica finanziaria europea e dei disastri economico-finanziari sempre più gravi che, dal punto di vista del “sociale” e dei processi produttivi, le severe ma insensate direttive di Bruxelles continuano a provocare, molti economisti italiani cominciano a rivedere le proprie posizioni, ad essere meno dogmatici, a ridiscutere il concetto di Unione Europea, battendo più sul tasto del rilancio dell’economia e della cosiddetta crescita con l’auspicata apertura dei rigidi rubinetti finanziari della BCE e della Commissione europea a favore degli Stati più “virtuosi” o più “disciplinati”, che non su quello del rigore e della necessità di mettere completamente a posto i bilanci statali dei vari partners.  

Però, a parte i tanti pentiti dell’ultima ora che si danno da fare per dimostrare che essi in fondo anche prima qualche dubbio l’avevano sempre avuto e che le cose non si sono svolte esattamente secondo i loro schemi interpretativi, vi sono economisti che, da parecchio tempo a questa parte, hanno mostrato di non apprezzare il modo in cui è stata costruita l’Unione Europea, e di non fidarsi né dell’euro, né delle conseguenti e sempre più esasperate politiche di austerità imposte a tutti gli Stati membri. Solo per fare dei nomi tra i più prestigiosi: Giulio Sapelli, che è tra l’altro professore ordinario di storia economica presso l’università degli studi di Milano; Bruno Amoroso, italiano naturalizzato danese e allievo dell’economista di fede keynesiana Federico Caffè; Alberto Bagnai professore di politica economica a Pescara e in Francia.

Sapelli, nel corso di un’intervista rilasciata il 19 dicembre 2012 ad “Abruzzoweb” e intitolata “Andiamo incontro all’Iceberg. L’euro è una pazzia”, demoliva letteralmente la prosopopea europeistica ed euromonetaristica con argomentazioni chiare e rigorose. Quelli che seguono sono alcuni dei passaggi più significativi del suo ragionamento: «L’euro è una pazzia, non esiste nella storia dell’umanità una moneta creata prima dello Stato. Nel nostro caso, la moneta unica è affidata a meccanismi di regolazione incompiuti e di bassissima competenza tecnica. Fin quando abbiamo avuto una crescita, la debolezza dell’euro era attenuata, ma dall’arrivo della crisi e a causa delle differenze di produttività del lavoro e delle differenze delle bilance commerciali tra Paesi come la Germania in surplus commerciali e altri in deficit come Italia, Francia, Spagna, sono emersi tutti i limiti di questo esperimento mal riuscito. Non potendo più controbilanciare i limiti in un regime di cambi flessibili, come capita in tutto il mondo e come capitava all’Italia con la lira, perché bloccati nel regime di cambi fissi, ecco che ci troviamo in guai molto grossi. In definitiva, l’euro non doveva essere creato…Siamo sull’orlo del baratro, il Titanic continua ad andare contro l’iceberg. E le sterzate decisive sono state evitate. È mancato, per esempio, un regolamento bancario transatlantico, quindi euro-americano…. Ai tedeschi andava bene, gli italiani invece non se ne sono occupati, ma adesso in Germania si accorgono che un controllo bancario unificato farebbe scoprire le immense quantità di asset tossici contenute nelle banche tedesche. Secondo alcuni studi, nell’elenco delle banche più a rischio, la prima al mondo è la Deutsche Bank, laddove la statunitense J.P. Morgan è tredicesima. Con lo scoppio dei nazionalismi e in un clima molto teso, pieno di difficoltà economiche ed elettorali di grande portata, non si riesce a fare ciò che va fatto: riformare la Banca centrale europea, che si ostina a portare avanti una debolissima politica antideflattiva. E la crisi industriale è appena cominciata».

Certo, bisognerebbe riformare la BCE, ma bisognerebbe riformarla non con dei semplici correttivi o aggiustamenti bensí radicalmente, ovvero inglobandola in uno Stato europeo che le detti legge e non che si faccia da essa dettar legge. Tale Banca infatti è nata da un errore madornale originario che sconfina nella pura e semplice criminalità, vale a dire il consentire che essa nascesse come un’istituzione di diritto pubblico (e quindi con funzione pubblica) ma costituita da istituti bancari privati, detenuta da banche private (perché anche le Banche Centrali di ogni Paese membro dell’UE, pur essendo pubbliche, sono a larghissima partecipazione privata), comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all’euro. LA BCE, in sostanza, ha la struttura di una società per azioni, che come ogni società per azioni mira a massimizzare i profitti degli azionisti e non certo i benefici dei o per i cittadini, e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica.

Tale colossale società per azioni ha tutto l’interesse, in vero, a creare “debito pubblico” perché maggiore è il debito, maggiore è il profitto, e appaiono del tutto giustificati i rilievi che faceva qualche tempo fa Cristiano Magdi Allam: «Questa “fabbrica del debito” si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati il 19 luglio dal nostro Parlamento: cosí ci siamo ormai autocondannati ad essere indebitati a vita. Ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l’Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili. D’ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale.
Siamo ad un bivio epocale: salvare l’euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la “fabbrica del debito”, emessa a parità di cambio con l’euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena dritta».

         Tuttavia, benché la creazione dell’euro, per i modi in cui è avvenuta, si sia rivelata, a parte la Germania e qualche nazione nordeuropea, una iattura per gli Stati e i popoli europei, Sapelli ammonisce a non sottovalutare le conseguenze catastrofiche di una possibile uscita dall’euro, perché in effetti «uscire dall’euro sarebbe una catastrofe per le classi più basse, come gli operai e in generale chi vive con un reddito da lavoro. Forse, i commercianti riusciranno a salvarsi fin quando troveranno qualcuno disposto a comprare un prodotto pagandolo cinque volte di più del prezzo reale, ma gli altri annegheranno. Se guardiamo alla Grecia, possiamo affermare con certezza che è di fatto crollata, è come se fosse già uscita. Ecco perché per salvare il sistema va riformata innanzitutto la Banca centrale europea, cambiandola sul modello della Federal Reserve degli Usa. E poi, riformare anche il parlamento che sicuramente sconfiggerebbe la politica della signora Angela Merkel, anche se non credo si farà in tempo. Molti anni fa, purtroppo, i cambiamenti arrivavano dalle guerre. Oggi non più. Allora, si deve sperare di riuscire a cambiare senza traumi. Mi fa ridere chi oggi parla di un parlamento europeo che non conta niente. Dove sarebbe la novità? Si accorgono soltanto adesso che le leggi in parlamento vengono approvate da una commissione piena di commissari e ambasciatori non eletti? Gli Usa e l’Inghilterra lo sapevano, per questo non si fidano più di un continente ormai privo di democrazia».

E, per quanto riguarda in particolare l’Italia, come dovrebbe comportarsi, dopo le elezioni del febbraio scorso, il nuovo governo, alla luce del fallimento del governo Monti? Questi i suggerimenti dell’economista piemontese: «Dopo Monti non cambierà nulla. Certo, tutto può rivelarsi migliore di Monti, ma è necessario un governo di unità nazionale che si impegni a iniziare una politica anti-deflattiva che comprenda una piccola inflazione capace di tirarci fuori dal debito, perché il debito non è il nostro problema, ma l’unico modo che abbiamo per salvarci. E, puntando all’Europa, legarsi bene al Ppe e al Pse».

Anche sul famigerato “debito pubblico” Sapelli viene proponendo un’analisi molto diversa da quella solitamente propagandata dai media. Dopo aver premesso che le tasse patrimoniali, pur necessarie e da applicare secondo criteri di progressività, non dovrebbero sfondare livelli di moderazione per evitare che i capitali scappino via laddove l’Italia «ha un gran bisogno di capitali», egli contesta che sia giusto considerare il debito pubblico «come la peste»: «Non scherziamo. L’oligopolio finanziario mondiale non colpisce il debito pubblico, ma l’assenza di crescita. Il Giappone ha il 280 per cento di debito pubblico, la Spagna del default il 75,8 per cento. Vogliono farci credere agli spauracchi, questa è la verità». Per Sapelli, dunque, la soluzione sarebbe nella ripresa della tanto invocata seppur in vero molto problematica “crescita”, che può essere favorita soltanto tornando a fare investimenti pubblici e privati, riaprendo i rubinetti bancari per la concessione di crediti necessari in particolar modo a piccole e medie aziende e alle famiglie, e riattivando i processi produttivi ora pressoché fermi sia per tornare a creare la ricchezza nazionale sia per far ripartire il consumo senza il quale non è possibile produrre se non in misura molto modesta.

Anche il professor Bruno Amoroso prende di mira l’euro e il governo Monti. In un’intervista pubblicata in “Focus” in data 4 dicembre 2012 e intitolata “La nostra rovina: l’euro”, egli, riproponendo posizioni critiche maturate all’indomani della UE, è tornato a schierarsi nettamente contro l’Europa della moneta unica: «L’Euro è un’idea folle che sta portando povertà su larga scala. Il rischio di rivolte sociali è molto elevato, se non si cambia rotta si può finire male». Dopo aver ricordato che l’euro fu istituito non già per motivi economici ma per motivi politici o meglio per «uno scambio politico», e più esattamente «per l’insistenza dei francesi che preoccupati per la riunificazione tedesca pensavano di poterne controllare il peso e il ruolo con una moneta unica», mentre dal canto loro «i tedeschi accettarono la moneta unica come forma di scambio per ottenere il consenso francese e degli altri paesi alla loro annessione della Germania Orientale dentro il sistema dell’Unione Europa», egli ha osservato che tuttavia proprio «i nodi di questa azzardata operazione, ossia una moneta senza uno Stato o istituzioni comuni adeguate al compito, sono venuti al pettine. L’insufficienza dell’euro rispetto alle speculazioni finanziarie dalle quali ci doveva proteggere è oggi evidente. La protezione si è trasformata in trappola e la speculazione, associata al potere economico assunto dalla Germania, che non è un partner cooperativo come immaginato dai padri dell’Europa, ma un soggetto competitivo e aggressivo, sta strangolando i Paesi dell’Europa del Sud e del Mediterraneo».

In effetti, la funzione dell’euro di proteggere dalle turbolenze delle speculazioni finanziarie si è rivelata molto più teorica di quanto pensassero gli economisti che hanno lavorato alla sua introduzione. Come ha ancora osservato Amoroso: «La cosa…non poteva durare. Oggi le crisi finanziarie mettono a nudo l’insufficienza di uno strumento che è diventato un mezzo di controllo delle economie. Lo strangolamento dei Paesi del sud, non solo d’Europa, è sotto gli occhi di tutti. Quello che oggi si sta avverando è il compimento di un piano di ‘apartheid globale’ messo in opera dal 1971 con l’avvio della Globalizzazione e del quale Mario Monti in Italia e Mario Draghi in Germania sono gli esecutori testamentari per le nostre economie. Quello a cui stiamo assistendo non è il fallimento della Globalizzazione, delle politiche neoliberiste e della finanza, bensí il loro realizzarsi nella forma più piena e più bieca. Anche le guerre in corso sono espressione di questo potere per disciplinare, oltre all’Europa e agli Stati Uniti, anche le economie asiatiche, africane e latioamericane. Ma la vittoria in casa si scontra sempre di più con i fatti oggettivi e le resistenze fuori casa, ed è l’espansione di queste aree e Paesi che possono far fallire questi nuovi piani di colonizzazione delle risorse mondiali».

Sarebbe stato del tutto normale ipotizzare che l’introduzione della moneta unica non preceduta dalla costruzione di istituzioni comuni e di un governo europeo avrebbe finito per determinare squilibri favorendo qualche nazione a danno di altre. Perché tale ipotesi non sia stata presa in attenta e seria considerazione, resta a dir poco un mistero: «più che nel paradosso, siamo nel mondo dell`assurdo: l’Europa ha pensato di avere una moneta e al posto del governo ha messo una banca. Governare 27 paesi europei mediante una banca, se non è uno scherzo, è una follia. Neanche la stessa moneta sembra funzionare bene. Basti pensare che i titoli in Euro dei paesi membri non hanno lo stesso valore sui mercati esteri. Di fatto funziona come se esistesse l’Euro-italiano, l’Euro-greco, l’Euro Tedesco e via discorrendo. Questi, però, hanno prezzi diversi. Non c`è quindi il rischio di tornare alle valute nazionali, ma di fatto questo avviene oggi quando si stima il valore delle valute mentre si insiste nella retorica della moneta comune e nel togliere ai vari paesi la sovranità sulle proprie politiche economiche».

Ogni politica e scelta economiche non possono funzionare se non in un rapporto serio e responsabile al problema dell’occupazione e delle concrete condizioni sociali di vita delle popolazioni e dei cittadini. In questo senso, la soluzione più intelligente e realistica sembra essere quella legata al «modello keynesiano di monete nazionali raccordate da rapporti di cambio flessibili concordati e da un patto di solidarietà che riequilibri i Paesi con un eccesso di surplus e quelli con un deficit forte. Io concordo con questa proposta», ha osservato Amoroso pur rilevando che «però il suo presupposto è l`esistenza di un accordo tra tutti i Paesi europei e dei rispettivi governi e questo mi sembra oggi alquanto difficile. Dieci anni di euro pesano», per cui adesso bisogna trovare «il modo di regolare l’economia per riequilibrare le forze in campo. Poiché i problemi sono stati creati nella zona Euro, è dentro questa che si deve trovare una soluzione di riequilibrio, creando due Euro (nord e sud) raccordati tra loro da un un rapporto di cambio fisso e un patto di solidarietà come sopra. Se non si fa questo, il rischio di grossi conflitti sociali è elevatissimo».

Ma non è affatto questa la soluzione e la prospettiva dei burocrati e degli esperti finanziari di Bruxelles e di tutti quei politici e media europei che continuano a spacciarne come vere e indispensabili le terapie fondate sostanzialmente su prelievi fiscali e finanziari ingenti e sistematici dalle economie nazionali europee più povere o segnate da un maggior grado di criticità. Costoro, infatti, continuano ad agitare il debito pubblico dei greci, degli italiani o di altri popoli dell’Europa meridionale, come la vera causa della crisi in atto, reiterando nei loro confronti l’accusa di «essere spendaccioni e altre sciocchezze. Le soluzioni, al contrario, esistono. A meno che non si voglia arrivare al disastro che si abbatterà sui nostri ceti medi, destinati all’ulteriore impoverimento, e al peggioramento delle condizioni di chi è già povero. L’esperienza insegna che quando i ceti medi si sentono aggrediti nella loro sopravvivenza, hanno una reazione violenta e si scatenano contro gli strati sociali più deboli come gli immigrati, il barista che non emette lo scontrino, i fannulloni. Una reazione alimentata dalle misure prese dal governo che fa della lotta all’evasione la caccia ai gruppi più deboli per sollevare il polverone che permette tranquillità ai ladri e ai veri speculatori, quelli della finanza e i loro portaborse della politica, invisibili. Mario Draghi, a capo della Banca centrale europea», questo è il giudizio impietoso ma obiettivo di Amoroso, «ha un ruolo ben definito. Mario Monti in Italia segue la sua linea».

In effetti, «Mario Draghi, che non fa mai errori di calcolo, è stato messo lí, come nelle cariche precedenti che ha ricoperto al Tesoro italiano e alla Banca d’Italia, perché è un collaboratore della Goldman Sachs, una banca che ha rovinato milioni di persone. Da Draghi al premier italiano Mario Monti c’è un disegno preciso: andare a pescare nei risparmi degli italiani e impoverire il sud dell’Europa per conto di speculatori finanziari e vari gruppi di potere. Negli ultimi trent’anni hanno contribuito a privatizzare tutto. Pensare che dobbiamo convincerli a far bene è ingenuo, non lavorano per le popolazioni, ma contro. D’altronde, le politiche che Draghi sta perseguendo, ossia distribuire fondi ai suoi amici delle grandi banche invece di riattivare i flussi del credito produttivo per imprenditori e famiglie, sta lì a dimostrarlo.

Molti italiani ancora sbraitano contro l’ex premier Silvio Berlusconi. Benedicono lo stile-Monti, sobrio e concreto. In piazza si festeggiava la cacciata del primo, in realtà voluta dai mercati, senza conoscere ciò che avrebbe fatto il secondo, messo a capo del governo con uno scopo ben preciso. I veri potenti sono aiutati dai mass media nella gestione del caos politico ed economico. Federico Caffè, nel lontano 1972 in un piccolo saggio parlò di ‘strategia dell’allarmismo economico’. La crescente concentrazione finanziaria che stava nascendo negli Usa era evidente, lo stesso Caffè diceva che la concentrazione di potere sarebbe stata legittimata dall’allarmismo economico creato ad arte. Negli ultimi dieci anni i polveroni politici in Italia ci sono stati, alcuni hanno anche un fondo di verità, ma per il resto sono stati ingigantiti e sfruttati per nascondere e fare ben altro.

Appare strano che dopo le gigantesche speculazioni e gli arricchimenti illeciti a cui abbiamo assistito, nessuno sia stato indagato. Il conflitto di interessi riguarda veramente solo Berlusconi? Certo, qualche reazione, anche se isolata, c`è stata, ma è poca cosa: un giudice di Trani…, ha aperto un procedimento contro una società di rating, mentre il Tribunale di Pescara ha invece condannato per frode Mario Draghi in quanto dirigente della Goldman Sachs per l’Europa. Draghi, per la cronaca, ha patteggiato. A parte questi casi isolati, però, nessuno si è sognato e si sogna di toccare i veri responsabili di quello che accade».

