Per il centodecimo anniversario della nascita di Ludovico Geymonat

Ludovico Geymonat nasce a Torino l’11 maggio del 1908. Egli non è stato solo uno dei filosofi della scienza più eminenti del XX secolo ma anche un lucido e appassionato sostenitore di un ideale democratico strettamente ancorato alla scienza moderna o, più esattamente, a quelle che il filosofo piemontese riteneva essere le caratteristiche costitutive ed imprescindibili del sapere scientifico moderno. Lunga e appassionata è stata infatti la lotta di Geymonat per l’affermazione di una cultura scientifica nel nostro paese, ritenendo egli legittima solo una prassi politico-culturale che si ispirasse ad un ideale scientifico di tipo illuministico.

In un suo libro edito da Il Saggiatore nel 1979, “Paradossi e rivoluzioni”, egli non ricostruiva solo la sua opera filosofica e scientifica ma anche quella parallela di uomo responsabilmente impegnato nella vita sociale e politica e nella difesa dei fondamentali valori democratici. Indicava i principali caratteri della scienza nel suo valore conoscitivo e nella sua oggettività oltre che nella sua storicità e nella sua relatività, nella sua non neutralità filosofica e nel suo ruolo intrinsecamente rivoluzionario nella società e nella storia, nella sua natura strutturalmente antideologica sia pure nella distinzione tra contenuti scientifici e possibili usi politici di essi, nella sua implicita postulazione di un necessario superamento del puro specialismo scientifico nel quadro di una sistematica esplicitazione filosofica dei «rapporti fra conquiste specialistiche e totalità delle conoscenze» (cit. p. 13).

Il giudizio geymonatiano sulla democrazia italiana era il prodotto del suo duplice interesse e impegno: la chiarificazione, per l’appunto, della razionalità scientifico-filosofica, e poi il confronto teso e serrato ma anche molto polemico con la teoria e la prassi politica del mondo marxista e comunista italiano. Dunque, egli sosteneva che, cosí come nella scienza non si danno teorie e verità assolute e definitive ma relative  oggettive e sempre suscettibili di revisione e ulteriore approfondimento, anche nel mondo storico-politico-istituzionale non vi sono né assetti sociali ed economici, né princípi ed organismi politico-istituzionali assolutamente e definitivamente stabili ed immodificabili. Quanto allo specifico riferimento alla democrazia, ne consegue l’impossibilità di identificare la migliore democrazia con questa democrazia, cioè con una forma storicamente data di democrazia.

Analizzando razionalmente la realtà storica della democrazia occidentale, Geymonat ne percepiva bene la complessità, le articolazioni e le contraddizioni, e rilevava come essa fosse ormai al centro di un processo inarrestabile di crisi e di mutamento: quale «significato conservano, per esempio, i Parlamenti, quando si sa che i veri centri decisionali…sono in realtà le segreterie dei grandi partiti?» — egli, ancora lontano dalla nascita della Unione Europea, non immaginava che solo vent’anni più tardi anche le segreterie dei partiti in realtà si sarebbero trovati il più delle volte nella condizione di poter semplicemente ratificare decisioni prese altrove e da centri decisionali politico-finanziari internazionali; «che significato conserva il principio della libertà di stampa, quando è universalmente noto che soprattutto la stampa periodica è manovrata in modo completo o dai partiti o dai grandi gruppi finanziari, cosicché le nuove iniziative che tentano di fuoriuscire da questo quadro falliscono in breve tempo?» (Geymonat, La ragione e la politica. Interventi 1976-1986, a cura di M. Quaranta, Verona, Bertani Editore, 1987, p. 97).

Egli coglieva una evidente contraddizione strutturale dei sistemi democratici occidentali, e più segnatamente di quelli italiani, nel crescente contrasto tra partiti e società civile, tra un sempre più rigido burocratismo dei primi e istanze sociali e culturali non solo emergenti nella seconda ma anche e soprattutto estranee o refrattarie a pratiche o a trattamenti di tipo burocratico. Ecco perché non era possibile, a suo avviso, ritenere quella democrazia, o meglio quella o quelle forme storiche di democrazia, insostituibile o insuperabile, allo stesso modo di come era palesemente infondata la pretesa per cui una particolare teoria scientifica, per quanto collaudata e feconda, potesse essere dichiarata scientificamente insuperabile. Per Geymonat i fatti erano più che evidenti in quanto i cosiddetti partiti di massa erano in realtà estranei alla volontà e ai bisogni delle masse popolari: «Sappiamo che gli accordi si fanno al vertice» e che sono i vertici dei partiti, senza un adeguato collegamento con le basi popolari di riferimento, a decidere «cosa è bene, cosa è desiderabile» per coloro che essi rappresentano (Paradossi e rivoluzioni, cit., p. 127).

La democrazia esige che il rispetto e la difesa degli interessi di parte dei ceti più deboli e svantaggiati siano non già rimossi, depotenziati o ignorati, ma assunti pienamente e al di fuori di compromessi al ribasso nell’agenda politica dei partiti di riferimento anche se con modalità e tempi quanto più possibili compatibili con la tenuta oggettiva delle dinamiche economico-finanziarie e politico-sociali dell’intera nazione. Geymonat faceva questo ragionamento in un’epoca in cui, almeno in Italia, i presidenti della Repubblica non avevano l’ardire, per motivi prettamente “istituzionali” (quasi che le istituzioni vivano di vita propria rispetto alla vita e alle condizioni reali della società) e nel nome di più alti interessi “europei” (quasi che i bilanci europei possano o debbano condannare i bilanci nazionali a “tagli” e a rinunce perennemente e pesantemente non solo impopolari ma decisamente antipopolari), di invitare le forze politiche e parlamentari ad accantonare “gli interessi di parte” (vedi oggi Mattarella), specialmente ove si tratti di far nascere un nuovo governo. E quindi, anche per questo, picchiava duro sui partiti, ivi compresi naturalmente quelli di centrosinistra e lo stesso partito comunista ormai su posizioni molto moderate, nell’osservare che, se anche accadeva che i partiti fossero talvolta sensibili alle richieste e alle aspettative popolari, non c’era da illudersi essendo volta essenzialmente la loro sensibilità a neutralizzare quest’ultime reinserendole in una “logica di partito”.

Il partito della contemporanea democrazia di massa era ormai diventato, sottolineava il filosofo torinese, «un’industria con una sua direzione, la possibilità di garantire posti di lavoro e clientele», anche perché nel frattempo le masse sono diventate oltremodo “passive” e acquiescenti, per cui «il loro unico ruolo è quello di ricevere soluzioni calate dall’alto» (La ragione e la politica, cit., p. 82).  Se fosse ancora vivo, Geymonat oggi avrebbe constatato che invece le masse a volte reagiscono con grande e inopinato vigore, specialmente se il lavoro sia diventato merce rarissima e sconosciuta ai più, pur affidando improvvidamente le proprie speranze di riscatto a gruppi politici nati dal nulla che, approfittando di un malcontento sociale molto diffuso e mossi prevalentemente da spirito opportunistico di ricchezza e di potere, facciano della demagogia la loro arma migliore. Ma Geymonat, uomo di scienza e di cultura, avrebbe espresso di certo parole roventi verso un movimento politico, privo di idee e di ideali, quale il cosiddetto 5 Stelle.

  (prima parte)

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