Michelstaedter o dell’irregolarità filosofica

Questo scritto è dedicato a quei grandi e non mediocri accademici che, giustamente o ingiustamente, ai pochi ostinati seppur persuasi “irregolari” del pensiero come Michelstaedter preferiscono e continueranno a preferire, sino alla fine dei tempi, schiere di individui anonimi ma ben esercitati nel dire e nel ripetere, con linguaggio rigorosamente canonico, ovvie e sublimi profondità di pensiero retoricamente pensato.

Nessuno può dire cosa sarebbe stato del pensiero filosofico di Carlo Michelstaedter, morto suicida nel 1910, se non si fosse tolto la vita a soli 23 anni di età. Tre sono le opere principali che ha lasciato: La persuasione e la rettorica, pubblicata postuma nel 1913, Il dialogo della salute e altri dialoghi, anch’essa pubblicata postuma nel 1912, La melodia del giovane divino. Pensieri, racconti, critiche, una raccolta di scritti prodotti tra il 1905 e il 1910, alle quali, a parte le composizioni poetiche, va aggiunto l’importante e vivace epistolario1. Sono opere le cui tematiche sarebbero state certo suscettibili di ulteriori e interessanti sviluppi, ma che già in se stesse contengono un pensiero non convenzionale e creativamente anticonformistico in un contesto storico-filosofico in cui andavano ancora molto di moda i sistemi filosofici e le interrogazioni metafisiche sui grandi problemi dello spirito ai quali tutti gli accidenti, i drammi, i lutti della vita e della storia si riteneva, sia pure per vie talvolta molto diverse, di poter ridurre. Invece, per Carlo, ciò che vi è di realmente e assolutamente irriducibile è l’individuo che non può sperare di trovare la sua natura, la sua identità, in ciò che gli è esterno, vale a dire l’ambiente sociale, la storia, il sapere oggettivo, gli altri, ma solo ciò che gli appartenga consapevolmente e intimamente: l’io rimarrà sempre separato dalle cose e dalle persone che pure tende continuamente a conoscere e a “possedere”, per trovarsi quanto più possibile in compagnia e in sintonia con esse, per dare qualcosa di suo ad esse e da esse ricevere qualcosa di loro.

Ma questo movimento che l’io compie per raggiungere una unità col mondo e i simili e risalire alla propria identità personale, si rivela illusorio, perché, persino per il rapporto più complice e più intimo che possa darsi, quello tra due amanti, quell’unità identitaria risulterà irraggiungibile, in quanto, si legge, gli amanti «saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro»2. Cerchiamo quindi inutilmente noi stessi negli altri, nell’altro, nel futuro, senza però renderci conto di fuggire continuamente dal nostro io, da noi stessi. L’alternativa a questa fuga dal è offerta, per Michelstaedter, dalla capacità di raggiungere una persuasione immobile, chiusa, compiuta, presente e in sé perfetta, che non possa regredire né verso il passato o il ripensamento del passato, né verso il futuro o l’immaginazione di ciò che di nuovo e inatteso esso potrebbe riservarci: una persuasione sempre presente, mai sbilanciata verso ciò che è stato o ciò che potrà essere, e capace di fotografare il sé in un suo invariabile presente, non più soggetto agli inevitabili mutamenti esterni, ovvero temporali, psicologici e culturali, che nell’io potrebbero pur sempre produrre ripercussioni. Un presente irripetibile e originale, perché esclusivamente mio, in cui venga come ad essere fedelmente riprodotta la vita nella sua essenziale valorialità, e che, non potendo essere scalfito neppure dopo la morte, solo da essa e in essa, dalla e nella sua accettazione, possa essere pienamente garantito. La vita non è nelle cose, nelle relazioni sociali, negli scambi e nei confronti culturali, la vita è solo quella che resta in me, nonostante l’ininterrotto flusso di dati, di esperienze, di incontri, di conoscenze, che attraversano lo spazio vitale della mia individuale esistenza, che si conferma irriducibile agli altri e ad altro o irriducibilmente diversa dagli altri e dall’altro. Può essere vita di maggior o minor valore, ma il senso della vita è sempre e solo quello che l’io le riconosce.

Questa vita, ritratta e veicolata dalla persuasione, è la vita del mio limite, della mia mancanza, del mio bisogno, destinati tuttavia a rimanere insoddisfatti, perché né Dio, né i valori della tradizione o della famiglia, né i valori della patria, né quelli dell’amicizia e del sentimento amoroso, sono fattori connaturati all’individuo e immediatamente interiorizzabili come valori dell’individuo, ponendosi a loro volta come qualcosa di illusoriamente funzionale a dare senso alla vita, ad allontanare dall’io la paura della morte. Anzi, la nostra vita, sul piano empirico-fattuale, è proprio questo: paura della morte, che si cerca di esorcizzare con il sapere, i sentimenti, i rapporti familiari ed umani, la religione, ma è questa paura che ci impedisce di vivere realmente: «Chi teme la morte è già morto»3. Il persuaso, invece, non la teme, ben sapendo e accettando che essa possa subentrare in ogni e qualunque momento della sua esistenza. E’ anzi pronto a morire senza garanzie e consolazioni spirituali di alcun genere: ne va della capacità e del merito morale di poter vivere in modo autentico. Certo, ne consegue uno stato di solitudine e sofferenza, ma è il prezzo da pagare per vivere la propria identità secondo verità e non secondo una coscienza pavidamente e ipocritamente depotenziata. Ecco perché il persuaso «è solo nel deserto»4.

Ma la via della persuasione è di pochi, non certo di tutti o di molti. I più, per affermare la propria individualità, seguono la via più facile e rassicurante della rettorica, della finzione, della convenzionalità, della socialità, la quale ultima è la dimensione in cui si ritiene possa essere confermata la nostra individualità ma in cui, in effetti, si viene creando un circolo vizioso: io riconosco voi, gli altri, perché voi, gli altri possiate o possano riconoscere me, anche se a modo proprio,  e, dall’altra parte, noi siamo perché sappiamo, perché, sapendo, possiamo stabilire chi sa e chi non sa, chi merita e chi non merita, chi vale e chi non vale, chi è e chi non è, e, se riconosciuti autorevoli, possiamo fare in modo che tu stesso possa trovare la tua vera identità: è così che sia l’individuo singolo, sia gli altri, si illudono, si rassicurano e si stordiscono reciprocamente di menzogne5. Per tutto questo, il sentire, le prospettive, lo stesso linguaggio, non possono che differire profondamente tra i retori e i persuasi. Che io possa e debba essere quel che la società degli altri, degli altri cittadini, dei dotti, dei politici o dei religiosi, venga decidendo, anche nelle sue forme più nobili e apparentemente qualificate, si possa e si debba essere per conquistare una sicura e veritiera identità umana e sociale, è l’assunto che il persuaso non può che respingere e rispedire ai suoi sostenitori, che hanno tutto l’interesse a rendere verosimili le proprie idee e a legittimare la propria inconfessata volontà di potenza, perché egli non si lascia né adulare, né proteggere da una retorica che in realtà lo vuole annullare come quel particolare, inconfondibile, originale individuo che egli è.  