Questa è la realtà. E continuare a ragionare come se invece la verità fosse altra e diversa può solo aggravare la situazione economica dei paesi in difficoltà ed accrescere dovunque la conflittualità sociale suscettibile di esplodere prima o poi in forme di violenza popolare che non potranno più essere arginate dalla martellante ed ipocrita campagna dei media contro la violenza e finalizzata a garantire la cosiddetta unità nazionale degli Stati che, a quel punto però, sarebbe unità di cittadini-schiavi e incapaci di reagire alla dittatura planetaria della finanza internazionale sempre più gonfia di interessi illeciti e di attività delittuose. 

Tali analisi sono condivise dal terzo economista, di cui qui ci si vuole occupare, ovvero il professor Alberto Bagnai che però, diversamente da Sapelli e Amoroso, propende decisamente per una uscita preparata per tempo dell’Italia dall’euro. Sulla base di alcune importanti indicazioni di importanti economisti come Krugman e De Growe, egli riteneva già molti mesi or sono che l’Italia avrebbe dovuto decidere di lasciare la moneta unica prima che fossero i mercati a imporglielo  [Il teorico (serio) del partito antieuro: “Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile, in “Il Fatto Quotidiano” del 18 giugno 2012]. Proprio per salvare l’Europa e non per distruggerla, egli diceva, occorre sbarazzarsi dell’euro. A coloro che si ostinano a ripetere che l’euro non c’entra e che tutti i nostri guai sono dovuti alla crisi dei debiti sovrani, egli ha replicato cosí: « I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano cosí. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Gli squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla moneta unica, cosa ormai riconosciuta anche dal Fmi, che hanno portato all’accumulazione di debito privato».

Ma perché debito privato, gli è stato chiesto; non è di debito pubblico che si tratta? La risposta è la seguente: «Spiego: se un paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta cosí a debiti verso l’estero, prevalentemente privati. Ma perché il resto del mondo continua a far credito? Semplice: per finanziare la vendita delle proprie merci. E’ banalmente il meccanismo in atto tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso i paesi periferici. Certo, a valle il problema è costituito dai debiti pubblici. Ma a monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie, per via della storia del too big to fail. E ora il debito è pubblico». E a chi gli ha fatto osservare che economisti come Giavazzi e Alesina abbiano rilevato che però la colpa di quel che è successo sarebbe pur sempre nostra per non aver fatto le necessarie riforme, Bagnai replica: «Forse potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, però è anche vero che nei primi anni il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, ci sottraeva domanda estera: se avessimo diminuito anche quella pubblica saremmo cresciuti ancora di meno».

Ma non è forse vero che in Germania, dove le riforme sono state fatte, va tutto bene e riesce a vendere anche in Cina? Anche a questa obiezione Bagnai risponde che «intanto non è vero, perché la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Invece è migliorata coi paesi dell’Eurozona, con noi. Questo perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, quella che oggi viene chiesta a noi: non va dimenticato, però, che la Germania per assorbirne il costo sociale fu costretta a violare per prima il Patto di stabilità, sussidiando una pletora di sottoccupati (e quindi, indirettamente, il suo sistema industriale). Ma ora a noi chiede austerità, mentre occorrerebbero politiche di rilancio dell’economia, come riconosce anche l’International Labour Office delle Nazioni Unite».

Ma come sarebbe a dire che le riforme in Germania si sarebbero tradotte alla fine in una compressione dei salari, visto che l’operaio tedesco guadagna il doppio dell’operaio italiano? «In Germania», è la risposta, «non c’è solo l’operaio strutturato e non c’è solo la Wolkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job… Risultato: dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5%». Ed è del tutto evidente, per tutto ciò che è stato detto sopra, che l’euro favorisce solo o principalmente la Germania e i paesi del nord-Europa che anzi resteranno strenui paladini della moneta unica sino a che le regole monetarie non cambino nei rapporti complessivi tra gli Stati europei. Per cui, per quanto doloroso, sarà inevitabile che l’Italia esca dall’euro e sarebbe preferibile gestire questo processo anziché subirlo. Sarebbe un grave errore identificare l’Europa con l’euro perché l’euro «è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà anche dopo».

A chi, come per esempio Pier Luigi Bersani, teme che questa prospettiva sia catastrofica e che, con il ritorno alla lira e la sua svalutazione, la nostra antica moneta nazionale sarebbe cartastraccia, Bagnai ancora una volta risponde: «Si fa molto terrorismo, ma di fatto nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Cosí è successo in Argentina, cosí successe anche all’Italia quando uscí dallo Sme nel 1992. Nel caso attuale, la svalutazione sarebbe attorno al 20%», anche se questo non implica necessariamente che, nel caso in cui uscissimo dall’euro, ci troveremmo con un 20% in più di inflazione, dal momento che «tutti gli studi negano ci sia un rapporto diretto tra svalutazione e inflazione: sempre a stare agli studi scientifici, è lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti (non certo 20!)…è bene ricordare che nel ’92, dopo una svalutazione del 20%, l’inflazione scese dal 5 al 4%».

Purtroppo, ha dichiarato Bagnai dopo aver visto all’opera per alcuni mesi il governo Monti, questo governo compie «delle scelte tecnicamente sbagliate, che mettono in visibile difficoltà il paese, applicando a noi le ricette che non hanno funzionato in America Latina negli anni ’80 e ’90», là dove il PD è complice diretto di questi errori benché ipocritamente dica di volersi battere per introdurre elementi di maggiore equità sociale nelle leggi del governo: «La fiducia nel mercato di certa sinistra è commovente: nessuno sfrenato pensatore liberale e liberista ne ha altrettanta. Però quando la sinistra aderisce a politiche di forte destra, alla fine succede solo una cosa: vince la destra». E infatti, proprio per evitare che vincesse la destra finanziaria e burocratica della Unione Europea, il popolo italiano, alle ultime elezioni politiche del 2013 ha votato soprattutto a favore del Movimento 5Stelle.

Ma, se gli economisti che sono stati passati in rassegna non sono “allineati”, nel senso che essi sono venuti elaborando delle diagnosi molto più problematiche e dubbiose di quelle sbandierate all’insegna di un apparente ottimismo dagli apologeti del sistema europeo e della sua moneta unica, va notato che anche prima dell’inizio degli anni 2000 non erano mancati economisti che, senza essere profeti, avevano saputo vedere i pericoli sottostanti alla decisione politica dei governi, non adeguatamente sottoposta al vaglio pubblico dei cittadini, di costruire una Unione Europea, con la sua Banca Centrale e la sua moneta unica, senza che essa fosse preceduta da un vero e proprio Stato europeo dotato dei pesi e dei contrappesi di cui ogni Stato democratico e parlamentare deve poter disporre.

Guido Carli aveva detto: «Il perseguimento dell’unione monetaria con forte anticipo sull’integrazione delle economie può danneggiare alcune di esse e non consente una distribuzione fra i paesi membri dei vantaggi e degli svantaggi connessi con il processo di unificazione. L’integrazione riguarda i fattori produttivi, le istituzioni in cui tali fattori sono organizzati, le norme che ne regolano e ne promuovono la circolazione, i prelievi fiscali e previdenziali, i trasferimenti di reddito compensativi. Senza l’integrazione delle economie, la rinuncia dei paesi membri all’uso autonomo del tasso di cambio e degli altri strumenti di politica monetaria può danneggiare alcuni di essi» (Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, 1971).

Il noto economista del Massachusetts Institute of Technology di Boston, Rudiger Dornbusch, osservava: «La critica più seria all’Unione monetaria è che, abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio, trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi (…) Diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia», e poi: «Una volta entrata, l’Italia, con una valuta sopravvalutata , si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira» (Foreign Affairs, 1996), mentre il liberista Martin Feldstein, professore ad Harvard, pronosticava realisticamente che «invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa»,  non senza notare che «una caratteristica particolarmente critica dell’Unione monetaria europea è che non c’è alcun modo legittimo per i paesi membri di ritirarsi: l’esperienza americana durante la Guerra di secessione del Sud fornisce alcune lezioni sui pericoli di un trattato che non offre via d’uscita. Le aspirazioni francesi all’uguaglianza e quelle tedesche all’egemonia non sono compatibili: gli effetti economici avversi di una moneta unica controbilancerebbero abbondantemente qualsiasi guadagno che si otterrebbe dalla facilitazione del commercio» (Foreign Affairs, 1997).

D’altra parte, Dominick Salvatore, economista della Fordham University di New York, rilevava che «muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’Unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale e l’atteggiamento della Bce, che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri» (American economic review, 1997). E addirittura profetico era il giudizio di Paul Krugman, professore a Princeton, premio Nobel per l’economia: «l’Unione monetaria», diceva, «non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania, per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro» (Fortune, 1998).

Ma, fra i critici più lungimiranti dell’Unione Europea e della moneta unica, va incluso anche quel Bettino Craxi, che per quanto politicamente e umanamente sfortunato, aveva intuito, come risulta da un’intervista del 1997, che «si presenta l’Europa come una sorta di paradiso terrestre, ma per noi nella migliore delle ipotesi sarà un limbo e nella peggiore un inferno. Bisogna riflettere su ciò che si sta facendo: la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht». Proprio cosí: bisognerebbe rinegoziare, quanto meno, non solo i parametri di Maastricht ma anche il trattato di Lisbona in vigore dal 2009 e l’intera costruzione europea.

Mattia Lanternino Scolopio

Il popolo greco e noi

Circa due settimane or sono un noto accademico italiano descriveva la crisi economica della Grecia definendola senza mezzi termini come una vera e propria “crisi umanitaria” ed esprimendo giustamente un severo giudizio sull’indifferenza europea alle sofferenze del popolo greco (E. Galli della Loggia, La Grecia allo stremo in un’Europa indifferente, in “Corriere della Sera” del 2 febbraio 2013). Egli non mancava di sottolineare che quella crisi era stata determinata in notevole misura dall’irresponsabilità della classe dirigente greca: «per la corruzione, gli sperperi, l’evasione fiscale, l’inefficienza dello Stato, il clientelismo, che essa ha favorito e di cui ha goduto», benché gran parte della popolazione ne fosse stata complice traendone dei vantaggi. Ma subito dopo concentrava la sua attenzione sullo stato attuale della popolazione greca e scriveva: «questa popolazione sta precipitando in uno stato di disagio, spesso di vera e propria miseria, che sembra riportarci drammaticamente indietro nel tempo. Il 50 per cento dei cittadini greci vive sulla soglia della povertà o al di sotto di essa. Si calcola che 9 greci su 10 abbiano ormai cancellato le spese per il vestiario e le calzature». Il prezzo del combustibile, cosí continuava la sua descrizione, è salito alle stelle con la conseguenza che moltissimi impianti di riscaldamento non possono più essere accesi, i generi alimentari scarseggiano e possono essere acquistati a prezzi altissimi, l’acquisto del latte per i bambini è sempre più problematico e non è un caso che di tutti i paesi dell’Ocse la Grecia sia al primo posto per quanto riguarda il numero di bambini sottopeso, i greci infine rischiano letteralmente di morire a causa di tagli inimmaginabili e assurdi praticati sul sistema sanitario.

Tutto questo succede non «in una remota contrada dell’Africa o dell’Asia» ma «nella nostra cara Unione europea». Ed è qui che l’accademico citato lanciava il suo appassionato e sdegnato j’accuse: «ma che razza di unione è quella i cui membri, in gran parte, assistono nella più totale indifferenza alla sorte sciagurata che sta toccando ad un’altra e sia pur minore parte? Capisco il fiscal compact, infatti, la troika, e tutto il resto, capisco gli strettissimi vincoli che Bruxelles ha imposto al bilancio greco per tenerlo in carreggiata, ma è possibile che l’Europa cristiana e socialdemocratica — compassionevole e solidale come si conviene a chi si dice tale — che l’Europa cristiana e socialdemocratica i cui rosei e ben curati volti, le cui eleganti flanelle e i cui inappuntabili gessati ci allietano ogni sera alla Tv in presa diretta da qualche Commissione o da qualche Eurogruppo, non abbia da dire (e fare) nulla? Chessò: lanciare una campagna di raccolta fondi tra i cittadini dell’Unione, un invito alle organizzazioni umanitarie, alle Croci Rosse del continente perché mandino aiuti ad Atene, decidere una decurtazione del dieci per cento degli stipendi degli alti euroburocrati della durata di tre mesi per acquistare un po’ di latte, insomma qualcosa? Possibile che centinaia di milioni di europei gonfi di cibo assistano imperturbabili allo spettacolo di pochi milioni di greci sull’orlo della fame? Lo ripeto: che razza di Unione europea è mai questa? Ed è ammissibile che a porre un tale interrogativo debba essere un giornale, solo un giornale?» (Ivi).

E’ una protesta sacrosanta, giustissima, doverosa. E’ grave che l’Europa cristiana e socialdemocratica cui si fa riferimento non avverta la necessità di mobilitarsi concretamente, in base a princípi di fraternità e solidarietà, a favore del popolo greco, anche se proprio tale immobilismo etico e politico denota forse un evidente deficit di fede cristiana e di sensibilità socialdemocratica e quindi un’esistenza puramente nominale di un’Europa cristiana e probabilmente nominale di un’Europa socialdemocratica. E non è certo ammissibile che sia solo un giornale, quello su cui scrive Galli della Loggia, a porre la domanda:  “che razza di Unione europea è mai questa?”.

Solo che la domanda non solo è retorica in sé ma è originata da un pensare e da un sentire puramente retorici, ovvero piuttosto deboli sotto il profilo logico e storico-politico, dal momento che, come si è visto, nonostante il grande slancio solidaristico, Galli della Loggia dice comunque di capire «il fiscal compact, la troika, e tutto il resto», ivi compresi «gli strettissimi vincoli che Bruxelles ha imposto al bilancio greco per tenerlo in carreggiata», vale a dire tutto quello che in realtà costituisce la principale causa della condizione di disgrazia e di miseria in cui è precipitato il popolo greco.

Bisogna certo aiutare chi è in difficoltà ma non si può aiutarlo solo pietisticamente bensí sforzandosi di sradicare le cause reali che hanno prodotto il suo stato di miseria e di asservimento. Sí, perché un popolo è certamente dissennato se spende e spande, se sperpera la sua ricchezza e i suoi beni, ma in nessun caso e per nessun motivo giuridico, economico, finanziario e politico, è lecito concedere che esso possa essere condannato nella sua interezza alla miseria, alla fame, al deperimento fisico-organico dei suoi membri, alla perdita della sua sovranità e della sua dignità: sia perché in realtà non è mai tutto un popolo che attua pratiche politiche, economiche e sociali dissipatrici e autodistruttive, ma solo piccoli gruppi élitari ai quali soltanto, per quanto eletti in rappresentanza di interessi sociali più diffusi, bisognerebbe chiedere conto del loro operato e comminare eventualmente pene adeguate, sia perché non è logicamente, moralmente e giuridicamente concepibile, se logica etica e diritto devono essere espressione di razionalità, che i criteri di calcolo, adottati da determinate oligarchie finanziarie internazionali per quantificare e fissare l’ammontare del debito pubblico di un popolo, possano essere cosí discrezionali e arbitrari da provocare addirittura l’inizio di una crisi umanitaria ancora più grave della precedente crisi economica e, per cosí dire, la progressiva decimazione di un popolo a cominciare dai suoi elementi più deboli.

Ora, se uno (come Galli della Loggia) accetta l’Europa dittatoriale della finanza e degli istituti bancari internazionali, l’Europa feticisticamente attaccata alla moneta unica o euro, l’Europa formalmente comunitaria ma sostanzialmente egoistica degli Stati nazionali, ha veramente senso sdegnarsi per il fatto che oggi in Europa non si parli della Grecia allo stremo delle forze quasi a volerla rimuovere dalla coscienza politica europea? Se non ci si rende conto che delle oscure ma concrete potenze sovranazionali stanno tramando sempre più spregiudicatamente contro la libertà, il benessere e la sovranità di interi popoli, pur forse colpevoli di non aver saputo vigilare per tempo sull’uso e sull’amministrazione del denaro pubblico e su scelte governative reiteratamente funzionali al soddisfacimento di interessi non generali ma particolaristici, l’appello ad una mobilitazione cristiana e cattolica non rischia di trasformarsi in un appello troppo genericamente paternalistico, troppo sterilmente moralistico, troppo astrattamente umanitaristico, per poter incidere non tanto sulla sfera emozionale e sentimentale dei singoli o di ristretti gruppi di individui quanto proprio sui meccanismi oggettivi dei processi di espropriazione di massa oggi in atto, in misura sia pure diversa, in tutti gli Stati europei?

Certo che, nel frattempo, bisogna aiutare i greci a non morire, ma pensando al tempo stesso non solo ad assisterli bensí anche a liberarli (liberando contemporaneamente e preventivamente tanti altri popoli che potrebbero fare la stessa fine) dalla violenza di mercanti e banchieri internazionali senza scrupoli con annesse legioni di cortigiani e sostenitori specializzati. La fede cristiana produce necessariamente opere di carità ma le opere di carità sono efficaci e realmente gradite al Signore solo se compiute in uno spirito di radicale verità e quindi di radicale smascheramento del male e per fini sostanziali e non meramente propagandistici di giustizia. L’usura è immorale, è un reato, è un delitto? Se lo è, anche l’usura praticata da gruppi finanziari, banche, multinazionali e quant’altro, lo è, e non può né deve essere consentita. Questo il cristiano-cattolico ancor più del socialdemocratico non può non sapere e non può disattendere.

