- Gli intellettuali e il rapporto disarmonico tra ceto ecclesiastico cattolico e messaggio evangelico.
Se la Chiesa cattolica, nel corso di due millenni di storia, ha subìto spesso giudizi e commenti critici abbastanza malevoli da parte di celebri intellettuali, ciò sarà accaduto probabilmente per qualche buona ragione, non certo per un semplice capriccio o per semplici bizzarrìe comportamentali. Se il messaggio evangelico ha sempre goduto di rispetto e venerazione, mentre le gerarchie ecclesiastiche sono state spesso oggetto di vituperio e feroce critica, è evidente che l’origine di ogni sospetto fatto cadere sulla Chiesa risiede verosimilmente nella percezione soggettiva ma ricorrente di molti osservatori di un rapporto non simbiotico ma piuttosto disarmonico tra ceto ecclesiastico e curiale e limpidezza originaria e costitutiva del messaggio evangelico.
In questo senso gli intellettuali di tutte le epoche storiche hanno molto contribuito ad evidenziare come le prime e più insidiose fonti del discredito gettato sulla “buona novella” siano interne e non esterne alla Chiesa. Preti, frati, vescovi, cardinali, prelati di qualunque categoria gerarchica, e anche papi, sono proprio essi che hanno concorso, spesso in modo irrimediabile, ad offuscarne l’attendibilità spirituale e a tradirne lo spirito delle origini: si può ben dire che Giuda, autoesclusosi dal gruppo apostolico dei dodici, sia però infelicemente sopravvissuto nella storia della Chiesa diventandone anzi col tempo una delle figure istituzionali più inquietanti, anche se fortunatamente accanto ad altre che avrebbero saputo limitarne i danni. Solo per rimanere qui all’elenco di intellettuali italiani una volta incisivamente stilato da uno studioso laico di problemi religiosi come Elio Rindone, ci si può rendere conto di come la loro critica implicita e più frequente alla Chiesa sia non già quella di essere un’istituzione abusiva sorta per ragioni non religiose ma ideologiche e di potere, ma quella di aver rinnegato non di rado il mandato ricevuto da Cristo di gelosa custode delle verità non solo da lui pensate e proclamate quanto soprattutto vissute e tradotte in potente e vitale fermento di vita. Continua a leggere

L’intellettuale critico, l’intellettuale controcorrente, non l’intellettuale cane da guardia del potere capitalistico, è realmente condannato ad identificarsi con la parte dominata della classe dominante, quella a cui deve risultare funzionale e vendere in pari tempo il proprio sapere, in quanto, in caso contrario, sarebbe fatto fuori, neutralizzato, non venendogli più consentito di produrre al fine di riprodurre la propria forza lavoro e di creare valore per la propria e altrui sussistenza? E’ difficile dare una risposta univoca a questa domanda, anche se, per esperienza personale, sarei tentato di rispondere che, in alcuni casi particolarmente fortunati, l’intellettuale a pieno titolo potrebbe anche sopravvivere all’ostracismo delle istituzioni accademiche, universitarie e scientifiche, e alla competitività selettiva spesso irrazionale del mercato.
Non è ancora molto nota in Europa e in Italia la figura di Ivan Ilyin, un filosofo russo vissuto tra fine ’800 e metà ‘900, molto citato nei suoi discorsi da Putin e ben conosciuto nella stretta cerchia dei suoi più fidati oligarchi. Aristocratico moscovita di nascita e di ideali nazionalistici, benché di idee anarchiche in giovinezza secondo un costume molto diffuso tra i figli dell’aristocrazia russa prima della rivoluzione bolscevica del 1917, riteneva che la Russia avesse una missione imperiale, espansionistica, da compiere in Europa e, sia pure indirettamente, nel mondo intero, al fine di poter preparare il ritorno di Dio sulla terra e il giudizio con cui avrebbe giudicato i popoli. Fu anticomunista e antidemocratico e, in quanto controrivoluzionario, fu esiliato insieme a molti altri intellettuali, ottenendo poi una cattedra universitaria in Germania, dove avrebbe insegnato e manifestato la sua ammirazione prima per il fascismo nazionalista di Mussolini, poi per il nazionalsocialismo di Hitler.
Dice lo storico dell’arte Montanari: se a parlare di “Resistenza” sono gli ucraini, questa parola merita rispetto e sofferta solidarietà per la loro terribile sorte, mentre se ad esaltare la resistenza ucraina sono politici e giornalisti italiani, essa assume un vieto significato retorico, condito peraltro di un “militarismo da divano”. Ma anche il suo pacifismo è da divano e non è affatto detto che esso sia meno “imbarazzante e penoso” del militarismo altrui, specialmente quando afferma che non possiamo continuare a dare armi e opportunità tecnologico-militari sempre più efficienti e letali perché in tal modo aumenta in modo esponenziale il rischio di un conflitto nucleare che sarebbe fatale per l’umanità. Ragionamento impeccabile! Gli altri possono crepare, ma per quale motivo bisogna fare in modo che a crepare sia tutta l’umanità? Come se, nel nome del diritto del genere umano ad esistere al di là degli eventi efferati della vita ordinaria e della storia, fosse umanamente normale assistere da spettatori inerti allo straziante genocidio di un popolo che si consuma sotto gli occhi di milioni di persone. Da un punto di vista tanto laico quanto evangelico, cristiano e cattolico, l’umanità non ha questo diritto di continuare a vivere o a sopravvivere anche se un suo membro venga colpito a morte dalla belluina ferocia di un criminale senza scrupoli, perché quello stesso criminale, vedendosi incoraggiato dalla inerzia del mondo, potrebbe continuare a colpire altri membri dell’umanità, ma innanzitutto perché, da che mondo è mondo, i criminali, sia secondo il diritto internazionale che secondo l’etica universale dei popoli e la religiosità naturale o positiva radicata in ognuno di essi, vanno bloccati, vanno arrestati in tutti i sensi possibili e immaginabili nel più breve tempo possibile e in modi altamente efficaci.
La guerra, suprema esasperazione individuale e collettiva della pulsione omicida, è sempre possibile e questa possibilità, nella storia umana, non si può abolire perché la sua abolizione, in un’ottica cattolica, richiederebbe l’abolizione del peccato originale, germe di ogni umana iniquità, che si può contrastare, tenere lontano, rimuovere continuamente attraverso una vita spirituale e sacramentale di pentimento e di conversione sostenuta e alimentata dalla grazia divina, ma che non si può estirpare in modo stabile, totale, radicale, se non auspicabilmente dopo la morte, quando ogni singola esistenza, vagliata da Dio, verrà liberata per sempre, attraverso un processo ontologico di trasformazione fisica e spirituale, dal peccato, dal dolore e dalla morte, o al contrario condannata a sperimentare per l’eternità le malefiche conseguenze di una vita terrena trascorsa fino alla fine nella colpa e nella insubordinazione alla volontà di Dio.