La sicurezza del pensiero retorico «è naturalmente illusoria. Da un lato questa identità sociale è in realtà figlia del conformismo, dell’adeguarsi al sentire e al pensare comune e di un’educazione che fin dalla più tenera infanzia spegne ogni reale senso di individualità, dall’altro dietro questo ordine sociale apparentemente felice c’è la violenza dell’uomo sull’uomo. In quanto membro della società, ognuno deve seguire i suoi obblighi, compiere il suo lavoro, riconoscere i diritti di proprietà di alcuni. Dietro ogni proprietà c’è in realtà la violenza dell’uomo sull’uomo che è una estensione della violenza sulla natura. Dopo aver trasformato la natura a suo vantaggio, addomesticando gli animali utili e uccidendo quelli commestibili, l’uomo si volge all’altro uomo per sottomettere anche lui, per ottenere da un lato il diritto di sfruttare in modo esclusivo la natura e dall’altro quello di sfruttare il suo stesso lavoro. Questa proprietà grazie alla società diventa un diritto la cui inviolabilità è garantita dalla legge. Una tale situazione di radicale ingiustizia sociale che è sotto la cappa rassicurante della rettorica per Michelstaedter non è attenuata dal progresso tecnologico. Accade invece il contrario. Più la tecnica si evolve, più la macchina sociale si fa complessa, meno si afferma l’individuo. “Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo”, afferma. Più lavorano le macchine, meno lavora il nostro corpo; e meno lavora, meno cose è in grado di fare. Le capacità individuali regrediscono man mano che la tecnologia evolve. Man mano che la macchina sociale si fa più complessa, al singolo non si chiede altro che di compiere il suo piccolo compito sociale, senza guardarsi intorno; gli è tolto interamente il senso di responsabilità. Il grande sistema di rassicurazione reciproca porta a una macchina sociale quasi perfetta, nella quale ognuno recita silenziosamente la sua parte. Questa denuncia della deresponsabilizzazione legata alla società di massa appare nell’ebreo Michelstaedter quasi profetica: la sua massima espressione nel Novecento si avrà con i campi di sterminio nazisti. E ad Auschwitz moriranno sia la madre Emma Luzzatto che la sorella Elda»6

Carlo, sia pure ancora in giovanissima età, emette un grido straziante di dolore e di protesta, un grido di difesa dell’individualità umana e non di aggressione verso di essa, contro i manipolatori dell’esistenza, contro i deturpatori della vita, contro i servi sciocchi di un potere intellettuale bacato, contro coloro che, presumendo di conoscere ormai tutto quel che di essenziale vi è nel mondo, non vorrebbero mai rischiare di restare indietro rispetto a forme inedite, inattese e creative di umanità; un grido che può compendiarsi in un concetto molto semplice e perentorio: io non sono io, non sono un vero io, non ho un’identità personale inconfondibile alle condizioni poste da altri e da altro, ma solo alle condizioni poste dalla mia coscienza morale, dalla mia coscienza non indotta ma, per quanto pressata dal peso gravoso del tempo e dei fatti, autonomamente persuasa, dalla mia esperienza, dalla mia capacità di percepire i processi invisibili e tuttavia reali che danno forma e spessore a trame virtualmente sincere e bellissime di fraternizzazione e intesa spirituale o, al contrario, a laide manifestazioni di gelosia e di avversione antiumane.

Io sono io nell’acquisizione di verità non già culturalmente e socialmente validate e acquisite ma nella possibilità che essa si ponga anche quale oggetto o tema del mio ripensamento e della mia riappropriazione personali. Io non voglio vivere ripetendo, imitando, emulando schemi e modelli teorici e pratici già sperimentati e celebrati, ma innestando su di essi il portato del mio pensato, del mio percepito/esperito, del mio vissuto: non, beninteso, un portato fantasioso e bizzarro, al limite arbitrario e irrazionale, ma un portato non privo di dati esperienziali anche solo parzialmente aggiuntivi, integrativi. Alla fine avrò aggiunto solo che sono libero esclusivamente nella coscienza della mia finitezza, della mia insufficienza, della mia lacerante propensione a cercare appagamento nelle cose e negli altri, su ognuno dei quali peraltro proietto questa stessa diagnosi giungendo a ritrovare le radici della loro e nostra comune umanità nella libera e solidale condivisione di una condizione esistenziale per tutti e ciascuno miserevole e colma di infelicità. Ma riconoscere tutto questo, persuadersi di tutto ciò, è principio e fine di non finta moralità, di generosa dedizione spirituale al destino di tutti e di ciascuno, a cominciare da quello del . Scriveva Garin: «Michelstaedter si rendeva conto che la via alla persuasione, ossia alla libertà, era legata a una consapevolezza chiara della condizione di schiavitù, alla analisi spietata di una situazione compromessa: le sue analisi appuntate verso i temi della violenza, dell’inquietudine, del bisogno, della “strumentalizzazione” degli altri che si rovescia in una perdita di sé, suonavano condanne di una umanità e di una società. E la condanna, ossia la cruda sottolineatura delle vie della perdizione, era veramente la parte essenziale del suo lavoro»7.

Però, bisogna riavvolgere il nastro della ricostruzione intellettuale ed esistenziale della riflessione del giovane filosofo goriziano per non rischiare di fare troppo torto al suo acume critico e alla sua sensibilità umana. Due, dunque, sono le direttrici essenziali lungo cui viene svolgendosi il suo pensiero: la prima è quella filosofica ed esistenziale, attraverso una disperata ricerca metafisica soggettiva in un mondo privo di senso, la seconda è quella etico-civile, attraverso una critica serrata verso quella dimensione falsa, ipocrita e ingannevole della vita pubblica, che egli chiamava “retorica”8. Egli non sopportava che i valori nella società borghese venissero vissuti e celebrati in modo astratto, asettico, definitorio, nella loro semplice datità storico-culturale, quasi potessero essere ereditati e resi funzionali alla vita presente, senza essere ripensati, rivissuti, in qualche modo ricreati per situazioni esistenziali diverse da quelle in cui quegli stessi valori siano stati oggetto di determinante esperienze personali e/o collettive, e quindi inverati a proprio rischio. Non si trattava quindi per il giovanissimo Michelstaedter di esercitare critiche o polemiche contro questa o quella corrente di pensiero, contro le mode culturali del proprio tempo, in apparente difesa della libertà umana e dei sacri valori dello spirito, tenendo ben nascosti i motivi meschini e cialtroneschi che ne fossero alla base. Non si trattava, cioè, di essere retori, inautentici, non si trattava di indulgere neppure a quella retorica dello sviluppo tecnologico-scientifico e del connesso, inevitabile progresso civile. Per questo motivo, ecco affiorare «una polemica antinovecentesca, conservatrice, antifuturista e antiprogressista … nella “Persuasione e la Retorica”, con una considerazione apocalittica finale circa la disgregazione dell’uomo a partire dal suo corpo, grazie all’invasiva supplenza delle macchine»9.