Sul web trovavo qualche giorno fa un articolo dal titolo significativo: L’Europa della vergogna nasconde la crisi umanitaria in Grecia. E’ forse utile citarne qualche brano: «L’Europa tace. Non vuole assolutamente riconoscere la crisi umanitaria greca causata dalle ricette che ha imposto ad Atene, come ad altri Paesi e perciò fa di tutto perché su questa storica vergogna cali il silenzio: i media in gran parte in mano a quei gruppi di interessi che hanno creato questa situazione si adeguano e danno versione ambigue ed edulcorate della situazione.

In Italia dove si vede chiaramente il risultato dell’applicazione delle medesime ricette imposte ad Atene, proprio non se ne parla, forse per non turbare la campagna elettorale a colpi di bugie e cagnetti di Scelta civica, un nome che grida vendetta già in sé. Anzi l’esecutore europeo per l’Italia, Monti, accusa Grillo di trascinare l’Italia verso la Grecia e fa finta di non vedere i guai che ha causato, compreso il calo ufficiale del Pil: un -2,7% nel 2012». A sua volta Grillo, che, benché fortemente limitato sul piano etico-culturale, ha saputo dare voce alle preoccupazioni e alle giuste proteste di buona parte del popolo italiano contro un’Europa economica e finanziaria che viene sempre più manifestandosi come inedito, terribile e vorace Leviatano mai pago di divorare le risorse economiche di individui e popoli, replica che è proprio un uomo come Monti ad aver già cominciato a trascinare l’Italia verso la Grecia, posto che l’attuale destino di stenti di questa grande e civile nazione resti comunque intollerabile, per mezzo di “manovre” tanto rigide ed irrazionali quanto dannose ai fini di una ripresa dello sviluppo economico e dell’occupazione giovanile nel nostro Paese.

La verità, per quanto non ammessa o non riconosciuta da soggetti come Monti e tutti i cosiddetti “bocconiani” che a lui fanno capo o si riconoscono sostanzialmente nelle sue posizioni, è che questi economisti di molto incerto valore scientifico coltivano l’intimo ed inconfessato convincimento che un punto di vista economico oggettivo e rigoroso possa anche giustificare il fatto che milioni e milioni di persone possano essere tartassate e spremuti a dovere da riforme economiche e fiscali particolarmente severe e pressoché insostenibili, quali quelle che già si sono tradotte e continuano a tradursi inesorabilmente nello smantellamento dello stato sociale e nella precarietà generalizzata, al fine di favorire il benessere senza limiti di determinate minoranze. Ma a rendere più pericolosa l’azione di questi signori, molto più attenti alle teorie economiche che non all’economia e alla vita reali delle persone, è l’insperato appoggio che, sia pure tra distinguo e precisazioni non sempre chiare e comprensibili, essi stanno ricevendo proprio alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 da parte del leader del partito democratico italiano.

Bersani, infatti, riferendosi polemicamente alle proposte di Grillo, ha dichiarato quanto segue: «Io temo che il disagio possa portare al disastro. Su di lui si sta convogliando il voto di quanti sentono disagio di fronte alla politica», ma le proposte di Grillo che «dice di voler uscire fuori dall’euro, di non voler pagare il debito pubblico, di lavorare venti ore alla settimana, non portano da nessuna parte» (in “Il Messaggero” del 22 febbraio 2013). Non portano da nessuna parte come se le sue proposte invece, intellegibili solo per pochi, portassero da qualche parte! E poi, rivolgendosi a esponenti e militanti del Movimento 5Stelle, li ha invitati a preoccuparsi della democrazia, ivi compresa quella interna al loro movimento, definito sprezzantemente ora antidemocratico, ora fascista, ora populista, ora velleitario e privo di esperienza politica, quasi che lui, con quella caricatura di “primarie” effettuate mesi or sono in casa PD e consentite proprio allo scopo di poterle utilizzare poi strumentalmente e demagogicamente, costituisse un inequivocabile e degnissimo esempio di spirito democratico!

Dall’alto della sua molto presunta sapienza democratica, egli ha infatti parlato in questi termini: «date un occhio alla democrazia, perchè c’è morta la gente per difenderla; se non c’è democrazia è un guaio e lí dentro non c’è un sistema democratico», dove però non si può non osservare che, pur volendo concedere in via ipotetica che nel movimento nascente di Grillo la democrazia non sia ancora perfettamente praticata, la gente, a dire il vero, è morta anche per difendere tante conquiste civili, economiche e sociali, senza cui non si dà vera democrazia, che proprio il PD, in virtù della sua ancora in atto e ambigua “modernizzazione”, ha contribuito vergognosamente nell’ultimo quindicennio ad annullare o a depotenziare.

Né appare più convincente Bersani quando afferma che il problema della democrazia interna non possa essere risolto in un rapporto diretto tra Grillo e la piazza: «La piazza è ambivalente. La democrazia è il confronto diretto e aver deviato da questo meccanismo, con Berlusconi che è inamovibile, ci ha portato nel baratro. Per questo voglio fare una legge sui partiti e su questo non pensiate che il Pd molli di un millimetro» (ivi). Frasi che, a prescindere dalla consueta enfasi demagogica e dalla gratuità del paragone di Berlusconi con Grillo, si dicono quando la piazza viene stabilmente occupata dagli avversari e se ne resta sempre più fuori!

Noi cattolici ci dobbiamo svegliare e, come testimoni della fede in Cristo e quindi anche in una società fondata sulla condivisione dei beni morali e materiali, non possiamo più dare il nostro sostegno a forze e a soggetti politici che si dichiarano sempre dalla parte del popolo proponendo però politiche ingannevoli e vessatorie finalizzate di fatto al potenziamento del grande capitale finanziario e al soddisfacimento di interessi privati sempre più ristretti ed esclusivi. Certo, domani il movimento di Grillo potrebbe deludere, ma oggi, anche per la ventata di entusiasmo e di speranza che è stato capace di portare nelle masse giovanili e in categorie più attempate di persone, è l’unica alternativa seria all’ineluttabile declino del nostro Paese e della stessa Europa. Vale forse la pena di fidarsi, sempre pronti domani a criticarne errori e prevaricazioni e a cercare, in Cristo, nuove e più genuine vie politiche di liberazione.

I cattolici si guardino da banchieri e mercanti!

Citazione

I «poteri forti» sarebbero il frutto di un’invenzione ossessiva che attraversa i secoli, almeno a partire dalla rivoluzione francese, e giunge sino a noi. Quindi, non è recentissima l’idea che “complotti” e “burattinai” decidano il destino di tutti gli altri mortali. Questo sosteneva Vittorio Messori in un’intervista rilasciata poco più di un anno fa («Non credono al Diavolo ma credono ai diavoli. Ridicolo!», Intervista di Alberto Di Majo a Vittorio Messori su “Il Tempo” del 21 novembre 2011): «La gente», egli diceva, «non crede più al diavolo ma ai diavoli. L`ossessione complottista, la ricerca ossessiva di chi sta dietro è un modo per compensare il bisogno istintivo di attribuire il male a qualcuno». L’ossessione dei “poteri forti” riempie sempre quel vuoto che si crea tutte le volte che una società viene coinvolta da una crisi strutturale particolarmente dura e devastante di cui non si riesce ad individuare perfettamente le cause: «E’ dalla caduta della societas cristiana che si va alla ricerca dei responsabili del male. Ovviamente vengono identificati i grandi colpevoli ma anche i piccoli, una sottospecie di colpevoli, come i massoni, i banchieri o l’Opus Dei». L’intellettuale cattolico si mostrava pertanto certo del fatto che quella dei “poteri forti” sarebbe una semplice fantasia popolare, una leggenda con cui si cerca di spiegare tutto quello che contrasta sistematicamente con i desideri e con i bisogni della gente e della società.

Ma che ci siano luoghi, salotti, abitazioni residenziali lussuose e appartate, in cui alcuni potenti del mondo si riuniscono periodicamente e segretamente per confabulare, ordire piani o tramare per il perseguimento di precisi interessi politici e finanziari, è vero o non è vero? Secondo Messori, anche questo è solo un “mito”, nel senso che i «salotti sono finiti negli anni ‘20-‘30. La storia è sempre la stessa: c’è un bisogno di oscuro, di diabolico» (Ivi). La Chiesa in generale probabilmente, come sostiene Messori, non è un “potere forte”, ma ciò significa forse che non possano esservi cardinali ed alti prelati che gravitano attorno a quei clubs esclusivi di rilievo nazionale e internazionale in cui si esprimono giudizi e si prendono spesso decisioni molto importanti per il destino stesso dei popoli? Ma, al di là del possibile coinvolgimento di uomini di Chiesa nei cosiddetti “poteri forti”, questi poteri esistono o non esistono oggettivamente?

Per esempio, dietro il governo Monti, se non la massoneria e il Vaticano, non ci sono quanto meno i grandi banchieri, gli attori della finanza che conta? La risposta è stupefacente: «Sa che le dico, magari fosse cosí. Questa crisi economica è stata certamente provocata dalle banche e da una finanza allegra o, direi meglio, irresponsabile. Allora a questo punto mi augurerei che dietro a Monti e ai ministri ci fossero quella grande finanza e quelle banche che hanno perso moltissimo in questi mesi. Se fosse vero, risolvendo la crisi per loro ne avremmo vantaggi anche noi» (Ivi).

Messori evidentemente non si rende conto di quello che dice: pensa che il punto decisivo di risoluzione della crisi siano ancora, malgrado tutto, la grande finanza e le banche, ovvero il grande capitalismo finanziario! Messori dimentica tra l’altro che la Chiesa cattolica, almeno sino all’età moderna, ha sempre denunciato l’usura, fondamento del capitalismo e degli istituti finanziari contemporanei, come pratica peccaminosa e peccaminosa non in quanto prestito a un tasso troppo elevato di interesse ma già in quanto prestito ad un interesse sia pure minimo. Oggi anche la Chiesa ha mitigato il suo giudizio sull’usura praticata da banchieri e mercanti di varia stazza, ma essa ovviamente non può e non potrà mai prescindere dalle inequivocabili condanne evangeliche e paoline dell’accumulo di ricchezze.

Quasi tutti i Padri della Chiesa e molti santi hanno giudicato illecito e immorale qualsiasi prestito ad interesse ritenendo che, per chi può, il prestito ai bisognosi sia nient’altro che un dovere evangelico. Il precetto evangelico è infatti: “prestate senza sperare di ricevere” (Lc 6, 35), il cui scopo tuttavia non sta tanto nel vietare di esigere un interesse proporzionato alle reali possibilità economiche di chi riceve quanto quello di stimolare la disinteressata spontaneità nel dare. Gesù non intendeva dire che il denaro non debba fruttare o che non ci si debba preoccupare di ricavarne degli interessi (si vede la parabola dei talenti) ma che esso debba essere prestato al bisognoso non per rovinarlo con interessi che non potrà pagare ma per aiutarlo a superare le sue difficoltà applicando interessi che sarà in grado di restituire con la somma ricevuta.

La Chiesa viene mitigando storicamente il suo giudizio sull’usura appunto perché essa viene approfondendo e acquisendo nel tempo, anche attraverso le sollecitazioni critiche della imperfetta ma importante riflessione calvinista sui concetti di usura e usuraio, il più profondo significato della lezione evangelica. E tuttavia, a parte la parentesi in vero abbastanza prolungata del “mecenatismo” pontificio (allorché i papi nel periodo rinascimentale non esitavano a farsi prestare denaro e a farsi quindi finanziare dai grandi mercanti usurai dell’epoca), durante la quale la condanna ecclesiastica e pontificia su usura e usurai venne non poco affievolendosi, non c’è dubbio che la Chiesa su tale tematica, preoccupandosi di tutelare più il povero o comunque chiunque fosse costretto a chiedere un prestito che non i ricchi possidenti che lo concedessero, avrebbe sempre mantenuto una posizione molto chiara e precisa: ancora nel 1745, con la enciclica “Vix pervenit”, Benedetto XIV ribadiva la condanna morale dell’usura, e da allora ad oggi, nonostante talune aperture o parziali aggiornamenti suggeriti dalla estrema complessità del mondo economico e finanziario contemporaneo, non si può certo dire che il magistero della Chiesa sia venuto mutando dal punto di vista rigorosamente dottrinario.

Oggi come ieri, per la Chiesa non è lecito né lasciare morire di fame il povero o il non abbiente (o lo stesso ricco che si trovi in un momento di grave difficoltà) né pretendere che l’uno e l’altro possano chiedere e ottenere un aiuto finanziario solo a condizione di assumersi l’onere di restituire il denaro ricevuto con l’aggiunta di interessi assolutamente insostenibili. Ecco perché non può non destare sorpresa e sconcerto che oggi una buona parte del mondo cattolico e della gerarchia ecclesiastica sia tentata di continuare a sostenere con un certo entusiasmo il governo di Mario Monti anche per la prossima legislatura. Possibile, è la domanda doverosa che occorre farsi, che l’autorevole esponente di clubs politico-finanziari cosí esclusivi quali la Trilateral Commission o il Gruppo Bilderberg, e influente consulente di potenti istituti bancari e compagnie multinazionali quali la Goldmann-Sachs e Coca-Cola Company, ispiri a tante anime dell’universo cattolico ancora più fiducia di quanta ne ispirasse il ricchissimo Silvio Berlusconi che, essendo iscritto alla più modesta Loggia massonica P2, aveva indubbiamente credenziali meno importanti di quelle di cui dispone l’accademico bocconiano? Possibile cioè che ricchi e potenti siano spesso percepiti ancora oggi dalla Chiesa come soggetti degni di fiducia e meritevoli di essere sostenuti in quanto candidati a ricoprire le più alte cariche di governo?

I cattolici “progressisti” delle Acli, i cattolici di “Comunione e Liberazione”, molti ex democristiani dell’Azione Cattolica, per non parlare della Comunità di Sant’Egidio del ministro Riccardi, e di importanti organi cattolici di stampa quali L’Osservatore Romano, Avvenire, persino Famiglia Cristiana, di solito più attento alle questioni economiche e sociali, che si sono praticamente allineati a giornali laici o laicisti e soprattutto sostenuti dal grande capitale finanziario come “Corriere della Sera”, “La Repubblica”, “La Stampa”: tutti hanno dato e sembra che vogliano continuare a dare un convinto sostegno a Monti e al suo possibile futuro governo. Poi, certo, ci sono anche i tradizionalisti cattolici, quelli che secondo un diffuso luogo comune sarebbero più vicini allo spirito del vangelo e alla vera e grande tradizione della Chiesa, ma costoro scuotono il capo solo temendo che il cattolico Monti sia in realtà un massone; per il resto se ne stanno zitti, completamente chiusi o indifferenti ai drammi del mondo e della famiglia umana: per loro è come se a contare fosse solo Cristo a prescindere dalle tragedie dell’umanità e dalle sue incombenti gravissime necessità di ordine materiale e spirituale. Il loro Cristo è esclusivamente il Cristo della sana ortodossia cattolica, della solenne liturgia canonica, della intransigente condanna della modernità, come se Cristo ancora oggi non operasse per salvare proprio la mondanità e la modernità dalle sue perversioni o degenerazioni.

Sta di fatto che il governo dei banchieri, imposto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale Europea oltre che dai mercati internazionali dominati dalle più potenti multinazionali, e pur avendo sin qui prodotto solo un peggioramento delle complessive condizioni economiche e sociali della nazione, continua ad essere molto gradito, sia pure tra qualche dubbio e perplessità, a molti cattolici ivi comprese le gerarchie ecclesiastiche: segno che il giudizio, sopra riportato, di Vittorio Messori è fondamentalmente condiviso dalla comunità cattolica. Eppure, per la parte migliore della sua stessa storia oltre che per un’immutabile esigenza di rigorosa fedeltà a Cristo, la Chiesa dovrebbe guardarsi dal sostenere esattori delle tasse, mercanti, banchieri.

Si dirà che Monti non è un banchiere in senso proprio, non è cioè un capitalista della finanza o proprietario di una banca, come lo è per esempio Mario Draghi (uno dei proprietari della Banca d’Italia), altro personaggio oggi osannato anche in sede politica. Tuttavia, egli, come è stato scritto, è «un tecnico dell’economia che gestisce i capitali finanziari ed è strettamente legato ai principali e spesso occulti centri mondiali della finanza e delle multinazionali, come testimoniano i suoi ruoli di dirigenza negli organismi politico-finanziari sopra indicati. E’ perciò un uomo del grande capitale, che senz’altro condivide il progetto di un unico governo mondiale dell’economia, preposto a favorire, se attuato, l’espansione totale e pressoché dirigistica del capitalismo dei consumi e del capitalismo finanziario a tutto il globo, cioè il trionfo completo della globalizzazione, con una conseguente accelerazione della tendenza alla massificazione completa dell’umanità, alla distruzione sistematica di tutte le differenze, le tradizioni culturali e le identità collettive, all’omologazione di uomini e popoli in tutti i posti della terra, allo sradicamento infine da ogni appartenenza che non sia quella del denaro e della merce. Naturalmente si tratta di un piano folle, perché si bassa sull’implicita convinzione che vi possa essere una crescita infinita in un mondo finito, e questo, con buona pace del grande capitale e dei suoi servi stolti, non è possibile».

