Non so se avesse completamente ragione Bauman nell’affermare che, nel periodo di transizione dalla modernità alla postmodernità, gli intellettuali, in quanto specifica categoria storico-sociologica nata nel contesto illuministico e meglio caratterizzatasi poi sul finire dell’800 per la sua specifica e duplice funzione di critica sociale e critica del potere, sarebbero venuti gradualmente smarrendo la loro originaria e universalistica funzione di “legislatori”, termine a mio avviso usato impropriamente dal sociologo polacco (meglio sarebbe stato limitarsi ad usare un termine come “giudice culturale”), ovvero la funzione di affrontare e dirimere con indiscussa autorevolezza critica le grandi e generali questioni della verità, dell’eticità e dei costumi sociali della loro epoca, per assumere un più dimesso ruolo di “interprete”, consistente nel ridurre il grado di incomprensione e di incomunicabilità tra tradizioni diverse di pensiero e di cultura e nel descrivere, quanto più analiticamente possibile, la problematicità, la contraddittorietà, la complessità dei processi in atto, anche se la natura per così dire “tecnica”, neutrale, imparziale, di questo approccio programmaticamente non più valutativo, ideologico e politico ma, per l’appunto, basato su giudizi avalutativi, descrittivi, ermeneutico-esplicativi, si sarebbe presto rivelata illusoria1.
Non so se e in che misura Bauman avesse ragione, ma d’altra parte è naturale che storicamente anche le forme dell’intellettualità, dell’essere intellettuali, siano soggette a mutare, pur senza necessariamente perdere la loro costitutiva vocazione all’universalità. Per esempio, non si può dire che un giornalista postmoderno e postcomunista come Piero Sansonetti sia un intellettuale più descrittivo, più obiettivo e imparziale di quanto non lo fossero certi eminenti intellettuali del primo novecento, magari solo per via di un linguaggio più leggero, agile ed essenziale, anche se meno analitico, meno problematico, meno esauriente ed esaustivo, quale dev’essere quello di chi scrive quotidianamente articoli per i giornali. Ora, proprio un “interprete”, direbbe Bauman, come l’intellettuale democratico-libertario Sansonetti, si chiedeva sarcasticamente, sulle colonne di “Liberazione”, che fine avessero fatto, all’indomani dell’elezione pontificia di Joseph Ratzinger, tutti quei cattolici democratici che per tutta la seconda metà del ’900 avevano contribuito attivamente allo sviluppo della società civile e del sistema democratico, spesso ponendosi come mediazione sensibile e intelligente tra società laica e società religiosa, tra comunità sociale e Chiesa gerarchica, oscurantista e totalitaria, lamentando che quegli stessi intellettuali assistessero ora pavidamente, sotto il pontificato di un papa “reazionario” come Benedetto XVI (questo, in sostanza, era il giudizio che ne dava), allo smantellamento di quella che era stata, negli anni sessanta, la grande costruzione conciliare. E, per contrasto alla pochezza intellettuale che caratterizzava la scena dei cattolici italiani nell’era del papa tedesco, sciorinava tutta una serie di nomi di famosi intellettuali cattolici del bel tempo andato, da Ernesto Balducci a Lorenzo Milani, da Adriani Zarri a padre Turoldo, dai più moderati Pietro Scoppola e Achille Ardigò a sindacalisti combattivi come Livio Labor o Pierre Carniti e, infine, a parlamentari, filosofi ed economisti come Franco Ròdano, Giuseppe Gozzini, Claudio Napoleoni. Tutti nomi noti, se si vuole anche celebri e popolari, più che altro per le frequenti celebrazioni giornalistiche loro dedicate per via del particolare piglio caratteriale e di una certa carica critico-contestativa non identica per tutti indistintamente, che ne caratterizzavano gli studi e le prese di posizione spesso polemiche su questioni culturali o di quotidiana attualità, e che soprattutto riempivano i giornali a causa di quel loro cattolicesimo talvolta controcorrente o antistituzionale. Continua a leggere
Accademico solo per collocazione professionale, non certo per mentalità e metodologia di lavoro, intellettuale atipico e anticonformista ancora oggi abbastanza misconosciuto e sottovalutato. Di scrittura non sempre chiara, lineare e ordinata, benché significativa ed originale su temi essenziali, ma teoricamente e concettualmente lucido; militante cattolico alieno da ogni forma di bigottismo e di ideologia religiosa, ma dedito a servire la causa evangelica con uno spirito missionario talvolta sin troppo zelante e inquieto. Intellettuale imparziale ma non neutrale, realista ma controcorrente e inattuale. Un uomo di fede con la passione del finito e del sociale ma con l’ansia esistenziale dell’infinito e dell’eterno, un apostolo laico e un pensatore cattolico con la vocazione a indagare le corde più sensibili e vitali dell’esistenza personale e a produrre conoscenza in funzione di una piena ma realistica emancipazione dell’uomo-operaio nel quadro di comunità piccole ma solidali di lavoro.