La domanda metafisico-esistenziale di fondo è: chi sono io, chi sono io adesso, proprio nel momento non più ripetibile in cui vengo persuadendomi che oltre le apparenze, le teorie, le ideologie, i dibattiti filosofici o culturali, c’è solo la menzogna, il vuoto, il nulla e una volontà sempre inappagata e inappagabile di potenza? La persuasione porta a questa drammatica scoperta dell’io: di essere un Sé senza un oltre, contrariamente alla posizione nietzscheana, tesa a conferire un senso alla supposta e auspicata capacità di autotrascendimento dell’io, perché l’io del giovane pensatore goriziano non vede, non percepisce un oltre nel suo sé ma trova solo il suo sciolto da ogni condizionamento storico-temporale e quindi immerso in un presente che non ha né passato, né futuro, ma incapace di cogliere e vivere l’Assoluto o Dio se non con la morte, che lo lasci fermo, fisso, immobile in un atto di pensiero che lo presentifichi nella pur mutevole soggettività dell’io. La persuasione conduce al sé nella sua nudità esistenziale, nella scoperta di una sua profonda struttura ontica la cui vocazione etica consiste nella rinuncia ad ogni forma di vita retorica, ad ogni desiderio, ad ogni residua illusione, ad ogni chimerica aspettativa di felicità e di futuro, persino a mezzo di un gesto autosoppressivo e “anticipatore” della morte stessa.

In una siffatta concezione esasperatamente razionalistica dell’individuo non c’era spazio per alcun appiglio di trascendenza, di religiosità o di vita pratica, perché Michelstaedter volle essere, sia pure solo in una sorta di esaltazione metafisica, Dio a se stesso o di se stesso: non certo per presunzione ma per disperazione o rassegnazione esistenziale. Solo l’io, attraverso la scoperta decisiva della sua insuperabile condizione di precarietà, instabilità, povertà, può fissare con la forza eticamente inesausta della sua razionalità, e con una forza eticamente inesausta di cui la scelta della morte volontaria è l’espressione più coerente e significativa, l’immutabile e originale presenza del suo Sé, che resta presente solo se non ci sia altro né prima di lui, né dopo di lui: «Ognuno è il primo e l’ultimo, e non trova niente che sia fatto prima di lui né gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della vita. Persuaso è chi ha in sé la ragione della sua vita. Il contrario della Tradizione», avrebbe scritto nella prima parte della sua più celebre opera. Non so se si possa parlare, per la tragica fine che il filosofo volle dare alla sua troppo giovane vita, di “suicidio metafisico”, ma io penso che non si dia alcun possibile suicidio metafisico che non sia innanzitutto, implicitamente, un suicidio esistenziale. Aveva ragione Michelstaedter: l’individuo, alla fine, è solo, così come nasce, come vive, come muore, ma proprio questo dato strutturale e ineliminabile dell’umana esistenza è forse suscettibile di suscitare, in sede teorica e pratica, scenari di pensiero e di azione profondamente alternativi a quello tragicamente pensato e vissuto dal carissimo e sensibilissimo fratello e filosofo Carlo Michelstaedter.

Come ha ben evidenziato Eugenio Garin10, a differenza di tanti intellettuali del suo tempo e di tutti i tempi, inclini a ritenere che la conoscenza, il sapere siano lo scopo della vita, il giovane Michelstaedter pensava che la vita, l’esperienza e la scoperta della vita, la comprensione non riduttiva delle sue forme e la valorizzazione umana, morale e spirituale delle sue più interne e vitali ragioni, fossero lo scopo della conoscenza e del sapere. In realtà, per Michelstaedter, gli uomini e in particolare gli intellettuali pensavano, scrivevano, dibattevano, illudendosi di ragionare e, soprattutto, fingendo di comunicare. Libertà, giustizia, uguaglianza, dignità, tutto veniva dato in parole senza mai dubitare che quel teorizzare, quel discettare così erudito e puntuale, potesse non corrispondere, se non in modo del tutto accidentale, ad una sincera e partecipata percezione soggettiva di quegli stessi ideali e valori. La cultura, non meno della filosofia, produceva retorica, apparenza, ipocrisia, vuoto morale, pura e fredda accademicità: tutto, tranne che verità, vita, umanità vissuta, reale e compartecipativa comunicazione umana, senza la quale ultima la stessa cultura può fare bella mostra di sé pur senza risultare minimamente utile ad alleviare le comuni miserie umane e ad individuare le condizioni psicologiche e morali di una vera ricerca di senso. Quella filosofia artefatta, plateale, istrionica, che si sentiva proclamare nelle università italiane, non poteva essere la sua filosofia, il sacro spazio di un pensiero onesto, vibrante di umanità immediata e grondante di dolore carnale non ammansito dalla fatica del pensare. Meglio filosofare in se stessi e con se stessi: la comunicazione sarebbe stata garantita anche se il suo esito sarebbe stata la persuasione e la solitudine.