E’ consapevole la Chiesa dei pericoli che essa contribuirebbe a far correre non solo al popolo italiano ma all’intera umanità qualora perseverasse nel diabolico errore, magari anche semplicemente con un atteggiamento ambiguo e ipocrita, di sostenere un altro esecutivo guidato da Monti? Com’è possibile che la Chiesa non abbia ancora compreso perfettamente che per soggetti umani come Monti solo l’economia o meglio una certa economia, e anzi la finanza più dell’economia, ha importanza? Uno che abbia la mentalità e la formazione prettamente teoricistica ed intellettualistica di Monti non potrà mai ritenere che la società possa funzionare e sia governabile attraverso un drastico ridimensionamento o una radicale regolamentazione di banche, borse, mercati, agenzie di rating e via dicendo. Uno come lui è troppo innamorato delle proprie teorie scientifiche per poter capire che la realtà è un’altra cosa e non si lascia comprimere in esse.

Uno come lui, inoltre, potrà sentirsi soggettivamente cattolico ma non potrà mai essere oggettivamente cattolico, giacché nel suo mondo la parola cristiana può solo assolvere il ruolo subalterno di assistere socialmente i “perdenti” del sistema, ovvero barboni, tossicomani, handicappati e disabili di ogni genere, disoccupati, vecchi improduttivi, extracomunitari senza lavoro. La Chiesa perciò si allontana dal suo stesso magistero se, lasciandosi tentare da calcoli di natura politica più che evangelica ed apostolica, tarda a capire che Monti, sia pure con i suoi modi apparentemente educati e gentili di comunicare e con quell’aria di persona dedita al bene esclusivo della propria patria, in realtà rappresenta Mammona.

Certo, c’è un problema: che, se la Chiesa comincia a predicare seriamente e con toni appropriati contro Mammona, rischia di vedersi togliere il microfono molto più bruscamente di come le viene tolto quando parla di bioetica, di eutanasia, aborto, divorzio, omosessualità. Ma è un rischio che rientra completamente nella sua missione che non consiste nell’annunciare cose “politicamente corrette” ma, il più delle volte, cose “politicamente scorrette”, perché le cose giuste e sante di Dio turbano profondamente uomini e donne che non abbiano fatto o non facciano esperienza spirituale di quella tagliente lama che è la Parola di Dio.

Il mondo, il mondo di destra, di sinistra o di centro, è disposto non solo ad accettare ma persino a valorizzare la Chiesa se dice cose gradevoli o non troppo traumatiche, come quando afferma in modo pseudosalomonico che bisogna stare vicini ai poveri ma al tempo stesso non bisogna invidiare i ricchi, che bisogna perseguire la giustizia sociale ma in forme che non spiacciano alla giustizia divina, che Dio è dalla parte degli oppressi pur essendo misericordioso verso tutti. La Chiesa invece è tenuta a far capire bene i suoi valori, a comunicare non retoricamente ma logicamente il significato e il peso specifico delle sue idealità e dei suoi insegnamenti. La Chiesa non deve preoccuparsi di essere tenuta in considerazione dal mondo e non deve temere di poter essere ricacciata nelle catacombe qualora si discosti eccessivamente da certe logiche mondane, tra cui certamente quelle che si pongono al servizio della sacralità del denaro, dell’individualismo libertario a sfondo edonistico o di un egualitarismo volgare e di maniera.

La Chiesa è luce del mondo se la sua luce abbaglia le consolidate certezze del mondo sino a farle vacillare, ed è sale della terra se il suo sale, e dunque anche il suo stesso modo e la sua volontà di comunicare, rende realmente appetibili ed entusiasmanti le prospettive della fede. Per essere “sale della terra” i cattolici non possono e non devono essere culturalmente subalterni. Comincino dunque a non lasciarsi sedurre dai seguaci di Mammona e dell’usura. Un allarme in tal senso era già stato dato tredici anni or sono dal cardinale Joseph Ratzinger: «C’è qualcuno che sta progettando un sistema rigido e inattaccabile per governare lo sviluppo del mondo. Organismi internazionali dall’indiscutibile autorità (Organizzazione Mondiale della Sanità, Banca Mondiale, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, UNICEF e altri) hanno messo a punto un nuovo paradigma che misura il valore delle persone in anni di aspettativa di vita, invalidità, morbilità al fine di valutare le priorità e mettere in atto, oppure no, i piani di aiuto in tutto il mondo. Applicando questi “nuovi criteri” si scopre che tutto diventa una questione di costo-rischio-beneficio. Perciò, chi è povero e malato riceverà meno aiuti; chi è ricco e sano riceverà maggiori cure. Per questo motivo, a questo punto dello sviluppo della nuova immagine di un mondo nuovo, il cristiano – non solo lui, ma comunque lui prima di altri – ha il dovere di protestare e di denunciare coraggiosamente la “grande trappola” per i poveri del mondo e la nuova schiavitù al servizio degli imperativi della mondializzazione e della globalizzazione» (“Presentazione” al volume di Michel Schooyans, Nuovo disordine mondiale, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000).

Già, perché la globalizzazione voluta dai “poteri forti” (che esistono realmente, con buona pace di Messori, e che tuttavia non potrebbero imporre i propri disegni se i popoli si ribellassero energicamente) produce modelli sociali esattamente antitetici a quelli che possono ricavarsi dalle parole di Gesù : «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». (Lc, 6, 20-21). E: «Guai a voi, ricchi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6, 24-25), dove è evidente che povertà e ricchezza si configurano come un problema di fede in quanto Gesù non volle vivere né nell’indigenza né tanto meno nella ricchezza ma in una condizione di povertà che è una condizione di vita in cui non si vive in modo agiato ma in cui si può vivere in modo dignitoso e che è diversa dalla condizione estrema dell’indigenza in cui si muore di stenti e spesso di disperazione.

Con Gesù non si scherza: chi vuole sperare di entrare nel suo regno deve imitare il ricco Zaccheo che non promise al Maestro di fare beneficenza ai poveri ma di volersi privare di metà delle sue ricchezze e di non voler più esercitare, a danno dei poveri, un’attività usuraia.

Ora, con un invito cosí autorevole e convincente come quello del cardinale Ratzinger, oggi pontefice della Chiesa cattolica, i cattolici oggi non dovrebbero avere difficoltà a negare il loro sostegno a banchieri e a mercanti, gli stessi che poi operano nell’ombra dietro i famigerati mercati, e ai loro delegati che vorrebbero attuarne in sede politica i piani costosi e sinistri per le popolazioni di tutto il mondo. Non dovrebbero avere difficoltà ma poiché, al contrario, di difficoltà ce ne sono tante, dobbiamo pregare ogni giorno il Signore affinché ai suoi fedeli dia la forza di tradurre in atti quotidiani il versetto del “Pater”: “sia fatta la tua volontà come in cielo cosí in terra”.

Le carceri, l’Europa e i cattolici

L’Italia ormai sembra destinata a perdere completamente la sua significanza statuale, la sua sovranità nazionale, la sua autonomia politica e governativa, la sua capacità di decidere nel rispetto e nei limiti della volontà espressa democraticamente dal suo popolo. Tutti sanno infatti che dal punto di vista economico- finanziario e fiscale la politica italiana è ormai da tempo al traino di quello che viene decidendosi altrove, in Europa e nel mondo Continua a leggere

Il montismo, la Chiesa e la responsabilità dei cattolici

La nota rivista gesuita “La civiltà cattolica”, tradizionalmente organica alla Santa Sede, in data 4 febbraio 2012 riservava uno straordinario elogio al prof. Mario Monti che aveva accettato di presiedere un governo “tecnico” fortemente voluto dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. In essa si osservava, alla luce del decreto montiano “Cresci-Italia” da poco varato, che «sarebbe sufficiente la realizzazione di un decimo soltanto del programma previsto per dover ringraziare il ‘Professore’ a motivo del lavoro che sta compiendo, anche sul piano internazionale». I provvedimenti varati da Monti e dal suo governo, si leggeva, erano attesi in Italia da oltre vent’anni e, benché necessari alla vita economica e sociale del nostro Paese, nessun partito politico italiano, per evidenti interessi elettoralistici e con nessuna attenzione al bene comune, era parso seriamente interessato ad attuare le riforme finalmente poste in essere ora dal governo tecnico. Anche l’“Osservatore Romano”, il quotidiano del Vaticano, avrebbe riservato a Monti in più di un’occasione il suo apprezzamento e, scorrendo i titoli dei principali giornali nazionali del 15 gennaio 2012, sembrava del tutto probabile che il professore della Bocconi godesse della stima dello stesso papa Benedetto XVI.

Ma è in un’intervista rilasciata da Monti a Radio Vaticana il 19 gennaio 2012 che già si manifestavano appieno le sue idee politiche che la Chiesa a tutt’oggi non solo non ha mai avversato ma ha implicitamente ed essenzialmente dimostrato di condividere. Egli qui premetteva che non era possibile in quel momento prevedere la fine della crisi economico-finanziaria e sociale in atto e che l’unica cosa certa da farsi era un inedito impegno tecnico-politico soprattutto a favore delle giovani generazioni afflitte sempre più «da drammi e deserti interiori». Questo inedito impegno, diceva Monti, doveva passare attraverso una politica economica rigorosa e capace di mettere a posto i conti oltremodo disordinati dello Stato, attraverso una strenua difesa dell’Unione Europea e dell’euro, attraverso una lotta senza quartiere all’evasione fiscale e ad ogni genere di spreco, attraverso il perseguimento del bene comune che si sarebbe dovuto anteporre al bene di parte o di gruppo.

Naturalmente tutto questo, precisava Monti, era necessario anche al fine di non gravare più irresponsabilmente «le generazioni future di un pesante fardello di debito pubblico prima ancora che nascano, perché ci sono – in una visione responsabile – dei vincoli posti proprio come regola di convivenza tra i Paesi che partecipano all’euro». E quindi aggiungeva, riprendendo un’espressione del papa, che «alla crisi, cittadini e Istituzioni non devono rispondere fuggendo come di fronte ai lupi, ma restando saldamente uniti» e che era tempo ormai di proporre misure non più clientelari ma razionali anche se dolorose per tutti, benché il loro principio ispiratore, in questo tempo di crisi e per motivi di equità, dovesse essere conforme a quanto aveva affermato il grande economista cattolico Giuseppe Toniolo e cioè che “Chi più può, più deve; chi meno può, più riceve”.

Adesso siamo quasi alla fine del governo Monti o almeno del primo governo Monti: è possibile riconoscere che tale governo si sia davvero ispirato alla nobile massima di Toniolo? Possiamo dire che il controllo fiscale da esso esercitato su migliaia di famiglie italiane non abbia alcunché di “vessatorio” e “iniquo”? Possiamo dire che la lotta pure energicamente intrapresa contro gli evasori fiscali abbia contribuito ad alleggerire la pressione fiscale nei confronti di tutti coloro che al fisco proprio non possono sfuggire e che pagano regolarmente le tasse? Non si sarà usata per caso la caccia agli evasori come alibi per una politica fiscale durissima ed indiscriminata, quella di fatto ancora adesso praticata, contro le famiglie in genere e contro semplici e umili lavoratori?

E’ proprio vero che, come pretendeva Monti nella sopradetta intervista, le liberalizzazioni da lui avviate o che avrebbe voluto avviare siano in realtà «un insieme di misure per introdurre nell’economia e nella società italiana, con una più sana concorrenza, maggiori spazi per il merito, soprattutto a beneficio dei giovani, degli esclusi»? E’ vero che, nel frattempo l’Italia è diventata un Paese più competitivo dimostrando di non voler «fuggire di fronte ai lupi della competizione internazionale», per usare sempre l’espressione dell’accademico bocconiano? Si può obiettivamente asserire che Monti abbia sin qui “liberalizzato”, con massicci tagli finanziari in tutti i comparti della nostra società (come la sanità, la scuola, la ricerca, le pensioni ecc.), per offrire veramente «benefici, risparmi e benessere a un numero più elevato di cittadini, senza per questo compromettere l’esistenza di nessuno»? In definitiva, Monti è stato capace di fare della società italiana, secondo quanto nell’intervista si riprometteva, «una società più aperta, più dinamica, più competitiva»?

Se le parole devono avere un senso, la risposta non può essere che una, e cioè che, come gli stessi indicatori economici e sociali stanno incontrovertibilmente a dimostrare, con Monti l’economia e la vita sociale italiane non solo hanno continuato a regredire ma appaiono per il futuro sempre più suscettibili di ulteriore arretramento e decadimento, anche perché il cosiddetto debito pubblico, cosí centrale nell’impegno politico-governativo montiano, nel frattempo non si è affatto ridotto ma ha continuato ad aumentare. Questi sono i fatti. E i fatti sono anche che Monti, che alcuni autorevoli esponenti dello Stato vorrebbero vedere a capo del prossimo governo nazionale, è, come si legge sul blog del capo politico del Movimento 5 Stelle, «un uomo di fiducia della finanza internazionale che sta facendo dell’economia italiana un deserto dei tartari» e che anche grazie a lui «l’Italia non è più una democrazia, ma una partitocrazia affiliata ai poteri economici internazionali».

A parte questo, per capire il modo di governare di Monti non si può prescindere dal suo modo di pensare, dalle sue teorie economiche, dalla sua concezione della democrazia, dalla sua stessa storia professionale. Ma come si potrebbe pretendere un miracolo di vero risanamento da un tizio che è stato sempre al servizio delle più potenti lobbyes finanziarie del mondo, come Bilderberg, Trilateral Commission, Aspen Institute Italia, Goldman Sachs, e che ha assolto un ruolo rilevante di european commissioner nella famigerata “Santer Commission” (1995-1999) sciolta per “frode, cattiva gestione e nepotismo” e più esattamente in qualità di responsabile di “Internal Market, Financial Services and Taxation”, ovvero dei flussi finanziari di cui egli era espertissimo? Il caso della “Santer Commission” si concluse senza l’individuazione di colpevoli certi, ma molti soldi allora sparirono e andarono a finire nelle tasche o nelle casse di soggetti mai identificati con esattezza. Oggi, mutatis mutandis, sembra ripetersi la stessa dinamica, perché le manovre finanziarie del governo Monti hanno prodotto l’effetto di togliere tanto denaro «dalle tasche degli italiani per finire nelle tasche dei soliti ignoti. Un’azione virtuosa di consolidamento delle finanze», ha scritto giustamente Antonio Miclavez sul sito “comedonchisciotte”, «ma non certo delle finanze degli italiani» (25 novembre 2012).

Tra nuove tasse esorbitanti imposte ai cittadini normali e tagli selvaggi nel settore pubblico, che non accennano affatto a diminuire, la sensazione sempre più forte che se ne trae è che i cittadini ormai debbano fare sempre più spesso da soli e che il welfare, il vecchio Stato sociale, sia destinato a passare irreversibilmente nelle mani dei privati per reggersi quasi esclusivamente sulle stesse economie familiari. Basta solo un dato per rendersi conto della portata delle cosiddette “riforme” varate dal governo Monti: il Fondo nazionale per le politiche sociali dai 923 milioni del 2008 passa a 44 milioni stanziati per il 2013. Già questo dato è sufficientemente indicativo di come siano risibili le reiterate rassicurazioni montiane circa il carattere non vessatorio delle manovre finanziarie.

La disoccupazione è galoppante, la corruzione è inarrestabile, le varie mafie sempre battute restano ancora vive e vegete, molte imprese chiudono gettando sul lastrico migliaia di lavoratori, la pressione fiscale cresce sino a farsi insostenibile, gli stipendi e i salari sono sempre più bassi e in ogni caso sono i più bassi d’Europa, il conflitto di interessi resta irrisolto. Eppure, Monti continua a ripetere che l’Italia è uscita o sta per uscire dal tunnel e che la ripresa è vicina. La ripresa è cosí vicina da richiedere tuttavia “nuove forme di finanziamento”, come egli ha dichiarato solo pochi giorni fa, ovvero di finanziamento non più statale, per evitare che nel frattempo il sistema sanitario pubblico sparisca del tutto.

Ma è la complessiva visione montiana della politica e della società che si mostra chiaramente unilaterale, riduttiva, prettamente tecnocratica ed economicistica, e di conseguenza solo nominalmente attenta ad istanze comunitarie e sociali di natura squisitamente morale e/o religiosa. Con l’ulteriore grave implicazione, va precisato, di una politica economica cieca, dogmaticamente esercitata in funzione di un’Europa non comunitaria, non solidale, ma profondamente divisa e retta da burocrazie bancarie, e quindi destinata prima o poi al più disastroso dei fallimenti. Infatti, se i redditi sono bassi e pesantemente penalizzati dall’imposizione fiscale anche il consumo sarà basso, e se il denaro non circola, sia la produttività sia la ricchezza nazionale saranno stagnanti o insussistenti, né ci potrà essere crescita e ripresa, posto che siano ancora storicamente possibili o indispensabili, se da una parte non ci sarà capacità politica di ridefinire sul piano internazionale i termini del debito pubblico e dall’altra una volontà politica di rilanciare il lavoro a livello nazionale con misure finanziarie volte a sostenere priorità sociali di primaria grandezza come occupazione, in particolare giovanile, sanità, scuola, senza soddisfare le quali non può darsi alcuna forma di benessere economico e sociale.

Ma il problema di fondo è che per Monti i popoli dovrebbero essere guidati dai loro governi verso traguardi che non riflettano necessariamente le loro immediate e pur stringenti necessità ma le istanze economico-finanziarie dei grandi mercati finanziari e dei principali istituti di credito del mondo alle quali non è possibile sottrarsi se non si voglia essere emarginati dalla stessa comunità economico-finanziaria e commerciale internazionale e non ci si voglia perciò condannare ad una vita nazionale sempre più povera e stentata. Da ciò deriva la scarsa considerazione montiana per la democrazia e la sovranità nazionali, da integrare secondo lui in termini di cessione di sovranità per l’appunto nel quadro di poteri e di autorità ben più ampi, e quindi il disconoscimento della libertà e sovranità dei popoli e il diritto di ogni singolo cittadino di concorrere ad un controllo permanente e a scelte dirette e non delegabili ai burocrati della finanza e infine alla lotta consapevole e responsabile contro ogni genere di casta, contro l’ideologia consumistica e contro l’ultraliberismo di banche e multinazionali.