Se la Chiesa cattolica, nel corso di due millenni di storia, ha subìto spesso giudizi e commenti critici abbastanza malevoli da parte di celebri intellettuali, ciò sarà accaduto probabilmente per qualche buona ragione, non certo per un semplice capriccio o per semplici bizzarrìe comportamentali. Se il messaggio evangelico ha sempre goduto di rispetto e venerazione, mentre le gerarchie ecclesiastiche sono state spesso oggetto di vituperio e feroce critica, è evidente che l’origine di ogni sospetto fatto cadere sulla Chiesa risiede verosimilmente nella percezione soggettiva ma ricorrente di molti osservatori di un rapporto non simbiotico ma piuttosto disarmonico tra ceto ecclesiastico e curiale e limpidezza originaria e costitutiva del messaggio evangelico.
L’intellettuale critico, l’intellettuale controcorrente, non l’intellettuale cane da guardia del potere capitalistico, è realmente condannato ad identificarsi con la parte dominata della classe dominante, quella a cui deve risultare funzionale e vendere in pari tempo il proprio sapere, in quanto, in caso contrario, sarebbe fatto fuori, neutralizzato, non venendogli più consentito di produrre al fine di riprodurre la propria forza lavoro e di creare valore per la propria e altrui sussistenza? E’ difficile dare una risposta univoca a questa domanda, anche se, per esperienza personale, sarei tentato di rispondere che, in alcuni casi particolarmente fortunati, l’intellettuale a pieno titolo potrebbe anche sopravvivere all’ostracismo delle istituzioni accademiche, universitarie e scientifiche, e alla competitività selettiva spesso irrazionale del mercato.
Non è ancora molto nota in Europa e in Italia la figura di Ivan Ilyin, un filosofo russo vissuto tra fine ’800 e metà ‘900, molto citato nei suoi discorsi da Putin e ben conosciuto nella stretta cerchia dei suoi più fidati oligarchi. Aristocratico moscovita di nascita e di ideali nazionalistici, benché di idee anarchiche in giovinezza secondo un costume molto diffuso tra i figli dell’aristocrazia russa prima della rivoluzione bolscevica del 1917, riteneva che la Russia avesse una missione imperiale, espansionistica, da compiere in Europa e, sia pure indirettamente, nel mondo intero, al fine di poter preparare il ritorno di Dio sulla terra e il giudizio con cui avrebbe giudicato i popoli. Fu anticomunista e antidemocratico e, in quanto controrivoluzionario, fu esiliato insieme a molti altri intellettuali, ottenendo poi una cattedra universitaria in Germania, dove avrebbe insegnato e manifestato la sua ammirazione prima per il fascismo nazionalista di Mussolini, poi per il nazionalsocialismo di Hitler.
Dice lo storico dell’arte Montanari: se a parlare di “Resistenza” sono gli ucraini, questa parola merita rispetto e sofferta solidarietà per la loro terribile sorte, mentre se ad esaltare la resistenza ucraina sono politici e giornalisti italiani, essa assume un vieto significato retorico, condito peraltro di un “militarismo da divano”. Ma anche il suo pacifismo è da divano e non è affatto detto che esso sia meno “imbarazzante e penoso” del militarismo altrui, specialmente quando afferma che non possiamo continuare a dare armi e opportunità tecnologico-militari sempre più efficienti e letali perché in tal modo aumenta in modo esponenziale il rischio di un conflitto nucleare che sarebbe fatale per l’umanità. Ragionamento impeccabile! Gli altri possono crepare, ma per quale motivo bisogna fare in modo che a crepare sia tutta l’umanità? Come se, nel nome del diritto del genere umano ad esistere al di là degli eventi efferati della vita ordinaria e della storia, fosse umanamente normale assistere da spettatori inerti allo straziante genocidio di un popolo che si consuma sotto gli occhi di milioni di persone. Da un punto di vista tanto laico quanto evangelico, cristiano e cattolico, l’umanità non ha questo diritto di continuare a vivere o a sopravvivere anche se un suo membro venga colpito a morte dalla belluina ferocia di un criminale senza scrupoli, perché quello stesso criminale, vedendosi incoraggiato dalla inerzia del mondo, potrebbe continuare a colpire altri membri dell’umanità, ma innanzitutto perché, da che mondo è mondo, i criminali, sia secondo il diritto internazionale che secondo l’etica universale dei popoli e la religiosità naturale o positiva radicata in ognuno di essi, vanno bloccati, vanno arrestati in tutti i sensi possibili e immaginabili nel più breve tempo possibile e in modi altamente efficaci.