Di qui, la persuasione e la decisione del filosofo di restare nel suo reale isolamento esistenziale, senza tentare di eluderlo o superarlo emulando il meschino e improduttivo comportamento altrui che egli spera tuttavia di convertire, per via di persuasione, in comportamento virtuoso e fecondo. E’ importante capire bene la differenza intercorrente tra la parola persuasione e la parola rettorica: «quello tra le due parole è … un contrasto tra un sé autentico e una vita alienata, legata all’apparenza, determinata da norme sociali e convenzioni. Il modo in cui è possibile raggiungere uno status di “persuasi” è il tema portante della trattazione di Michelstaedter. È, di nuovo, un amletico essere o non essere»11. Il confronto tra persuasione e retorica deve puntare principalmente all’approfondimento degli usi e del significato del linguaggio al fine di fare emergere e smascherare il discorso retorico, in cui e da cui sono veicolati idee, ideali, valori, apparentemente veri ma fondamentalmente falsi perché non vissuti, non intenzionati individualmente sotto l’aspetto teorico e, ancor più, sotto l’aspetto etico ed esistenziale. La verità non è mai semplicemente in ciò che ci viene dato, che troviamo dato, e nel modo in cui lo troviamo dato, ma in ciò che di esso emerge, anche alla luce delle modalità in cui viene espresso e comunicato, quando noi lo ripensiamo, lo rivisitiamo criticamente, lo apprendiamo con sguardo serenamente disincantato. Gran parte della filosofia e della cultura umane sono prodotte da spiriti passivi e insinceri, dediti a fabbricar parole e costrutti logico-concettuali carichi di significati cognitivi e di segni valoriali parziali o unilaterali, persino se formalmente problematici, ma del tutto inintenzionali e vuoti di senso perché non filtrati da una soggettività individuale capace di interagire creativamente con essi, di intercettarli nello spazio vitale di una libera, responsabile e potente coscienzialità ermeneutico-contestativa. Cultura è ciò che si comunica per poter essere condiviso anche da me, per poter essere contestato e integrato anche dalla mia umanità, dalla mia storia, dalla mia fede o mancanza di fede, dalle mie buone o cattive ragioni, per potersene decidere il senso, il valore, la rilevanza, insieme al mio io e a tutti i possibili io che abbiano qualcosa da eccepire, da obiettare, da far valere. La cultura è un lievito invisibile che deve poter fermentare nella e con la partecipazione o cooperazione  intellettuale ed esistenziale di ogni individuo, perché ogni individuo è unico e la cultura è libera, originale, feconda, solo in quanto possa vivere della unicità di ogni singola esperienza umana traducibile sul piano della comunicazione strettamente intellettuale e su quella più vastamente esistenziale12. Il presupposto di questa prospettiva fortemente eticizzante dell’esistenza è che tra pensiero e vita non debba sussistere alcuno scarto o iato.

Ma questa interiore ed esistenziale ribellione michelstaedteriana in funzione dell’unicità dell’individuo ha, per caso, qualche punto di contatto con la rivolta dichiarata da Max Stirner in funzione dell’io egoistico e cosciente della sua concreta unicità rispetto alle astrazioni di Dio e di uomo, rispetto a qualunque possibile Dio e a qualunque altro uomo? Indubbiamente, anche Carlo Michelstaedter, ateo come Stirner, perché fu biblicamente colto ma ateo, intuisce che dietro entità ipostatiche create dalla cultura e dalla civiltà moderne, come quelle di Uomo, Umanità, Società, Diritto, Pace, Giustizia, Bene comune, si celano subdole giustificazioni di tutte le iniquità, gli abusi, le violenze, i ricatti e le torture, che nel frattempo vengono perpetrate nei confronti di ogni singolo che non si adegui, non possa o non voglia adeguarsi a quello che venga ritenuto dalla cultura dominante come il modello “giusto” di comportamento, per cui anche la sua difesa ad oltranza dell’individuo rispetto al santo “egoismo” della Società, finisce per trafiggere con frecce appuntite, come accade in Stirner, tutti quei filosofi riformatori, messianici, palingenetici, indipendentemente dal loro essere reazionari piuttosto che progressisti, liberali piuttosto che socialisti, democratici piuttosto che fascisti, che intenderebbero migliorare la società e il mondo, ma ciò che, a ben vedere, impedisce di accostare il filosofo goriziano a quello prussiano, è che l’individuo del primo non è un individuo egoista chiuso e indifferente a qualsivoglia forma di umanità e socialità, bensì un individuo sensibile e aperto a forme non fittizie, non anonime di umanità e socialità, a relazioni di autentica comunicazione e solidarietà con l’altro e gli altri di un mondo a tutti comune, in cui l’individuo sia realmente e intersoggettivamente in-teso dagli altri e possa, in pari tempo, liberamente, incondizionatamente e radicalmente in-tendere l’altro e gli altri. In altri termini, c’è in Michelstaedter, una dimensione morale francamente non riscontrabile nel contesto filosofico pur provocatorio e demistificante di Max Stirner.

Semmai, è ben più vero ritenere che alla rivalutazione anarchica stirneriana dell’individuo singolo e della sua proprietà, quale che essa sia, appaia profondamente ispirata e conformata la società moderna e contemporanea, tutta fondata sul rigetto della celebre massima kantiana dell’uomo come fine e mai come semplice mezzo e, di conseguenza, su una concezione del singolo come fine a se stesso e di se stesso, in relazione a cui tutto e chiunque possono e devono essere usati in modo spregiudicatamente strumentali: che è, come ben si comprende, una visione di vita profondamente difforme da quella di Michelstaedter. Questi non sarebbe mai stato uno che agli altri non faccia molto caso, che dagli altri voglia sdegnosamente rimaner separato, o, come si direbbe oggi con espressione volgare, che degli altri se ne fotta altamente, ma, al contrario, uno che avrebbe sempre inutilmente anelato ad essere ascoltato e compreso dagli altri o almeno da altri, al di là di una consueta e logora ritualità discorsivo-relazionale di cui si nutre normalmente l’umana e civile convivenza, ad essere coinvolto dagli altri in un confronto di idee e valori non scontato ma realmente aperto ad esiti di reciproca correzione, integrazione, arricchimento. Di questo si lamentava poco prima di laurearsi e di suicidarsi con l’amico Enrico Mreule: «Quella voce che viene dalla libera vita, quella m’era necessaria per fare il mio lavoro come io lo volevo; m’ero illuso di poterla avere: e mi son trovato invece a desiderar solo di non parlare, a non aver nessun interesse per ciò che pur m’ero proposto di dire quasi con entusiasmo. E d’altronde finir la tesi era la necessità per me per uscir da questo abbominio, almeno per poter sperar d’uscirne, per aver almeno una via. Ma scrivere senza convinzione parole vuote tanto per poter presentar carta scritta, questo ancora m’era impossibile … E in questo triste giro mi son dibattuto questi mesi malato nell’anima e impigrito nel corpo, a volte giungendo a raccogliermi e a riaver in me vive e concrete le cose che altrimenti mi danno solo un tormento oscuro; altre volte e per lo più vinto dall’inerzia disperdendo le mie forze in questo e in quello che sembrava distrarmi dalla noia e tanto più fortemente mi stringeva nella brutta necessità»13. Non si trattava solo di stanchezza fisica dovuta alla necessità di finire presto la tesi di laurea, ma anche e soprattutto di amarezza per il suo essere consapevole che la commissione accademica d’esame non avrebbe molto gradito il suo inappropriato linguaggio accademico e il suo “irregolare” argomentare filosofico, in altri termini di sofferenza per un rapporto di incomunicabilità tra lui e il sapere ufficiale.