Per questo evidente deficit di spirito democratico, di senso dell’equità, di etica comunitaria e, si dica francamente, anche di sensibilità evangelica, secondo la quale chi ha fame e sete va sfamato subito con le risorse che ci sono attraverso una fraterna condivisione e non domani o dopodomani con le risorse che potranno o potrebbero esserci privando oggi del necessario chi ne ha un bisogno vitale per dare a chi pur presunto creditore ha già tutti i mezzi per vivere comodamente, non vedo proprio come Mario Monti possa o potrebbe essere “un figlio prediletto” della Chiesa, come pure è sembrato a qualcuno di poter dire, anche se questo giudizio, che ritengo umanamente, razionalmente, spiritualmente e politicamente fondato e difficilmente confutabile, non vuole né anticipare né sostituire il giudizio di Dio. Naturalmente.

Qui però si continua a ripetere stancamente, da parte dei tecnici dell’economia e della finanza che abbiamo vissuto troppo al di sopra delle nostre possibilità, che adesso bisogna eliminare il superfluo o comunque l’eccedente tagliando la spesa pubblica e riducendo drasticamente le pensioni, che ora è il momento del rigore e del risparmio, che è tempo di restituire ai nostri creditori quello che a suo tempo ci hanno prestato per venire incontro alle nostre necessità di vita e di sviluppo, che bisogna sacrificarsi per preparare un futuro migliore e per porre le condizioni di una vita dignitosa soprattutto a favore delle generazioni che verranno. E questa litania, francamente, non solo perché falsa e ipocrita ma anche e soprattutto perché funzionale subdolamente ad espropriare dei loro legittimi beni intere popolazioni e milioni di persone che vivono solo di duro e non gratificante lavoro, non solo non può essere accettata e subìta ma deve essere avversata e combattuta con tutte le armi dell’intelligenza, della volontà, del diritto, della resistenza civile, del voto, prima che diventi la litania obbligata dei nostri figli e delle future generazioni.

Chi è infatti che avrebbe vissuto negli ultimi trenti anni al di sopra delle sue possibilità? Cosa sarebbe il superfluo da eliminare, su cosa e per quanto tempo si dovrebbe ancora tagliare e risparmiare per poter soddisfare le fameliche aspettative dei mercati e dei mercanti che gestiscono i mercati, chi sono veramente i soggetti che traggono e trarranno vantaggio sia dalla crisi sia soprattutto dai presunti “rimedi” adottati per fronteggiarla? Perché, se proprio è necessario sacrificarsi, non prendiamo i quattrini che servono a riparare i guasti del passato dalle tasche di coloro che hanno le tasche piene di soldi anche quando sono vuote e lasciamo vivere in pace quelli che a stento riescono a sbarcare il lunario? Cosa fa il cosí spesso evocato buon padre di famiglia in una famiglia appunto in cui ci siano per ipotesi due figli che lavorano e due figli che non lavorano? Dice a quelli che non lavorano che devono in ogni caso contribuire al pagamento delle spese familiari o non si rivolge piuttosto a quelli che già lavorano affinché se ne facciano carico per intero sino a quando sarà necessario?

Allora cominciamo a dire chiaro e tondo da cittadini italiani e da cattolici che, contrariamente all’ideologia montiana, la sovranità nazionale non può e non deve essere ceduta ad entità sovranazionali, che lo Stato sociale non può essere smantellato con la scusa di una sua necessaria modernizzazione, che è invece saggio abolire il finanziamento pubblico a giornali e a partiti, ridimensionare drasticamente le cosiddette pensioni d’oro, indire una consultazione popolare per stabilire se sia o non sia il caso di rimanere nell’euro, ridare fiato a piccole e medie imprese che sono la spina dorsale dell’economia nazionale, evitare le Grandi Opere inutili o puramente opzionali per non indebitare ulteriormente i cittadini, adottare misure idonee a garantire che la politica non sia più un mestiere ma una vocazione implicante delle assunzioni anche parlamentari di responsabilità che abbiano un termine o una scadenza ben precisa, stabilire nuove regole per le quali la grande distribuzione non possa più uccidere il commercio locale, varare leggi contro ogni forma di corruzione e contro il cosiddetto conflitto di interessi oltre che leggi secondo le quali il falso in bilancio sia da considerare finalmente un reato, sostituire Equitalia con organi più affidabili di controllo e di riscossione dei tributi, impegnarsi seriamente affinché il governo della nazione non venga più affidata alla finanza ma esclusivamente alla politica anche per evitare che un Paese come l’Italia possa essere “spolpato per comprare il nostro debito pubblico dalle banche francesi e tedesche”, adottare sempre e solo provvedimenti che mai penalizzino i ceti sociali già in stato di obiettiva sofferenza economica e che siano funzionali esclusivamente al profitto delle attività manifestamente dotate di evidenti finalità sociali e di adeguate capacità operative per conseguirle.

Questi sono alcuni grandi punti del programma politico-elettorale pubblicato in data 28 novembre 2012 sul suo blog dal capo politico del pur discusso Movimento 5 Stelle. E anche i cattolici, che sono ancora privi purtroppo di una loro autonoma e significativa presenza politica, non potranno esimersi dal chiedersi, pur tra dubbi e perplessità, se non sia il caso di sostenerli con la matita e con il cuore in vista della ormai imminente competizione elettorale. Contro il montismo, che è una malattia della politica e una perversione forse inconscia dello spirito.

La nota rivista gesuita “La civiltà cattolica”, tradizionalmente organica alla Santa Sede, in data 4 febbraio 2012 riservava uno straordinario elogio al prof. Mario Monti che aveva accettato di presiedere un governo “tecnico” fortemente voluto dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. In essa si osservava, alla luce del decreto montiano “Cresci-Italia” da poco varato, che «sarebbe sufficiente la realizzazione di un decimo soltanto del programma previsto per dover ringraziare il ‘Professore’ a motivo del lavoro che sta compiendo, anche sul piano internazionale». I provvedimenti varati da Monti e dal suo governo, si leggeva, erano attesi in Italia da oltre vent’anni e, benché necessari alla vita economica e sociale del nostro Paese, nessun partito politico italiano, per evidenti interessi elettoralistici e con nessuna attenzione al bene comune, era parso seriamente interessato ad attuare le riforme finalmente poste in essere ora dal governo tecnico. Anche l’“Osservatore Romano”, il quotidiano del Vaticano, avrebbe riservato a Monti in più di un’occasione il suo apprezzamento e, scorrendo i titoli dei principali giornali nazionali del 15 gennaio 2012, sembrava del tutto probabile che il professore della Bocconi godesse della stima dello stesso papa Benedetto XVI.

Quale politica oggi per i cattolici?

Le cose scritte recentemente sul rapporto tra cattolici e politica da padre Paolo Scarafoni, rettore della Università Europea di Roma, sono in parte sensate e condivisibili, in parte quanto meno discutibili (I cattolici e la politica, Iª parte, in “Zenit” del 13-09-2012). E’ senz’altro giusto affermare che non sempre nella politica italiana in genere e in quella cattolica in modo particolare abbia prevalso «la mentalità della corsa alla carica politica», anche se subito dopo lo studioso cattolico si lascia andare ad affermazioni troppo apodittiche: «La riflessione parte necessariamente dal bilancio positivo di un grande ciclo, di una grande esperienza del cattolicesimo politico: l’eredità da non perdere della grande cultura della mediazione politica cristiana. È importante riconoscere il livello della “grande politica” che si è riusciti a concepire e attuare (ricostruzione nazionale e non di parte; idea dell’Europa; idea della cassa del mezzogiorno; programmazione democratica). È stata messa in atto una grande operazione dello stato. I cristiani hanno fatto bene».

Soprattutto la certezza che «i cristiani abbiano fatto bene», che non abbiano fatto anche male o che i loro eventuali errori non abbiano preparato il terreno allo squallido scenario politico degli ultimi vent’anni, sembra francamente eccessiva rispetto alla realtà dei fatti, anche perché i tratti immorali di una certa mentalità che ha dominato in Italia a cavallo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI non sono nati nella mente del predecessore dell’attuale presidente del consiglio ma piuttosto nella società italiana governata per lungo tempo e prevalentemente da cattolici benché Berlusconi, lungi dal contrastare quei tratti, li abbia ampiamente rappresentati e legittimati con la sua lunga e teatrale attività politica.

Ai cristiani comunque va certo riconosciuta tra gli anni ’50 e gli anni ’80 una effettiva e ammirevole capacità di mediazione politica; tuttavia, osserva giustamente Scarafoni, «i cristiani anche in Italia dagli anni 80-90 in poi non si sono organizzati bene, non hanno saputo rispondere bene alla vittoria del liberalismo nel mondo. Hanno lasciato penetrare la mentalità egoistica nell’organizzazione sociale e politica e nella vita quotidiana delle famiglie; hanno perso la battaglia nel campo educativo», sebbene «a difendere i poveri» sia rimasta solo la Chiesa (Ivi, 2ª parte del 20-09-2012).

Infatti, egli rileva in modo ineccepibile, «anche la sinistra europea ha ceduto al liberalismo e si è limitata a difendere i privilegi di alcuni gruppi, ma non ha difeso i poveri nel mondo, pensando anch’essa che lo sviluppo sarebbe venuto soltanto dal capitalismo liberale. Di fatto la sinistra ormai ha perso il contatto vero con il popolo. Si è buttata sulle battaglie minoritarie, per lo più contro natura, e per lo più frutto di gruppi di pressione e di élites culturali nei confronti delle quali si è messa in atteggiamento di soggezione e dipendenza culturale (fecondazione artificiale, questioni di genere e matrimoni omosessuali, ecc.). Queste questioni in Italia sono state messe alla prova popolare per la prima volta con il referendum sulla legge 40 e la sinistra è stata battuta, dimostrando di essere ormai lontano dal sentire popolare, perché il popolo non va contro natura in genere» (ivi).

E’ proprio cosí: la cosiddetta “sinistra” non “sente” più le reali esigenze dei popoli coincidenti innanzitutto con l’assoluta necessità etico-politica di essere adeguatamente difesi dai “poteri forti” del mondo sempre più disinvoltamente impegnati ad affermare la propria egemonia finanziaria e culturale non più solo come in passato sulle aree sottosviluppate del pianeta ma in tutte le aree più progredite del mondo occidentale. Ed è in parte vero che in tutte le parti del mondo la Chiesa cattolica sia «rimasta l’unica voce in difesa dei poveri e dei più deboli», laddove specialmente i cristiani laici, presenti in ogni ambito della vita civile e culturale, non «debbono permettere che la crisi delle democrazie occidentali degenerate in oligarchie diventi la crisi definitiva degli ideali democratici» (ivi). Cosa denota l’attuale crisi internazionale se non il fallimento di un sistema economico, di un modello sociale, di una visione antropologica dell’uomo e più esattamente di quella visione antropologica che è stata storicamente veicolata dal capitalismo occidentale?

I cristiani più avveduti hanno compreso che la produttività industriale non può essere illimitata e indiscriminata, che la crescita della ricchezza non può essere assicurata aprioristicamente e indipendentemente dalle variabili dei processi economici e dalle “dure repliche della storia”, per usare un’espressione hegeliana, che oltre un certo livello di guardia un modo arbitrario ed iniquo di perseguire il profitto e di distribuire la stessa ricchezza non può che frenare o impedire del tutto il consumo, che concepire esseri umani e società in funzione dell’economia e non viceversa comporta alla lunga una innaturale violazione delle stesse finalità naturali e morali della prassi economica sia pure nella possibile molteplicità e varietà delle sue opzioni. A tutto questo i cristiani devono ormai opporsi risolutamente per mettere al centro di qualsivoglia dibattito su economia e finanza, su sviluppo e produttività, su distribuzione e consumo di beni, su riforme sociali e modernizzazione della politica, su riforma dello Stato e nuovi istituti sociali, l’autonomia e la libertà personali «nella verità e nella relazionalità» (ivi, 3ª parte del 27-09-2012), perché «se non c’è questo gli uomini si trasformano in mezzi per una certa idea di progresso che favorisce alcuni; e quindi vengono negate le libertà, e c’è l’asservimento di molti a pochi che conoscono tutto e decidono tutto. Sono caduti in questa tentazione perfino gli americani. Sono le così dette lobby e potentati economici e finanziari transnazionali che “possiedono le soluzioni per tutto”. Normalmente queste ideologie e organizzazioni interpretano le situazioni di sottosviluppo come necessità storiche e strutturali per i loro fini. Anche a livello sociale ora incolpano, per esempio, le aspirazioni delle classi popolari a dare ai propri figli l’opportunità di un livello più alto, come un errore storico contro le leggi economiche, che causa la difficoltà attuale del capitalismo nei paesi sviluppati. Si tratta di interpretazioni tendenziose…La tendenza all’unificazione del genere umano non deve significare un asservimento, una diminuzione della libertà e dell’autonomia. Abbiamo avuto esperienze molto negative, ma la tentazione continua ad essere forte con altri strumenti, specialmente con la comunicazione e l’appiattimento culturale, che sopprime perfino le espressioni autentiche della natura umana» (ivi).

I cristiani non possono accettare questa realtà, o meglio devono accettarla solo per denunciarla e cambiarla in funzione delle specifiche e universali esigenze di tutta l’umanità. Non è possibile continuare ad assecondare disegni di gruppi privati che perseguono per sé fini di benessere, di potere e di felicità, senza preoccuparsi se non retoricamente e demagogicamente del “bene comune”. E la forza evangelica del Cristianesimo dovrebbe indurre i cristiani a compiere scelte “radicali” su tutte quelle questioni dalle quali dipende direttamente la tutela o la violazione dei diritti storico-naturali della dignità della persona e della comunità (ivi, 4ª parte del 4-10-2012).

Perfetto. Ma, per quanto lodevoli, né la critica antiliberista, né il rifiuto di una globalizzazione spersonalizzante attuata nel nome dei mercati e di reali ma sconosciute potenze finanziarie mosse da un’ambigua e pericolosa ideologia “mondialista”, né il forte richiamo al bene comune che, in quanto tale, non può essere meramente edonistico, utilitaristico e mercantile, sembrano sufficienti per organizzare una nuova strategia di impegno o di lotta politica volta a ridimensionare drasticamente il primato dell’economico e del finanziario e a rilanciare il primato dell’etico e del politico depurati da ogni reale o possibile mistificazione. Perché? Perché per lavorare realisticamente e concretamente e non genericamente e astrattamente al recupero della persona e insieme della società, della persona libera e responsabile all’interno di una società più giusta di quella odierna, non bastano analisi pure profonde e acute di natura prevalentemente morale ma si rendono necessarie analisi sociali più spregiudicate, più specifiche, più “scientifiche”, analisi capaci di produrre diagnosi più precise, di individuare i punti morti del sistema e di sostituirli con nuovi meccanismi, regole, procedure, più funzionali ad uno sviluppo economico sostenibile e ad istanze sociali forse da verificare e da correggere ma non indefinitamente rinviabili di difesa e valorizzazione delle diverse forme di lavoro già esistenti.

L’anticapitalismo cattolico (o almeno l’anticapitalismo di certi settori di cattolicesimo avanzato), proprio per questo difetto di criticità razionale o di “scientificità”, resta piuttosto utopico, nel senso che alla fine sembra orientarsi più verso un tradizionale ripiegamento su valori pure necessari di responsabilità personale e sociale che non verso una ricerca rigorosa di inediti e originali valori di liberazione personale e sociale. Come osservava giustamente molti anni or sono un filosofo marxista italiano sempre molto attento alle vicende e alle problematiche del cattolicesimo contemporaneo, con un anticapitalismo cattolico cosí sentito ma anche cosí vago e generico, e che nelle sue espressioni più alte e consapevoli ha certamente il merito di non accettare la complessiva realtà storica esistente, cosa si può costruire? «Come spostare davvero, con esso, la coscienza sociale del paese? Una maggiore familiarità con il sapere scientifico consentirebbe, non dico di elaborare, cosa cui forse una Chiesa non è tenuta, ma di segnalare progetti di cambiamento meno esclusivamente morali, meno appellantisi soltanto a una ristrutturazione delle coscienze morali, insomma più determinatamente critici. Se conosco scientificamente il mondo, le sue strutture, le sue condizioni, posso fare ipotesi di cambiamento che siano non di criticismo assoluto e radicale», e quindi ipotesi destinate a prospettare pur sempre forme utopiche di cambiamento, «ma, appunto, di criticismo possibile, fattibile» (A. Zanardo, La sfida morale. Intervista di A. M. Baggio con Aldo Zanardo, in “Nuova Umanità”, 1989, n. 62, 2, pp. 65-66).

Sono osservazioni legittime che i cristiani, specie se “intellettuali”, non possono non raccogliere e non utilizzare nei modi più opportuni. In caso contrario, e fatta salva sia la buona fede sia una non occasionale onestà di intenti quali quelli manifestati dal rettore dell’Università Europea, non si rischia di rimanere nei confini di un moralismo cattolico che, per quanto utile e generoso, non appaia mai suscettibile di trasformarsi in un’etica pubblica realmente corrosiva della corruzione e del malaffare di cui oggi più che mai si nutre la prassi politica in generale?