Ma se tutto quel che si può dire, dimostrare, spiegare, insegnare, trasmettere e discutere, è già stato significato e contrassegnato sulla base di criteri rigidamente determinati e di metodi e procedure ormai resi canonici e imprescindibili nella ricerca come nel dibattito filosofico-culturali, che cosa resta da scoprire, da innovare, da ribaltare o rifondare, da far avanzare insomma sulla via di un reale e non falso e menzognero progresso conoscitivo e spirituale? Se l’unico linguaggio valido e significativo dev’essere quello già codificato e omologato, non viene il linguaggio stesso condannato all’inautenticità e alla inespressività, cioè alla retorica che si avventa sulla vita costringendola al silenzio e svuotando di ogni valore la stessa storia della cultura? Ora, la persuasione ha proprio la funzione di acquisire coscienza di come tutto quel che scandisce la storia del pensiero, della cultura, della civiltà, è puro e semplice accessorio della nostra esistenza, di come tutto il vero, il giusto e il bello che il mondo, i governi, le accademie, le chiese, sono disposti a legittimare, sono solo quelli che non sarà mai possibile dire e comunicare da persuasi, se non negli angusti limiti del foro interiore e degli spazi privati. E allora: «Chi vuol aver un attimo solo sua la sua vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell’oscurità crearsi da sé la vita. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie; niente in lui chiede più di continuare; niente è in lui per la paura della morte – niente è così perché così è dato a lui dalla nascita come necessario alla vita»14.

Ma, beninteso, Michelstaedter non parla del persuaso come di un eroe, come di un alfiere della libertà di pensiero, ma come di un semplice e onesto lavoratore del pensiero a cui non si consente né di sviluppare, né di portare a compimento la sua opera: «Lo sforzo del persuaso, valido in sé, viene vanificato dagli altri, dai deboli, dai cadaveri che se ne servono per fingersi forti e vivi, per rafforzare il loro mondo inautentico e la società violenta»15. Chi vive secondo il mondo, resta disorientato, smarrito, distrutto, se o quando gli vengano a mancare tutti gli appigli, le illusorie certezze, le ambiziose aspettative e le comode gratificazioni del mondo, ma chi, sospettando che, dietro le apparenze e le vantaggiose o nobili attese del mondo, possano celarsi realtà distruttive e degne di biasimo, va dritto per la sua strada e fissa qui e ora, in un atto compiuto ed essenziale di pensiero che resterà sempre presente, la scena centrale della sua esistenza, quella che non potrà essere più modificata e rinnegata, e, senza avvilirsi, continua a pensare e a vivere accogliendo la sua realtà umana non già come mortificazione bensì come momento integrante della sua razionalità e della sua libertà spirituale. Chi ha sempre saputo di essere ontologicamente un nulla, qualunque cosa facesse o gli accadesse, non potrà sentirsi sminuito e ulteriormente annientato nel momento in cui l’ambiente circostante, gli altri, i simili, lo trattino da essere insignificante: non potrà esserne lieto ma non ne sarà né sorpreso, né turbato. Resta, dunque, il dolore, il tormento, l’infelicità: già, ma il persuaso deve avere «il coraggio dell’impossibile … di sentirsi solo, di restare solo, di guardare in faccia il dolore e sostenerne il peso. Da sé deve riempire il deserto, colmare il vuoto e illuminare l’oscurità. Deve agire positivamente sugli altri, mostrando, anzi, dando loro la “vicinanza delle cose lontane così che anche i ciechi le vedano” … Dove per tutti gli altri è l’oscurità, per lui è la luce; consapevole della propria insufficienza dinanzi all’infinita potestas, “egli si fa sempre più sufficiente alle cose”. Così nella sua presenza, nelle sue parole, nei suoi gesti si rivela, si fa vicina e concreta una “vita che trascende la miopia degli uomini” – Cristo ne è un fulgido esempio. La sua parola “luminosa” “crea la presenza di ciò che è lontano” e muove il cuore d’ognuno. Solo nel deserto, il persuaso “vive una vertiginosa vastità e profondità di vita”; ogni suo singolo attimo è un “secolo della vita degli altri”, asserviti al dio della philopsichia che accelera, dilata, disperde il tempo distruggendo il presente»16.

Tuttavia, questa via della persuasione è difficile, complicata, dolorosa da sopportare, come è difficile non temere la morte e affrontarla e accettarla, giorno dopo giorno, come l’epilogo naturale della vita. Molto più confortevole è la via della retorica che consiglia di adattarsi alle convenzioni sociali, di integrarsi in un sistema sociale in cui ogni bisogno, vero o falso che sia, pare poter essere soddisfatto in funzione di un io senza , di un io adattativo senza coscienza e senza autonomia di giudizio in una società consumistica e massificata in cui l’ultima moda nel campo dell’abbigliamento vale quanto può valere un capolavoro di filosofia morale o una scoperta archeologica di straordinaria importanza per una migliore ricostruzione storico-evolutiva della specie umana. Più in generale, l’uomo massificato, che non è necessariamente un uomo stupido e di scarso valore o insensibile ai valori della prudenza e del sapere, della pace della conoscenza e dell’acutezza dello sguardo o alla stessa funzione ristoratrice del piacere, è un uomo che, tuttavia, non intende abbracciare la fatica del pensare e del mettere in discussione tutto quel che vede e trova dinanzi a sé come oggettivi dati di fatto, per portarne in superficie i motivi e i moventi reali che farebbero tremare i polsi persino ai più accaniti glorificatori della forza intrinsecamente emancipativa della pur imperfetta civiltà umana; è un uomo che non sa e non ama interrogarsi su ciò verso cui pure tende affannosamente: «Voi che cercate la prudenza, che cercate il sapere, l’affermazione assoluta, voi che cercate la pace della conoscenza, l’acutezza dello sguardo, che cercate il piacere: il piacere è il fiore del dolore, il dolce è il fiore dell’acerbo, l’acutezza è il fiore della profondità, la pace è il fiore dell’attività, l’affermazione è il fiore della negazione, il sapere è il fiore della fame, la prudenza è il fiore del coraggio; poiché il dolore non cerca il piacere ma il possesso, la profondità non cerca l’acutezza ma la vita, l’attività non vuole la pace ma l’opera, la negazione non vuol affermare ma negare, la fame non vuol il sapore ma il pane, il coraggio non vuol la prudenza ma l’atto»17.