E, in questo senso, può ritenersi frutto di uno studio profondo e di riflessioni esaustive il ritenere che Marx abbia «fallito sull’uomo» in modo totale (I cattolici e la politica, 4ª parte, cit.)? Non è anche per questo che poi si incorre in una sorta di incongruenza logica che non può non appannare il vigore stesso della protesta morale e religiosa, allorché si dichiara che il bene comune, in quanto esso «richiede di promuovere ciò che favorisce tutti», potrebbe per ciò stesso «non essere immediatamente favorevole al singolo» (parte 3ª, cit.).

Cosa significa un’affermazione del genere? Che anche nel caso in cui per molti decenni il bene comune in un determinato paese non abbia coinciso almeno tendenzialmente con «ciò che favorisce tutti» ma solo con ciò che favorisce la parte economica e sociale già più ricca, ci si troverebbe di nuovo costretti a non battere ciglio di fronte all’ennesima politica governativa rigorosamente orientata al bene comune che proprio per questo potrebbe «non essere immediatamente favorevole» a tutti quei singoli che erano già stati sfavoriti, per lo stesso motivo nominale, in tutte le precedenti tornate governative? Chi sono questi “tutti”? Chi è questo “singolo”? Vogliamo uscire dalle astrazioni o dobbiamo far finta come cattolici di essere ammirati per un ragionamento pieno di apparente passione evangelica ma privo di conclusioni sufficientemente chiare, pregnanti e coinvolgenti?

Certo, Marx ha fallito sull’uomo in quanto intendeva liberare l’uomo togliendogli la fede in Dio, sia pure alla luce di una stringente e non del tutto insignificante storicizzazione del fenomeno religioso e cristiano, ma per certi aspetti non inessenziali alla storia stessa dell’umanità egli non ha fallito, perché, studiando “scientificamente” gli specifici meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico e tutte le aberrazioni tipiche della società ad esso connessa, ha consentito ad ingenti masse popolari di lottare con precisa cognizione di causa per la loro liberazione storica e a molti cattolici di cogliere importanti implicazioni inespresse della loro stessa fede.

Marx ha fallito sull’uomo perché senza Dio e senza il Cristo del vangelo non c’è analisi scientifica o teoria della rivoluzione che possano liberare l’uomo dalle contraddizioni laceranti della sua finitezza storico-esistenziale, ma, forse suo malgrado, nel mettere a disposizione di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a cominciare dal popolo cattolico, preziosi strumenti di analisi e di azione che nulla aggiungono alla potenza della fede in Cristo ma che almeno i cattolici impegnati in politica sarebbero tenuti a conoscere (allo stesso modo di un cristiano che non può svolgere la professione medica solo in virtù della sua fede in Cristo) per evitare errori marchiani di valutazione e scelte economiche e politiche di fatto incompatibili sia con le idealità evangeliche sia con gli stessi ideali della democrazia e della giustizia tout court, egli fu un docile strumento nelle mani dello Spirito Santo, che, com’è noto, “soffia dove vuole”.

Vangelo e Chiesa tra finanza e poteri occulti

L’economia mondiale, cosí com’è, cosí come funziona adesso, non va bene per niente. Non è possibile continuare a pensare che essa possa sussistere e produrre ricchezza in conformità al principio del profitto illimitato e comunque del massimo guadagno possibile e in costante violazione di elementari princípi di umanità e di giustizia sociale, che è spesso ciò che passa completamente sotto silenzio nelle ricorrenti analisi di tanti dotti ma ciechi economisti. Se l’attività economica viene fondata essenzialmente sull’avidità, essa non può che dar luogo a comportamenti «in cui il conflitto di interessi è prassi quotidiana». Per troppo tempo è accaduto che «la cultura del conflitto di interessi» fosse tollerata quasi si trattasse di un dato ineluttabile e che essa tentasse di nascondersi o camuffarsi attraverso un uso strumentale dell’etica, della filosofia, dell’antropologia, «mediante discorsi pomposi e retorici, codici etici e di responsabilità sociale quasi sempre teorici, forti solo della gran cassa mediatica. Ma un tale sistema che mortificava e strumentalizzava l’etica della virtù, la filosofia del bene comune, l’antropologia umanizzante non poteva reggere a lungo» (C. Tabarro, Crisi finanziaria e conflitto di interessi – prima parte –, La proposta della Dottrina sociale della Chiesa, in “Zenit” del 23 agosto 2012).

Questo veniva evidenziando nella sua enciclica “Caritas in Veritate” Benedetto XVI, che criticava anche l’abuso dell’aggettivo “etico”, adoperato troppo spesso in modo generico e quindi in modo tale da prestarsi «a  designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell’uomo», in evidente contrasto con ciò che insegna la dottrina sociale della Chiesa che ha i suoi due punti fermi «nell’inviolabile dignità della persona umana» e «nel valore trascendente delle norme morali naturali». Per cui, «un’etica economica che prescindesse da  questi due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni. Tra l’altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici non sono», come recita testualmente l’enciclica “Caritas in Veritate” , n. 45.

Sta di fatto che, ad un certo punto, la cultura del conflitto di interessi con tutte le conseguenze che ne sono derivate, ha prodotto la situazione disastrosa che tutti, e in particolare i ceti e gli individui più poveri o meno abbienti, stiamo vivendo. Il neoliberismo utilitarista che, specialmente nell’ultimo decennio, è diventato il credo indiscusso di una cospicua pluralità di responsabili della politica, dell’economia e della finanza, della stessa cultura, non solo si è dimostrato totalmente fallimentare ma, per mezzo di un sistematico e assordante bombardamento mediatico, ha indotto anche la gran parte delle masse lavoratrici ad un atteggiamento tendenzialmente passivo e rinunciatario nonché troppo condizionato dal timore di poter solo danneggiare il proprio stato di vita con una diversa condotta politica. Le diseguaglianze sono cosí aumentate sia in quantità che in qualità e, in luogo di un’era di maggior sviluppo e di maggior benessere per tutti come falsamente avevano profetizzato i moltissimi corifei del liberismo economico, è venuta ultimamente affermandosi una politica dell’austerità «verso le classi più deboli dalle quali si vorrebbe far dipendere la crescita, mentre ha l’unico effetto di aumentare la depressione e di rendere impossibile la crescita e quindi le future possibilità di pagamento del debito» (C. Tabarro, Crisi finanziaria e conflitto di interessi – prima parte –, La proposta della Dottrina sociale della Chiesa, in “Zenit” del 23 agosto 2012).

Tutto questo è venuto pensando ed elaborando intelligentemente e responsabilmente la Chiesa istituzionale e almeno una parte della Chiesa tout court intorno all’angosciosa crisi finanziaria ed economica in atto. Il papa ha sottolineato l’urgenza di una riforma radicale tanto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite quanto della stessa “architettura economica e finanziaria internazionale”. Ove non si proceda in tale direzione, non si capisce come «sia possibile combattere il conflitto di interessi che “regola” i rapporti tra grande finanza e politica», essendo ben noto che quest’ultima è abbondantemente finanziata e dunque negativamente condizionata dalla prima. Non è forse vero, per esempio, che persino la Corte Suprema americana, con la decisione Citizen United, ha legalizzato nel 2010 la possibilità dei candidati politici di ricevere “donazioni” illimitate? Dov’è la morale, dov’è l’etica pubblica, se persino coloro che dovrebbero custodire gelosamente il diritto in assoluto spirito di indipendenza si prestano a favorire istanze particolaristiche di individui e gruppi?

L’8 maggio 2012, il presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, mons. Mario Toso, ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”, affermando chiaramente che la causa primaria della crisi finanziaria dovesse essere individuata in «un liberismo economico senza regole e senza controlli». E l’analisi, sempre centrata su quest’ultimo, cosí proseguiva e veniva significativamente articolandosi: «Si tratta di una ideologia, di una forma di “apriorismo economico”, che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario».

La Nota del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace del 24 ottobre 2011 affermava «l’esistenza di istituzioni ed imprese che, grazie al loro potere e alle informazioni asimmetriche di cui “godono” (o che “costruiscono”), assumono di fatto una posizione di vantaggio economico e finanziario, alias conflitto di interessi. È il conflitto di interessi che ha permesso alla più grande banca d’affari, la Goldman Sachs, di passare indenne dai processi per i drammi sociali, economici e finanziari provocati con i mutui subprime, per le manipolazioni del mercato mondiale, per le responsabilità nell’aver provocato la nazionalizzazione dell’Aig (con i soldi dei contribuenti), per aver stipulato polizze assicurative speculative a copertura di titoli finanziari falliti.

È il conflitto di interessi che ha dato vita al recente scandalo del LIBOR (London inter bank offered rate), il più importante tasso d’interesse interbancario che ogni mattina diciannove banche globali concordano stabilendo i tassi sui prestiti alle imprese e famiglie.

Nonostante tutti questi scandali e tutte queste rovine materiali e morali, per i responsabili non ci sarà nessuna conseguenza giuridica (al massimo una “piccola” sanzione economica), perché le grandi banche sono too big to fail (troppo grandi per fallire) e a loro non si applica il diritto vigente, quindi sarà sempre loro permesso un salvacondotto a causa del conflitto di interessi in gioco.

Abbiamo visto il declino morale delle elargizioni di cospicui bonus a manager anche quando questi hanno distrutto il tessuto economico delle società da loro guidate. Il conflitto di interesse, con l’ausilio dei grandi media (anche loro controllati nella proprietà dalla grande finanza), provoca il sonno della ragione e della morale, e spinge gli animal spirit (nel senso keynesiano) ad emergere contro il bene comune.

Quel che più impressiona è come non ci si accorga che insieme all’elementare ed errata ideologia che vede nel ‘mercatismo’ la risoluzione di tutti i problemi, non si comprenda come l’utilitarismo filosofico di Jeremy Bentham non sia la risposta al problema della crisi ma è piuttosto la causa della crisi.

Si è affermata la convinzione che la massimizzazione dell’utilità non valga soltanto per chi detiene poteri piccoli e grandi, ma addirittura che la logica del conflitto di interessi sia “normale” anche per i legislatori, i quali dovrebbero non pensare al proprio tornaconto ma al bene comune, sulla scia di quanto affermava De Gasperi: “il politico è quello che guarda alle prossime elezioni, lo statista è quello che guarda alle prossime generazioni”» (Crisi finanziaria e conflitto di interessi – seconda parte –, pubblicata sempre in “Zenit”, il 30 agosto 2012).

Che è un’analisi impeccabile anche se ancora caratterizzata dalla tacita convinzione che il capitalismo sia riformabile e non debba essere necessariamente “superato”, e un’analisi implicitamente e fortemente critica, specialmente nella sua parte conclusiva, nei confronti del governo italiano in carica e del suo presidente, prof. Mario Monti, che però ha fatto finta di non sentire e ha pertanto rinunciato a replicare in modo diretto a mons. Toso. Ma resta comunque significativa ed altamente apprezzabile questa presa di posizione della Chiesa cattolica, nella quale tuttavia soprattutto in materia economica e sociale non sussiste una unanimità di punti di vista (e questo spiega la discontinuità dei suoi stessi vertici nello stigmatizzare le severe ma spesso dissennate politiche di revisione della spesa e dei conti pubblici dello Stato italiano che dovrebbero aiutare a superare la crisi ma che in realtà l’aggravano ulteriormente), contro l’ideologia mercatistica, che, muovendo da Jeremy Bentham, è venuta sempre più radicalizzandosi nel secolo scorso in alcuni teorici conservatori, e per aspetti non inessenziali decisamente reazionari, quali Hayek e Friedman (esponenti della cosiddetta “scuola austriaca”), e infine in Robert Nozick, che ne ha ripreso e sviluppato le tesi fondamentali giungendo ad elaborare una critica micidiale del concetto di giustizia distributiva. Sono proprio le politiche ispirate alle teorie di costoro che «giustificano la centralità del conflitto di interessi, oltre a distruggere i diritti e i valori fondamentali della civiltà occidentale fondata sui valori ebraico-cristiani» (ivi).

Tuttavia, questa combattività critico-evangelica sembra appannarsi ed arenarsi leggermente là dove si passa dalla pars destruens alla pars construens, perché è senz’altro opportuno il richiamarsi della Chiesa all’etica del bene comune e il proporre nuove istituzioni politiche, finanziarie e monetarie fondate su tale etica, ed è altrettanto comprensibile che essa, nell’intervenire su questioni economiche e sociali, debba muoversi solo sul piano della sua competenza etica e religiosa, per cui non le è consentito di «entrare nell’agone “politico-partitico” o dare risposte specificatamente tecniche, pur non ignorandole» (Crisi finanziaria e conflitto di interessi – parte terza – in “Zenit” del 6 settembre 2012), ma quel che appare obiettivamente mancante o almeno insufficiente, non già su un piano politico, bensí proprio sul terreno della testimonianza apostolica e del magistero ecclesiale contemporaneo è una chiara e perentoria traduzione e comunicazione dei valori evangelici di condivisione, di comunione, di giustizia sociale oltre che di giustizia tout court in un linguaggio e in un discorso non ovattato o addolcito ma fermo e imperioso come quello con cui Gesù disse: “Beati i poveri, gli umili, gli affamati, gli onesti, i perseguitati…perché essi andranno in cielo e vivranno gioiosamente per l’eternità” e “Guai a voi ricchi, a voi potenti, a voi avidi e incapaci di vera carità, a voi superbi che vorreste caricare gli altri di pesi insopportabili che non toccate neppure con un dito (Lc 11, 46) perché, persistendo il vostro stato di peccato, andrete dritti all’inferno dove sperimenterete per sempre la lontananza da Dio”.

Qui, insomma, la Chiesa è chiamata “a portare la spada”, la stessa spada portata da Cristo, e quindi a portare la divisione, il conflitto, la lotta nelle coscienze di tutti e di ciascuno, prima di portare pace e riconciliazione non già in senso generico e aprioristico ma solo in quanto ci si voglia pacificare e riconciliare con Dio e con gli uomini sul terreno appunto della condivisione, di un’equa distribuzione di beni materiali e spirituali, di una volontà di servire prima gli ultimi e i più bisognosi e poi via via tutti gli altri. Non sta forse scritto che misericordia e verità devono incontrarsi e che giustizia e pace devono baciarsi (Salmo 85, 11)?

E’ senz’altro utile porre in evidenza che a determinare la crisi economica e finanziaria internazionale di questo tempo sono state «le ideologie neoliberiste, neo-utilitariste e tecnocratiche che strumentalizzano il bene comune, affermando che quest’ultimo coincide con la massimizzazione delle utilità economiche, finanziarie e tecniche, non accorgendosi o sottostimando il rischio presente e futuro delle stesse istituzioni democratiche» (ivi), ma non è sufficiente affermare che la Dottrina sociale della Chiesa, «per superare questo impianto ideologico e le sue prassi distorte, propone di partire da un nuovo umanesimo globale, aperto alla trascendenza, fondato sull’etica della fraternità e della solidarietà, nonché subordinando l’economia e la finanza alla politica, responsabile del bene comune», e che solo in questo modo «si possono vincere le idolatrie del ‘mercatismo’ e del conflitto di interessi, aventi come unico fine l’utilitarismo spacciato per felicità, ignorando quell’etica della virtù che li dovrebbe permeare intimamente» (ivi).

Non è sufficiente perché il problema della testimonianza evangelica non è quello di una semplice e distaccata critica dell’esistente ma quello di turbare le menti e scuotere le coscienze di credenti e non credenti per mezzo di forme e di tonalità espressive e concettuali, per l’appunto evangeliche, che, senza altre preoccupazioni che non siano quelle di annunciare fedelmente il Regno di Dio, facciano comprendere inequivocabilmente a chi ascolta il senso più profondo e anche più severo o scomodo della Parola di Dio costringendolo a rivedere le sue idee, le sue teorie, le sue valutazioni, anche ove fossero frutto di anni e anni di studio e di apprendimento accademico, e i suoi stessi atteggiamenti spirituali e pratici soprattutto rispetto ai bisogni dei più poveri, dei più sfortunati, dei più anonimi: la luce evangelica che deve illuminare il mondo non può stare “sopra un monte” né può essere nascosta “sotto il moggio”, il sale evangelico che deve dare sapore alle cose della terra non può essere insipido, perché in tal caso “a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini”.

Che la Chiesa cattolica abbia allora la prontezza e l’audacia evangelica di denunciare la falsità, la risibilità, l’inverificabilità più assoluta e anche l’evidente contraddittorietà di talune affermazioni dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Monti, purtroppo egregiamente coadiuvato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: gli si sente dire infatti che, se non fosse subentrato il  governo Monti alla guida dell’Italia, lo spread sarebbe salito a molto più di 1000 punti; che comunque lo spread registrato, prima dell’annuncio dello “scudo” annunciato e varato da Mario Draghi in qualità di presidente della BCE, sarebbe stato “ingiustificato” rispetto ai “fondamentali” o alle “leggi dell’economia”; che, grazie all’attuale politica governativa, sia la situazione economico-finanziaria italiana sia l’euro sarebbero stati salvati dal “baratro” anche se adesso, dopo il gigantesco riordino dei conti pubblici dal governo operato per mezzo di inauditi e vessatori tagli sociali, toccherebbe alle aziende, al mondo imprenditoriale in genere, salvare l’Italia con comportamenti “virtuosi”! Tutte cose in parte pensabili ma assolutamente non dimostrabili e francamente indegne di uno scienziato dell’economia, tutte cose dette pubblicamente con una sicumera non sorretta né da prove, né da riscontri empirici di alcun genere, e basata esclusivamente su congetture tanto dogmatiche quanto arroganti e ingannevoli.