Non penso si possa parlare, per Michelstaedter, né di nichilismo passivo, né di nichilismo attivo, secondo la distinzione nietzscheana:  non di nichilismo passivo, ovvero il rassegnarsi di fronte alla presa di coscienza del fatto che nel mondo e nella vita non c’è nulla che abbia senso, perché, in realtà, il persuaso, pur mostrando che generalmente ci si viene rassegnando a vivere come se nulla di ciò che si pensa o si fa abbia senso, ha proprio il compito di cercare e individuare il senso delle cose, una sorta di senso noumenico privo di rinvii trascendenti, attraverso un rovesciamento prospettico delle cose nel loro apparire, nel loro insensato apparire; non di nichilismo attivo, perché il problema in Michelstaedter non è quello di affidare ad uomini geniali, straordinariamente creativi, il compito di elaborare una tavola di valori radicalmente diversa da quella della metafisica e della teologia tradizionali, ma solo quello di fare in modo che l’individuo si sforzi di mettere in discussione se stesso, i propri pregiudizi, le proprie illusioni, per entrare a far parte realmente del circuito della vita relazionale e sociale e per accettarsi e proporsi in base al possibilismo etico inerente lo statuto antropologico della sua esistenza personale18. Michelstaedter protesta duramente contro la società delle illusioni, degli inganni, degli astratti e mistificanti universalismi, ma lo fa non già in funzione di un’idea emancipativa o più emancipativa di umanità e società, bensì in funzione della riemergenza etico-esistenziale di un io virtualmente ricco di inedita e originale socialità e, non a caso, tenuto repressivamente ai margini dei processi di socializzazione del sapere e dello stesso potere19.

Indubbiamente, la ricerca filosofica michelstaedteriana, in quanto volta a smascherare l’inautenticità dell’esserci, lo smarrimento della propria identità individuale, sempre suscettibile di poter essere travolta dall’impersonale divenire delle cose mondane e ridotta a fatto tra fatti, esprime costantemente l’istanza metafisica di un radicale ripensamento delle condizioni di attuabilità di una nuova esperienza di senso, ripensamento coincidente con l’interrogazione critica del persuaso, di colui che prova a verificare se la realtà possa essere diversa da come è, se l’ordine oggettivo delle cose o della situazione esistenziale data non contenga delle possibilità ancora nascoste o inespresse e se, di conseguenza, il linguaggio della vita non possa assumere un significato diverso da quello o quelli abitudinari e già sperimentati, un significato più vivace e rappresentativo di scenari esistenziali meno uniformi e ripetitivi di quelli generalmente evocati sul piano filosofico e culturale. Che poi tale istanza critico-metafisica possa venir veicolando anche un anelito religioso è quel che si può discutere20, benché francamente non sembri corretto concedere una patente di religiosità anche a chi, come il giovane Carlo, pur facendo della sua profonda e intensa meditatio vitae la premessa stessa di un pensiero alternativo a quello oggettivistico e antisoggettivistico occidentale, mostri reiteratamente di non voler aderire ad una visione trascendente e sovrannaturale della vita e del mondo. Più in generale, benchè ci si trovi in presenza di una figura oltremodo inconsueta, trasgressiva e originale ma non mossa da irrazionale furore sovversivo o demolitivo, bisognerebbe guardarsi, altresì, dal soggiacere alla tentazione anticipatrice o iconoclasta di trasformare Michelstaedter in un nemico giurato della filosofia occidentale in blocco e di quello stesso sapere accademico che egli, non senza buone ragioni, giudicava linguisticamente, metodologicamente ed ermeneuticamente troppo aridamente tecnicistico, angusto e limitativo. Quando si sostiene che egli non solo avrebbe chiaramente manifestato un’inclinazione antioggettivistica21 ma sarebbe stato addirittura un critico implacabile tanto dei tradizionali fondamenti teologico-metafisici quanto persino dei fondamenti oggettivi o oggettivistici del pensiero occidentale, certamente si esagera e non si rende un buon servizio alla verità storica e alla natura della sua pur geniale attività di pensiero, intanto perché soggettivismo e oggettivismo costituiscono un intreccio inestricabile nella storia del pensiero in genere, in secondo luogo perché lo stesso oggettivismo scientifico e filosofico moderno e contemporaneo sarebbe venuto felicemente coniugandosi con forme molto varie e diversificate di relativismo, convenzionalismo, pluralismo epistemico ed etico-morale, e persino con approcci non teologici ma empirico-esistenziali al problema della fede, in terzo luogo perché del sapere accademico, ieri come oggi, a poter essere giustamente criticate erano le sue forme riduttive troppo spesso identificate dagli accademici con modelli esemplari e avanzati di ricerca e cultura filosofiche.

Per cogliere il valore e la portata effettivi della pur breve esperienza filosofica del giovane goriziano, bisogna moderare l’enfatizzazione interpretativa con cui forse, talvolta, me compreso, può accadere di accostarvisi. In questo senso, mi sembra che anche chi sembra cogliere perfettamente nel segno nel formulare il problema di fondo della sua ricerca, dovrebbe usare maggiore cautela nel ritenerla del tutto ineccepibile e coerente: «la vita per Michelstaedter è una faccenda profondamente seria, in cui la razionalità va tutelata ad ogni costo, speculativamente ed eticamente, a partire dalla richiesta di senso, da cui non si può prescindere. Nessun cedimento alla contingenza, nessun appiglio mistico o fideistico o sentimentale o in qualsivoglia modo non supportato dal rigore del ragionamento può venire accettato; la richiesta del fondamento deve potersi lasciare alle spalle la pochezza della vita umana. Alla fine, il problema risiede nella piena consapevolezza dell’abisso, ontologico prima di tutto, che separa l’Assoluto, cioè la condizione del dio, dall’uomo. La contraddizione sta nel fatto che l’Assoluto può essere concepito ma non attinto. Intorno a questa incongruenza vertiginosa si svolgono il pensiero e la stessa vita di Carlo Michelstaedter, sviluppandosi con rigore e consequenzialità»22. Un dissenso mi permetto di esprimere solo, ma non è poco, sull’ultima affermazione: che, intorno al tema correttamente individuato, il pensiero e la vita di Michelstaedter si sarebbero sviluppati «con rigore e consequenzialità». Con rigore e originalità, forse; con rigore e consequenzialità, non mi pare.

La vita è contraddittoria in quanto da sempre destinata alla morte e l’uomo persuaso deve esserne ben conscio, deve farsene carico, deve avere il coraggio di riconoscere e di accettare che la morte è il suo destino, così come deve affrontare e subire coraggiosamente tutto ciò che parla il linguaggio della morte durante la vita stessa, il limite, l’insufficienza, l’impotenza, la malattia, la solitudine, l’angoscia, la disperazione. Accettare, subire, patire: ma non cercando poi, per debolezza e viltà interiori, forme compensative e consolatorie di vita spirituale nella credenza dogmatica di un peccato originale da cui deriverebbe la nostra strutturale precarietà esistenziale, nella invocazione di un perdono e di una grazia divini capaci di donarci vita anche in una condizione inesorabilmente segnata dalla fine e dalla morte, nella speranza di una gioiosa vita ultraterrena. Sono tutte opzioni rifiutate da Michelstaedter, perché se in lui l’ansia di assoluto è totale, lo è anche il bisogno di razionalità, quel bisogno che lo induce a pensare che sia non solo inutile ma soprattutto puerile, irrazionale, moralmente indecoroso, il voler assecondare e alimentare, con pratiche illusorie e quasi scaramantiche di pensiero e di comportamento, la tendenza a voler continuare a vivere quanto più a lungo possibile. Ma il senso della vita consiste, al contrario, nella capacità di vivere dignitosamente per tutto il tempo che viene consentito di vivere dalla natura, dalla società e dagli altri. Il culto di una vita quantitativa comporta la subordinazione di una vita vissuta secondo i suoi valori al suo adattamento ai falsi valori della struttura sociale, alla dipendenza della vita individuale dalla fragilità dei valori socialmente precostituiti e da aspettative umane moralmente fallaci. Il problema del persuaso, invece, è solo di ordine morale, è solo quello di una vita qualitativa vissuta con rigore e coerenza, vale a dire con il rigore di una razionalità che non conceda aperture di credito a esperienze fideistiche, a visioni mistiche, a concezioni sovrannaturali, e con la coerenza di una vita interiore che non si lasci tramortire da soluzioni oppiacee generalmente somministrate dal mondo in momenti particolarmente delicati e preoccupanti per la stessa incolumità dell’individuo.