La stessa euforia creatasi in Europa e in Italia dopo il varo dello “scudo antispread” è totalmente ingiustificata e rientra nelle mistificazioni dei grandi banchieri a cui è stoltamente affidata in questo momento storico, da parte delle diverse politiche nazionali, la guida economico-finanziaria del mondo. Perché? Ma perché è evidente che, come si legge su un quotidiano italiano noto per la sua faziosità ma talvolta preciso e puntuale, «il denaro necessario alla BCE per acquistare i titoli di stato sarà rastrellato dalle vostre pensioni, dai vostri salari, dalla vendita delle vostre case. Ottenuto attraverso il vostro licenziamento, l’aumento delle tasse e quello dei prezzi al consumo. Raggranellato privandovi progressivamente di tutti i servizi al cittadino, dalla sanità alla scuola, passando attraverso tutti gli altri» (“Il Giornale”, 7 settembre 2012).

E’ davvero abnorme il fatto che, nella grande stampa e nelle televisioni pubbliche e private del nostro Paese, passino sostanzialmente sotto silenzio l’origine e la provenienza di tecnocrati quali Monti e Draghi (insieme a tanti altri noti esponenti della politica e dell’economia italiane), la loro appartenenza ai clubs economico-finanziari più esclusivi del mondo riconducibili al “Bilderberg Group” e al “Council on Foreign Relations”. Come scriveva sul “New York Times”  William Shannon, ambasciatore in Italia del presidente americano Carter e membro del Bilderberg, «i Bilderbergers sono in cerca dell’era del post-nazionalismo: quando non avremo più paesi, ma piuttosto regioni della terra circondate da valori universali. Sarebbe a dire, un’economia globale; un governo mondiale (selezionato piuttosto che eletto) e una religione universale. Per essere sicuri di raggiungere questi obiettivi, i Bilderbergers si concentrano su di un “approccio maggiormente tecnico” e su di una minore consapevolezza da parte del pubblico in generale».

Il giornalista spagnolo Daniel Estulin, autore di un libro molto informato e intitolato “The true story of the Bilderberg Group”, ha scritto che «le idee e la linea politica che vengono fuori dagli incontri annuali del Gruppo Bilderberg sono poi usate per creare le notizie di cui si occuperanno le maggiori riviste e i maggiori gruppi editoriali del mondo. Lo scopo è quello di dare alle opinioni prevalenti dei Bilderbergers una certa attrattiva per poterle poi trasformare in politiche attuabili e di far pressione sui capi di stato mondiali per sottometterli alle “esigenze dei padroni del mondo”. La cosiddetta “stampa libera mondiale” è alla completa mercè del gruppo e dissemina propaganda da esso concordata».

Quanto al “Council on Foreign Relations”, sorto nel 1921, pochi sanno che anche questo selettivo e potentissimo organismo, di cui oggi fanno parte molti capi di Stato e personalità dell’economia e della cultura di tutti i paesi del mondo, muove i fili di un disegno mondiale (d’onde  l’ideologia mondialista) che da poco meno di 90 anni decide le sorti, l’evoluzione e gli eventi del nostro pianeta e che è puntualmente all’origine di tutte le crisi economiche o politiche e alla base di ogni dissesto nazionale. Il disegno prevede che il mondo debba essere controllato dall’alto ovvero dalle posizioni più alte dei vertici economico-finanziari internazionali e che la volontà democratica dei popoli debba essere quanto più possibile limitata o contenuta.

Oggi Mario Draghi, presidente della BCE, continua ad esser membro anche del cosiddetto “Gruppo dei Trenta” (G30), un organismo internazionale di finanzieri leaders e accademici finalizzato ad approfondire la comprensione delle questioni economiche e finanziarie e ad esaminare le conseguenze delle decisioni prese nei settori pubblici e privati correlati a tali problematiche. Esso è composto di trenta membri e comprende sia i titolari delle principali banche private e banche centrali, sia esponenti particolarmente influenti del mondo accademico e delle istituzioni internazionali. Per questo motivo, alcuni mesi or sono Draghi ha dovuto subire una dura contestazione (di cui ancora nessuno parla) in sede europea per conflitto di interessi, essendo egli infatti, tra l’altro, uno dei principali proprietari della Banca d’Italia che, diversamente da quel che di solito si pensa, non è una banca pubblica ma privata.

Ora, che il destino dei popoli sia e debba rimanere nelle mani di questi lobbisti e di questi potenti organismi decisionali è ciò che può essere auspicato solo da masse popolari inconsapevoli e da gente sprovveduta. Ma almeno la Chiesa di Cristo non può permettersi né di essere inconsapevole né tanto meno di essere sprovveduta e di venire a patti con certi malefici poteri occulti presenti in ogni angolo della terra, perché essa non potrà continuare ad evangelizzare il mondo e non potrà esercitare efficacemente la sua opera di conversione a Cristo se non sarà capace di individuare e contrastare per tempo, con coraggio evangelico e spirito realmente combattivo, le forze sataniche che affliggono non solo i singoli nel loro privato ma interi popoli nella loro vita pubblica.

I cattolici e gli immigrati

immigratiSull’immigrato, sul forestiero, sullo straniero, sul “diverso” da noi, che decide di venire da noi in Italia o in Occidente, sussistono fondamentalmente due modi di ragionare e di argomentare. Ambedue sono equanimemente diffusi tra laici di diverso orientamento politico e religioso e i credenti cattolici. Il primo è quello di chi dice: ma cosa vengono a fare da noi se non abbiamo posti di lavoro per i nostri connazionali e i nostri stessi figli, se tanti di noi sono costretti a condurre una vita disagiata a causa di leggi finanziarie e di provvedimenti fiscali sempre più severi e pesanti, se non c’è né crescita economica né possibilità di investire capitali per attività produttive davvero proficue e tali da favorire anche una significativa e stabile assunzione di manodopera, se non esistono adeguate strutture di accoglienza?

Perché l’Europa laica e cosmopolita, tollerante e multiculturale, non destina un bel po’ di quattrini per il sostentamento almeno relativo di quei gruppi etnici come rumeni, rom, zingari, slavi, albanesi, e via dicendo, sul loro stesso territorio d’origine, anziché aspettare che buona parte dei componenti di tali gruppi si muovano verso Paesi europei, come per esempio l’Italia, ritenuti più ricchi e più capaci di soddisfare le loro necessità primarie, per poi lanciare ipocritamente accuse di xenofobia e razzismo ai Paesi ospitanti al primo insorgere di difficoltà relative a problemi di convivenza con le relative popolazioni? Perché invocare la comune cittadinanza europea solo per intimorire o tentare di costringere qualche governo europeo a non varare misure di espulsione o provvedimenti restrittivi nei confronti di tali gruppi ogni volta che si ritenga evidentemente necessario procedere in tal senso per motivi di ordine e sicurezza sociali?

Non è che per caso, dietro lo sventolío dei diritti umani e del diritto di ogni cittadino europeo a circolare liberamente in tutti i Paesi della UE, qualche nazione come la Romania o l’Albania, tanto per fare dei nomi, abbia pensato, con la complicità non necessariamente disinteressata dei responsabili del governo europeo, di favorire lo spostamento di buona parte dei propri cittadini più poveri ed indesiderati in altre aree europee come Italia, Francia, Spagna? Quanto ai gruppi etnici extraeuropei che giungono sulle coste europee e in particolare italiane, le considerazioni che generalmente vengono fatte non sono forse molto diverse trovando esse anche in questo caso il loro fulcro nella convinzione che Europa, sistema bancario occidentale, Fondo Monetario Internazionale e tutta una galassia di associazioni private finanziariamente forti, dovrebbero aiutare concretamente quanto meno i Paesi gravitanti sul bacino del Mediterraneo a sviluppare in modo autonomo la propria economia, le proprie forze produttive e le proprie strutture sociali, soprattutto in funzione della progressiva elevazione economico-sociale delle loro classi o dei loro ceti più deboli o del tutto non abbienti, proprio o anche allo scopo di ridurre fortemente le massicce ondate migratorie verso il continente europeo che periodicamente avvengono in condizioni drammatiche e molto pericolose.

Il secondo modo di pensare è generalmente quello di tanti laici e di non trascurabile parte del mondo cattolico che invocano inderogabili princípi di civiltà o motivi religiosi altrettanto cogenti per sostenere che l’ospitalità all’immigrato, quale che sia l’origine di provenienza, debba essere garantita sempre e comunque e in forme quanto più possibile civili. Qui, da una parte, a farla da padroni sono il diritto internazionale, l’etica universale del genere umano che impone un senso di solidarietà verso ogni popolo, verso ogni gruppo etnico e ogni singola persona che necessitino sotto ogni latitudine di assistenza e protezione, e naturalmente, per quanto riguarda i cattolici, il messaggio evangelico che obbliga quanti vi aderiscono ad offrire il massimo di accoglienza amorevole e di aiuto anche materiale allo “straniero”.

Tutto ciò, poi, è generalmente accompagnato da note considerazioni paternalistiche, come per esempio quella relativa al fatto che un tempo fummo noi europei ed italiani a partire per terre lontane e a chiedere colà asilo ed ospitalità, e da motivazioni apparentemente religiose, non sempre prive di evidenti usi strumentali, come per esempio quella per cui anche Gesù fu un immigrato in Egitto, oltre che da valutazioni puramente strumentali del tipo: se non ci fossero gli immigrati, certi lavori da noi non li farebbe più nessuno!

Ora, a ben esaminare queste due posizioni e i modi in cui vengono articolandosi, ragioni e torti, al di là di facili e disinvolti luoghi comuni o di valutazioni unilaterali e riduttive, possono essere equamente riconosciuti ad ognuna di esse, proprio alla luce della Bibbia e del Vangelo. Infatti, da una parte, non c’è dubbio che gli immigrati non possano e non debbano godere, soprattutto in un’epoca di grave carenza di posti di lavoro, di trattamenti “privilegiati” rispetto a cittadini, e in particolare a cittadini giovani, poveri ed emarginati, disoccupati o sottopagati, dei Paesi o delle nazioni ospitanti o in cui i primi risiedano provvisoriamente o stabilmente. Già il Deuteronomio conteneva un precetto di carattere generale, e quindi valido tanto per gli indigeni che per gli stranieri, molto saggio: «Se vi sarà qualche tuo fratello bisognoso nella tua città, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova» (15, 7-8), ove ovviamente il “fratello bisognoso” è biblicamente non il vagabondo o il nullafacente ma colui che si trovi in difficoltà pur facendo tutto il possibile per procurarsi lecitamente un vitto e un alloggio. E non c’è dubbio che, date le dimensioni crescenti del fenomeno immigratorio, la stessa Unione Europea se ne dovrebbe fare direttamente carico come un problema politico ed economico europeo dei prossimi decenni invece di esortare  ipocritamente e contraddittoriamente i vari Stati europei, e in particolare quelli finanziariamente più a rischio come Grecia Italia Spagna, a provvedere in proprio e in forme adeguate alle necessità materiali e civili degli immigrati bisognosi.

Per contro, in un momento storico in cui troppo spesso la figura dello straniero è oggetto di scontro ideologico tra i pro e i contro, non appare né ragionevole né evangelico negare aiuto all’immigrato operoso o volenteroso solo per un malinteso e nazionalistico senso di solidarietà verso i propri conterranei specialmente se essi non siano dotati di altrettanta buona volontà e nutrano aspirazioni irrealistiche o velleitarie.

Dall’altra parte, anche un abbraccio laico e/o religioso multiculturale e multirazziale aprioristico e indiscriminato, e perciò ideologico e astratto, verso gli immigrati, non appare per niente apprezzabile e giustificato, a dispetto di quel che vorrebbero dare ad intendere tante anime “candide” di credenti e non credenti molto più capaci di solidarietà a parole e lontani da concrete situazioni di disagio personale che non nei fatti e a stretto contatto di gomito con stranieri che non riescono ad inserirsi o non vogliono proprio inserirsi nel tessuto sociale del territorio che li ospita né interagire in alcun modo con la sua cultura e le sue stesse strutture produttive. Specialmente sgradevoli  quanto ipocriti o infondati sono al riguardo certi apparenti o presunti slanci ecumenici di tanti cattolici, il cui spirito di carità risiede spesso molto più nelle intenzioni che nelle opere, e certi plateali “attacchi” rivolti alla stessa comunità cristiana da parte di alcuni vescovi abituati a schierarsi dalla parte di zingari e rom, a prescindere da analisi oggettive e realistiche, e quasi sempre a favore di stampa e televisione.

Non ci si riferisce di certo a tanta parte di volontariato cattolico (da intendere nell’accezione più larga del termine) che lavora sempre seriamente e senza clamore, insieme a generose associazioni di volontari laici, accanto ai bisognosi di qualunque etnia e spesso proprio in mezzo ad essi e che merita pertanto il plauso e la gratitudine della stessa Chiesa di cui fa parte, la quale senza il suo qualificato e preziosissimo apporto rischierebbe di essere poco più di una comunità di credenti “tiepidi” e di testimoni senza testimonianza, di burocrati della fede, di ministri non particolarmente credibili del culto, di accademici della Parola di Dio abbastanza lontani dai tumulti della vita reale.

Già: zingari e rom, cui si può aggiungere un non trascurabile numero di sbandati albanesi, rumeni, slavi, i cui stili di vita differiscono spesso profondamente dalla stragrande maggioranza dei componenti di altri gruppi etnici come cinesi, russi, polacchi, filippini, pakistani e via dicendo, sempre regolarmente in grado di procurarsi un lavoro o di avviare un’attività commerciale e produttiva o quanto meno di darsi da fare per non campare solo di elemosina. Ci sono immigrati ed immigrati e il giudizio morale, comunque lo si voglia articolare, non può non tenerne conto. Alcuni, è vero, come rom o zingari, si portano spesso dentro una storia ultrasecolare di persecuzione e di emarginazione, a causa della quale molti loro limiti non possono non essere compresi e scusati, ma anche una cultura di esasperata chiusura etnica, di sospetto atavico verso gli “altri”, di vita nomade e parassitaria ad un tempo, più che una cultura di relazione e di lavoro operoso, di sia pur faticosa apertura a forme lecite e legittime di guadagno come a forme non meramente fisiologiche di sopravvivenza e a pratiche di vita non volte al soddisfacimento immediato ed esclusivo di bisogni istintivi: tutte cose che rendono obiettivamente e umanamente difficile la convivenza o una vita di relazione con le popolazioni con cui taluni di quegli immigrati vengono volta a volta in contatto.

A certi nostri fratelli immigrati, generalmente parlando, è molto difficile far capire (e in tal senso i cattolici si impegnano ben poco o si impegnano solo polemicamente) il valore di un lavoro umile ma onesto, poco redditizio ma più dignitoso del mero accattonaggio, l’importanza del fatto che i loro bambini imparino a frequentare la scuola anche al fine di poter sperare concretamente nella possibilità di mutare un giorno il loro destino di povertà e di abbandono, l’interesse per certi beni immateriali come lo studio o la preghiera oltre che ovviamente per quelli materiali tante volte decisivi per poter sopravvivere.

Bisogna capire, in altri termini, che l’accoglienza, l’amicizia, si costruiscono non da una sola parte, dalla parte di chi riceve e ospita, ma da ambo le parti, anche se l’accogliente ha una responsabilità certamente maggiore di quella di chi viene accolto. La carità non è tanto questione di continua elargizione di denaro o di caseggiati sotto forma di elemosina, pur doverosa nei limiti delle effettive possibilità di ognuno, la quale in ogni caso sarebbe assolutamente inadeguata a risolvere il problema, quanto questione di seria e fattiva volontà di promuovere graduali e intelligenti forme di inserimento umano, morale, economico-produttivo, culturale e sociale a favore di immigrati non dotati di spiccata capacità di iniziativa o non capaci di interagire autonomamente e proficuamente con il circostante ambiente sociale. Ma la carità, sia detto chiaramente, non può essere neppure il trattamento di favore che venga concesso all’immigrato solo perché immigrato, e quindi politicamente redditizio per qualche partito, piuttosto che all’indigeno che abbia più titoli di lui per esercitare una determinata attività lavorativa o per abitare in una casa decente.

La carità si esercita non a dispetto dei diritti, delle leggi e delle ordinarie opportunità presenti in una società, a meno di clamorose violazioni politiche di fondamentali diritti naturali, ma nel rispetto di leggi, diritti, normali opportunità sociali, e soprattutto nel rispetto di un universale principio etico egualitario di origine biblico-evangelica secondo cui tutti devono avere secondo le proprie necessità ma anche secondo le proprie capacità e i propri meriti, anche se un’applicazione coerente e radicale di tale principio verrebbe implicando un notevole mutamento degli stessi sistemi economici e sociali occidentali tutt’ora esistenti. E in effetti la carità cristiana, che è frutto di cuore e di intelligenza ad un tempo, non ha nulla di paternalistico, nulla di retorico o di appariscente, nulla di luminosamente mediatico, ma è un modo rigoroso, riservato e silenzioso, talvolta scomodo o compromettente, e sicuramente efficace se non vincente di stare dalla parte di chi ha meno di noi o è meno fortunato di noi, tenendo sempre presente che ognuno di noi è “un mendicante” nei confronti di Dio.