L’uomo tende all’assoluto, vorrebbe essere Dio, ma proprio la morte è lì a ricordargli che è solo un uomo e da uomo deve vivere nei limiti oggettivi, biologici, della sua umana esistenza. Il dilemma resta insolubile: l’uomo razionale, non l’uomo empirico o comune, anela ad un’assoluto irraggiungibile, donde la conseguente e coerente decisione di vivere da uomo e da uomo che, sapendo di dover morire, anticipa nell’intenzione e nei fatti, non per sconforto o depressione ma per una lucida scelta razionale, il momento della morte a sugello di una vita pienamente assecondata nei suoi valori essenziali ed eticamente vincolanti, nelle sue interne leggi neuro-biologiche, nella sua verità ontologica e nel suo infrenabile slancio verso l’essere assoluto, e quindi integralmente onorata e resa degna di essere vissuta. In questo consiste lo stile etico del persuaso, conscio del fatto che l’individuo è chiamato dalla sua stessa natura razionale a vivere il suo essere in pienezza e che proprio in ragione della capacità individuale di attingere «la pienezza dell’essere … ognuno è il primo e l’ultimo», là dove quindi tale pienezza, sussistendo una volontà di perseguirla, non sia necessariamente raggiungibile per mezzo di una vita particolarmente lunga ma possa essere raggiunta anche con un effimero ma intenso e compiuto atto di pensiero23. Ora, venendo al punto forse più critico della riflessione michelstaedteriana, Cristo è uno dei tanti persuasi, ma pur sempre pochi, rispetto alle moltitudini umane, che si sarebbero posti sulla via indicata da Carlo24: «uomini che hanno saputo accettare l’insufficienza della vita a fronte delle ispirazioni dell’uomo vero che cerca di scoprire il significato autentico, e hanno fatto questo non rifugiandosi in un atteggiamento stoico di rinuncia, ma hanno affrontato fino in fondo le circostanze della loro quotidianità»25. Solo che Cristo, per Michelstaedter, non sarà mai il Salvatore, ma semplicemente un modello esemplare di vita etica.  

Bisogna spiegare i motivi per i quali, a parer mio, il pensiero e la vita di Michelstaedter non si sarebbero affatto sviluppati né con ineccepibile rigore, né con consequenzialità. Ha certamente ragione il filosofo di Gorizia nel qualificare la scomposta rivolta degli uomini contro la morte come deplorevole manifestazione di irrazionalità e nel censurarne la propensione a relegare unilateralmente l’esistenza nel ristretto ambito delle pulsioni biologiche e dei condizionamenti storico-sociologici, ma perché dalla razionalità, che pure anela costitutivamente all’assoluto, dovrebbe essere esclusa la fede, ogni tipo di fede e la stessa fede in Cristo, e perché l’uomo eticamente persuaso, dinanzi alla possibilità, anch’essa realisticamente costitutiva della realtà intenzionata e presentizzata nella sua purezza, di una realtà radicalmente altra, dovrebbe sentirsi autorizzato dalla sua razionalità a percepirla come priva di plausibilità e attendibilità? Può forse sussistere qualunque forma di razionalità che non presupponga una fede nella sua funzione conoscitiva, può svilupparsi la scienza senza una fede nelle sue indefinite e oggettive possibilità conoscitive, può darsi una forma di razionalità soggettiva, come quella di Michelstaedter, coinvolta in un processo di espansione etico-cognitiva verso l’assoluto, senza che essa poggi almeno sul presupposto dell’esistenza, per quanto inesplorabile, di un sapere e di un bene assoluti? Ma allora perché, a dover essere esclusa dall’indagine razionale, dovrebbe essere proprio quella fede religiosa in un Dio rivelatosi in una persona storica capace di compiere, nel nome e per mezzo di una superiore spiritualità creativa, opere prodigiose e razionalmente non disconoscibili? Visto che all’uomo è impossibile essere Dio, mentre a Dio è persino possibile essere uomo, è più ragionevole e razionale negare recisamente qualunque rapporto di dipendenza da Dio o ammettere quanto meno che non si possa escludere un qualche rapporto di appartenenza a Dio? Tranne che non si voglia ricorrere a repliche contorte e confuse, bisogna prendere atto del fatto che sul più cruciale dei problemi storici e filosofici dell’umanità, Michelstaedter non fu né rigoroso, né coerente.  

E’ peraltro probabile che Michelstaedter non abbia inteso tanto negare, in ragione del suo esigente razionalismo, l’esistenza di Dio che restava per lui, in qualunque direzione interpretativa, una realtà inaccessibile all’indagine razionale e quindi criticamente indecidibile, quanto ribadire implicitamente al riguardo il punto di vista della cultura religiosa ebraica di cui egli, pur non essendo ebreo praticante, era imbevuto: quello per cui il Dio veterotestamentario, l’unico riconosciuto dal popolo ebraico, è un Dio che si rivela, nel corso della storia del popolo eletto, attraverso i suoi profeti ed eventi o situazioni molto particolari e carichi di “segni”, ma non attraverso un Figlio unigenito dotato di una natura umana e di una natura divina in esso perfettamente unite, né attraverso un Messia, un “unto di Dio”, fosse o non fosse Figlio di Dio, che però non scendesse sulla terra per liberare definitivamente il popolo di Israele dall’avversione dei suoi nemici o di popoli ostili, e per realizzare un regno potente, prospero e indistruttibile, in questo stesso mondo, bensì per manifestarsi debole e impotente fino al punto di non riuscire né a discolparsi dall’infamante accusa di blasfemia e di avere attentato al potere costituito dell’Impero, né ad evitare la pena capitale della crocifissione.