E anche lo straniero, biblicamente ed evangelicamente parlando, deve essere accolto, vestito e sfamato, ove egli sia o si sforzi almeno a sua volta di essere rispettoso delle leggi e delle regole civili vigenti nel paese cui sia approdato e non pretenda di ottenere a tutti i costi, ovvero senza dover faticare o senza doversi sottoporre a trafile asfissianti cui in molte parti del mondo si sottopongono ogni giorno milioni di persone di tutte le razze e di tutte le aree geografiche, quello che non aveva potuto, saputo o voluto ottenere in patria. Dio protegge sempre lo straniero: con la stessa misericordia e la stessa giustizia con cui protegge in genere i più poveri e i più deboli, come i bambini e le vedove. E questo è uno dei punti focali su cui ognuno di noi sarà tenuto a rendergli conto.

Il rapporto con l’altro, con l’estraneo, con il diverso, pur oggetto di sofisticate e a volte oscure e involute teorizzazioni filosofiche (si pensi a quelle di Buber e Levinas, Ricoeur e Derrida, Cacciari e Kristeva, solo per fare dei nomi), continua ad avere nel contesto biblico-evangelico, opportunamente studiato e approfondito, la sua fonte primaria di comprensione conoscitiva e di esplicazione critico-concettuale. Laddove però è il caso di citare e ricordare la giusta avvertenza di un fine teologo quale il gesuita Pietro Bovati: «Il ricorso alla Scrittura non deve comunque essere falsato dal desiderio di trovarvi delle ‘soluzioni’ ai nostri problemi, nel senso di leggervi risposte pre-confezionate ai quesiti odierni. La Bibbia non vuole come lettori dei bambini, a cui sarebbe semplicemente chiesto di ripetere quanto è scritto e di eseguire alla lettera il suo dettato normativo; essa si rivolge invece a degli adulti, che hanno il dovere di interpretare le potenti suggestioni che vengono dai suoi racconti e dalle sue pagine normative, cosí da favorire orizzonti di accoglienza, prima di tutto come apertura mentale e poi come ospitalità nei confronti di chi si presenta, appunto, come straniero» (Lo straniero nella Bibbia, immesso in rete l’8 settembre 2011).

Niente di scolastico e di scontato, insomma, ma una ricerca ancora e sempre aperta di verità e umanità, una ricerca continua e assillante di cosa sia giusto fare o non fare ogni volta che si abbia a che fare con il prossimo, sia esso il connazionale bisognoso cui siamo accomunati magari dalla stessa fede, sia esso lo straniero di qualunque fede e di qualunque etnia che sia in attesa di essere aiutato a superare le sue difficoltà e le sue problematiche quotidiane.

I cattolici e l’omosessualità

Pare che anche tra i cattolici stiano crescendo rapidamente coloro che vorrebbero che la Chiesa cambiasse il suo tradizionale insegnamento sull’omosessualità. Questi sprovveduti ed insani sedicenti cattolici che dicono di non capire perché mai il matrimonio debba essere fondato esclusivamente sull’unione di un uomo e una donna e non su persone dello stesso sesso, vorrebbero poter conciliare nella loro vita l’inconciliabile: ovvero Cristo e il suo benedicente “crescete e moltiplicatevi” con il demonio e il suo primordiale ed atavico invito ad assecondare i propri desideri nel segno di una ineliminabile libertà personale.

Molti di questi cattolici “disubbidienti” ostentano una convinzione: che la gerarchia ecclesiastica abusi del suo potere religioso per imporre norme comportamentali che sarebbero lontane dalla logica evangelica. “Noi siamo credenti, non creduloni”: sembra vogliano dire! Su un noto giornale religioso (‘Toscana Oggi’) una certa Cinzia di Milano ha scritto recentemente: «Ma perché i cattolici quando si sfiora l’argomento omosessualità diventano incapaci di ragionare e di argomentare?…Sono convinta che viviamo in un tempo di grande oscurantismo in cui alla caduta vertiginosa delle istituzioni e dei poteri religiosi corrisponde un crescendo di fanatismo, che sostituisce l’idolatria verso la famiglia e il papa alla fede in Cristo e nella Pasqua».

In fin dei conti, continua questa lettrice, la stessa Chiesa non è stata forse oscurantista non troppo tempo fa quando in Paesi molto evoluti dal punto di vista civile essa si irrigidiva paranoicamente «se si metteva in discussione il diritto divino a possedere schiavi, o la parità di diritti delle donne rispetto agli uomini, ed altre situazioni meramente culturali, soggette al mutamento del tempo e dei costumi, e, grazie a Dio, alla sempre maggiore comprensione di ciò che lo Spirito non smette di dire alle Chiese»? Capite la grande pertinenza di questo paragone? Capite che è solo per bigottismo che la Chiesa ancor oggi non riesce a comprendere che l’omosessualità è una situazione meramente culturale destinata, come tante altre cose del passato, a mutare? Ma soprattutto bisogna rendersi conto, secondo Cinzia di Milano, che è lo Spirito a dire alle Chiese, pur se inascoltato, che la loro posizione in fatto di omosessualità è falsa e dispotica.

Davanti a posizioni, pare molto diffuse, come questa, è assolutamente inutile tentare di osservare «come i media manipolano l’opinione pubblica fornendo un’immagine “normalizzata” dei rapporti omosessuali, dipingendo i gay come vittime, demonizzando chi si oppone alle unioni tra persone dello stesso sesso». Anche perché, nel frattempo, accorrono a dare man forte a questi eroici fratelli e sorelle cattolici alcuni laici sempre pronti ad intervenire dovunque ci sia bisogno del loro acume per far progredire la verità, il senso di umanità e il diritto. Un certo Luca di Bologna, per esempio, sempre sulla rivista sopra citata, scrive di essere «davvero stanco di ascoltare queste litanie vuote da persone che hanno scelto liberamente la via della castità, poi magari non la praticano neppure loro, ma la impongono come giogo a tutti gli altri», come se ci fosse un nesso logico sia pure solo embrionale tra l’ipocrisia di chi per motivi religiosi o esistenziali avrebbe scelto la via della castità senza peraltro praticarla e il fatto auspicato che per questo stesso motivo il matrimonio non dovrebbe essere applicato solo agli eterosessuali ma esteso anche agli omosessuali.

Se uno è ipocrita, tale è e deve risponderne a Dio e alla sua coscienza. Ma perché mai la doverosa lotta alla ipocrisia dovrebbe implicare la legittimazione di pratiche omosessuali che vorrebbero spingersi sino al loro inquadramento in un rapporto di tipo matrimoniale? Logica proprio non ce n’é. Alla base di siffatti modi di ragionare o sragionare c’è invece un’evidentissima intenzione perversa volta a intorbidire le acque, conferendo legittimità morale ad abitudini di vita, a pratiche comportamentali, a teorizzazioni politiche e pseudoculturali, che in nessun’altra categoria possono essere annoverate se non in quella classica delle più antiche e funeste turpitudini dell’umanità.

Che è ciò che non potrà essere certo smentito dall’ardore “scientifico” con cui un altro laico o laica come Patti scaglia la sua invettiva contro i ciechi pastori cattolici: «Perché continuate a parlare di ciò che non conoscete? Perché continuate a tenervi incatenati ad argomentazione insufficienti, demagogiche, non scientifiche per dimostrare che il vostro fastidio viscerale e irrazionale per altri diversi da voi è giustificabile? Siete ciechi, guide di ciechi, conducete il gregge che vi è affidato verso il baratro».

Purtroppo, quello che tanti cattolici à la page e tanti laici illuminati fanno molta fatica ad ammettere è che l’ipocrisia potrebbe riguardare anche loro, ovvero la loro incapacità morale di rendere conto rigorosamente a se stessi e agli altri delle vere ed inconfessate ragioni che probabilmente stanno alla base delle loro presunte battaglie civili. Malvagi sarebbero, secondo loro, quei cattolici che si ostinano a giudicare l’omosessualità come malattia e il cosiddetto matrimonio omosessuale come aberrazione, mentre quest’ultimi non ritengono vi sia nulla di malvagio nel ricordare vigorosamente e onestamente che il modo migliore per valere umanamente e spiritualmente non è di razionalizzare le proprie debolezze dicendo che non lo sono ma di accettarle come tali senza assurde rivendicazioni etico-giuridiche e di vivere il più dignitosamente possibile quale che sia la nostra specifica condizione psico-fisica.

Quanto poi alla “scientificità” invocata dai teorici della natura non patologica della omosessualità e della legittimità morale delle pratiche omosessuali, è del tutto evidente come essi parlino a vampera dal momento che l’omosessualità rientra tra quelle numerose materie che si prestano ad essere facilmente manipolate e strumentalizzate, per cui obiettivamente non ci si può molto fidare degli scienziati e delle associazioni scientifiche da essi invocati. A ciò si deve aggiungere che ormai, dopo secoli di progressi scientifici ma anche di disillusioni scientifiche, risulta semplicemente irragionevole e quasi ridicola una fede assoluta nelle scienze, comprese ovviamente quelle non esatte, tant’è vero che persino su argomenti meno opinabili di quello relativo all’omosessualità si sentono luminari o presunti tali affermare cose totalmente diverse. Cosí come, va precisato, irragionevole e talvolta patetico è il richiamarsi di quelle menti evolute, che mettono in discussione e anzi irridono testi sacri e credenze religiose, a tutte quelle pompose istituzioni ufficiali internazionali o sovranazionali che sono in realtà ambienti molto meno “puri e incontaminati” di quanto si potrebbe pensare ovvero centri di studio e di ricerca ma soprattutto di potere “con finalità tutt’altro che commendevoli”.

Se si vuole, è altrettanto vero, a prescindere dalla spiritualità di ciascuno, che non poca parte delle istituzioni religiose, ufficiali e non, esistenti al mondo, rientrano nella categoria della “impostura”, ma “una cosa non esclude l’altra”. E, dunque, a tutti coloro, ivi inclusi purtroppo molti nostri fratelli e sorelle cattolici, che, in buona o in cattiva fede, ma alla fine pur sempre irresponsabilmente e colpevolmente, danno sostegno, con argomentazioni pseudocaritatevoli e pseudoumanitarie, a idee tanto fallaci quanto dannose alla società umana oltre che alla salute spirituale di tanti singoli individui, i cattolici che ogni giorno si rivolgono a Gesù e a Maria per il bene del mondo e per il bene proprio, i cattolici che amano la Chiesa di Cristo anche o soprattutto quando essa è in difficoltà per sue proprie debolezze e responsabilità, non devono stancarsi di ripetere, pur senza mai perdere di vista la distinzione tra l’errore e l’errante, che una perversione è una perversione e il Signore non consentirà a nessuno di conseguire impunemente fini perversi! Ove, naturalmente, non si intende alludere a tanti fratelli e sorelle omosessuali che riconoscono onestamente il loro handicap e sanno affrontare ugualmente la loro vita con tanta serenità e dignità.

I cattolici non hanno bisogno di discorsi troppo complicati per capire che gli esseri umani non si amano per categorie ma nella loro concreta e inconfondibile individualità. Essi ritengono quindi un non senso il voler parlare di omosessuali ed eterosessuali per rilasciare in astratto patenti di normalità ai secondi e di anormalità ai primi, perché in realtà esistono tanti eterosessuali anormali e tanti omosessuali normali quanto a vita morale e a capacità di esercitare correttamente e proficuamente le proprie qualità intellettive e morali. I cattolici possono sentirsi spiritualmente più vicini a un omosessuale piuttosto che ad un eterosessuale se il primo, diversamente dal secondo, è una persona sensibile, onesta e capace di distinguere tra vero e falso, tra la virtù e il vizio. Tutto dipende da chi abbiamo davanti, da colui o da colei con cui concretamente entriamo in relazione. Detto questo, i cattolici degni di questo nome hanno una certezza: quella non già semplicemente di pensare ma di sapere che esiste una Verità con la V maiuscola di cui le verità scientifiche (quelle reali e non spacciate per tali), pur importantissime, sono frammenti, frammenti significativi e oltremodo utili alla nostra vita, ma pur sempre frammenti, per cui i beneficiari di un incontro non fugace o occasionale ma stabile e reiterato con quella Verità non possono non essere immuni da dubbi e perplessità su questioni umanamente, moralmente e socialmente cosí rilevanti come quella qui discussa.

Ci sono, tra i cattolici, alcuni che contrappongono la Chiesa alle singole chiese, per sottolineare la ipotetica sordità della prima e lo spirito profetico e solidale delle seconde. E’ sperabile che, entro certi limiti, Chiesa centrale e chiese territoriali stiano fra esse in un fecondo rapporto dialettico, anche se, da quel che si legge e si esperisce quotidianamente, non di rado le chiese locali si prestano ad interpretazioni sentimentalistiche e riduttive quando non manifestamente gratuite ed arbitrarie del vangelo che possono risultare ora troppo repressive, ora troppo permissive. Come avviene, per esempio, nel caso di quelle strane e non episodiche richieste di fedeli tendenti ad ottenere dai propri parroci la celebrazione della Santa Messa esclusivamente per omosessuali.

Dovrebbe essere chiaro che la Santa Messa si celebra sempre per tutti, non per qualcuno in particolare. Di certo, non può essere celebrata per chi, attraverso essa, vorrebbe acquisire maggiore visibilità sociale per sé e le proprie perversioni. In quest’ultimo caso, quei sacerdoti che accettassero di celebrarla, sarebbero semplicemente da espellere dalla comunità ecclesiale, la quale dev’essere misericordiosa verso coloro che riconoscono i propri peccati ma non verso coloro che ai propri peccati vorrebbero si riconoscesse carattere di “normalità”.

Una volta, proprio nell’esprimere questo concetto in un pubblico dibattito, mi sono sentito rispondere, non saprei se da un laico o da un credente, che “quando leggo commenti come il tuo mi vengono i brividi, la nausea; il solo pensiero che esista gente esaltata come te che in nome di una religione mette mano alla torcia e al forcone per infilzare il prossimo per poi vomitare parole come pace e fratellanza mi fa venire il voltastomaco. Duemila anni di medioevo”.

La mia risposta, che estendo qui a tutti quei lettori che dovessero dissentire da ciò che si è venuto fin qui sostenendo, fu ed è la seguente: fatevi pure venire i brividi, la nausea e il voltastomaco: può darsi che siano sintomi della vostra possibile guarigione, sperando che non siano invece sintomi della vostra inguaribile malattia. Se i miei commenti vi suscitano queste reazioni, è evidente che non siete preparati a commenti di questa natura. Ma se siete allergici a certi commenti, non è detto che la colpa sia di chi li fa, perché può anche darsi che sia di chi non è in grado di capirli e di assimilarli. Però, con un pò di pazienza si può cercare di migliorarsi. Duemila anni di medioevo? Non sapete che anche il Medioevo ha prodotto grandi opere di civiltà e di pensiero?

D’altra parte, teorici oltranzisti e violenti dell’omosessualismo come per esempio Franco Grillini e Paola Concia, non concedono neppure che, contrariamente a quanto ammesso dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, l’omosessualità non sia immutabile, condannando la libertà di scelta di quei soggetti  omosessuali che domandano un aiuto per mettere ordine nella loro vita sessuale, ritrovando magari una identità personale che si credeva perduta. Questi personaggi, rappresentativi di tutta un’umanità non solo frustrata ma violenta, tentano di intimidire non solo quegli omosessuali che desiderano guarire dalla loro omosessualità ma anche coloro che sono disposti ad aiutarli. Ed è questo clima violento che lo psicologo Robert Perloff, un ex presidente della famosa APA (American Psycological Association), ovvero della Mecca o della Bibbia scientifica di tutti gli omosessuali fanatici del pianeta, ha inteso stigmatizzare con la sua adesione nel 2004 alla Narth, associazione di psicologi che si prende cura di persone con omosessualità indesiderata.

Nel 2011 un altro ex presidente dell’APA, e ancora più noto e influente di Perloff, cioè il dott. Nicholas Cummings, ha preso posizione proprio contro l’associazione di cui è stato presidente accusandola di posizioni politiche e non scientifiche. Dalla sua relazione ufficiale apparsa sul sito www.narth.com, ovvero la Società psichiatrica cui anche Cummings ha aderito, si apprende che egli dubitava da diverso tempo, come scienziato, della correttezza del gruppo direttivo dell’APA, influenzata più dalla politica, e dal politicamente corretto cosí caro a talune potenti lobbies americane, che dalla scienza. Insomma, anche dal punto di vista scientifico non pare proprio che gli omosessualisti possano rallegrarsi.

Infine, un’ultima precisazione. E’ invalsa la singolare abitudine di considerare sempre e comunque di destra, cioè un retrogrado e un reazionario, quel cattolico che dice no a divorzio, aborto, unioni omosessuali, e via dicendo. Non che abbiano importanza certe definizioni e certe categorie culturali, dal valore pur sempre relativo, di questo nostro mondo, ma è solo per rilevare il semplicismo estremo di determinati giudizi e valutazioni, per sfatare la banalità di taluni luoghi comuni, che è qui opportuno aggiungere quanto segue. Chi scrive, posto che ci si possa in qualche modo intendere attraverso l’uso delle etichette di cui sopra, non si è mai sentito di destra quanto piuttosto di sinistra, anche se di una sinistra cristiana che non ha mai visto compiutamente rappresentata né nel cattolicesimo politico e istituzionale, né nei movimenti cattolici di sinistra né nelle formazioni tradizionali e canoniche della sinistra politica.

Come uomo di sinistra che trova oggi il suo principale punto di riferimento nel Vangelo di Cristo, penso che le pratiche omosessuali non siano né normali né legittime, pur esprimendo ferma riprovazione verso coloro che usano violenza privatamente o pubblicamente verso gli omosessuali, specie ove si tratti di omosessuali civili e non provocatoriamente esibizionisti.