Quindi, verosimilmente, Michelstaedter non credeva nel Dio di Cristo non perché razionalista chiuso ad ogni illazione mitico-religiosa o ad ipotesi comunque sensazionalistiche di natura fideistica e miracolistica, ma perché ebreo che, al pari di tanti altri ebrei, non avrebbe creduto nell’azione messianica di Dio attraverso il suo Cristo, nella natura realmente liberatoria e salvifica della sua opera terrena. Inoltre, è pur sempre per ragioni interne alla sua ricezione della tradizione ebraica, in vero né monolitica né particolarmente unitaria, che egli, ponendosi in linea con l’esegesi biblica degli aristocratici sadducei piuttosto che con quella dei più popolari e democratici farisei, non credeva né nella risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, né all’esistenza degli angeli, né ad altre presunte fantasie reperibili nella tradizione orale ma non in quella scritta della torah. Di qui la relativamente serena accettazione michelstaedteriana della morte come limite invalicabile della vita e di ogni possibile vita. La vita non ha un prolungamento al di là della morte, la vita eterna non esiste perché la vita si compie con la e nella morte, e bisogna vivere sapendo che la felicità è negata non solo a quanti vogliano illudersi che possa esserci un seguito di perdono divino e di celeste gioia dopo la morte ma anche a coloro che vivono virtuosamente sulla terra pur accettando il loro destino mortale.

Tutto ciò, naturalmente, non toglie il merito di un impegno di pensiero e di vita volto a riportare in auge, nel contesto di un oggettivismo scientifico di stampo positivistico ancora trionfante ma già instabile e ormai prossimo a pesanti e significative contestazioni, la decisiva funzione direttiva, rifondativa e rigenerativa, non solo della coscienza soggettiva ma della coscienza soggettiva e individuale, sia nell’ambito delle attività logico-epistemiche che in quello della ricerca teorica e sperimentale, sia anche nel campo di quelle scienze umane e storico-sociali sempre più esposte alla minaccia e alla pretesa scientistiche di oggettivizzarne gli stessi fondamenti soggettivi e individuali, e quindi di prosciugare, di inaridire, sterilizzare, la fonte immaginativa, produttiva, creativa di qualunque intuizione geniale, di qualunque forma originale e competitiva di pensiero, di qualunque modello alternativo di vita etica, religiosa e spirituale. Michelstaedter avrebbe altresì insegnato, purtroppo inutilmente, alle successive generazioni filosofiche novecentesche, che, senza un’incessante opera di vigilanza culturale e sociale sugli stessi criteri accademici di lettura, studio e valutazione degli apporti individuali alla storia del pensiero e della civiltà, il sapere universale della terra non sarà mai così ricco e penetrante da generare significative ricadute sulla qualità di vita dei singoli e dei popoli26. Che poi abbia deciso di concludere la sua esperienza di pensiero e di vita con il suicidio, indipendentemente dalle intenzioni che l’avrebbero determinato e diversamente da Giacomo Leopardi che volle resistere fino in fondo alla tentazione di sentirsi sconfitto, è ciò che costituisce probabilmente il segno di una tragica resa a quel marcio sistema di sapere e di potere che aveva combattuto, in modo titanico e originale, per tutta la sua pur brevissima esistenza.  

                                                              Francesco di Maria  NOTE

1 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1982; C. Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1988; C. Michelstaedter, La melodia del giovane divino. Pensieri, racconti, critiche, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 2010; C. Michelstaedter, Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1983. Tutte le opere del filosofo di Gorizia erano state pubblicate e curate da G. Chiavacci, Opere, Firenze, Sansoni, 1958.

C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 41

Ivi, p. 69.

Ivi, p. 70, concetto già espresso in La melodia del giovane divino, cit.; A. Acciani, Il maestro del deserto. Carlo Michelstaedter, Bari, Progedit, 2005.

Ivi, p. 99.

A. Vigilante, Carlo Michelstaedter, in Rivista “Monimos. Mondi filosofici”, 2022; si veda anche G. Putignano, L’esistenza al bivio. “La persuasione e la rettorica” di Carlo Michelstaedter, Roma, Stamen, 2015.

E. Garin, Le Opere di Carlo Michelstaedter, in “Bilancio”, 1958, n. 8, pp. 2-4, successivamente ristampato con qualche adattamento in Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 96-104. Ma Garin aggiungeva significativamente che nella riflessione michelstaedteriana era contenuta un prezioso quanto inattuale avvertimento: «possano i cosiddetti “filosofi”, affannati sempre a costruire, secondo le richieste del mercato, sistemi di rispettabili “teologie”, o di “scienze rigorose”, porgere un orecchio non distratto al suo avvertimento: “Il vero dialettico non si ferma sulla via a tirare le linee e a trarre i concetti, quasi conoscenza finita; non sfrutta la propria vita a foggiarsi una persona, né la difende come finita e assoluta, pretendendo che gli altri la riconoscano per tale. Non largisce agli altri una teoria, né disputando per questa chiede che gli altri lo riconoscano come il filosofo. Ma appunto nel contatto con gli altri proseguendo la sua via, con qualunque persona parli e di che cosa anche, non sarà per lui un incontro indifferente, ma egli si sentirà individuo di fronte a individuo, e non crederà di essere tale fino a che non abbia comunicato il valore individuale, persuasivo”».

Efficaci considerazioni al riguardo sono anche quelle di M. Veneziani, Carlo Michelstaedter, nel sito on line dello stesso Veneziani, 3 dicembre 2016; di Veneziani, si veda anche il libro: Carlo Michelstaedter e la metafisica della gioventù, Milano, Albo Versorio, 2014.

Ivi.

10 E. Garin, Le Opere di Carlo Michelstaedter, in “Bilancio”, 1958, n. 8, pp. 2-4, successivamente ristampato con qualche adattamento in Intellettuali italiani del XX secolo, cit.

11 M. Del Corno, Il rebus filosofico Carlo Michelstaedter: morto 23enne e sconosciuto, adorato dai giovani contemporanei. E, forse, ispiratore di Heidegger, in “Il Fatto Quotidiano” del 28 novembre 2021, donde, a parte la tangibile influenza leopardiana presente nell’intensa e sofferta meditazione di Michelstaedter, anche le evidenti assonanze con la filosofia di M. Heidegger, di cui potrebbe essere stato “anticipatore”; cfr. T. Vasek, Heiddeger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica, Milano-Udine, Mimesis, 2021.

12 Cfr. J. Ranke, Il pensiero di Carlo Michelstaedter. Un contributo allo studio dell’esistenzialismo italiano, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1962, XLI, n. 4, pp. 520-521.

13 C. Michelstaedter, Epistolario, cit., pp. 440-441. La sua tesi di laurea si apriva con una frase significativa e lapidaria: Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 35: «Io lo so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno».

14 C. Michelstaedter, Il dialogo della salute, cit., p. 70. Utili all’approfondimento conoscitivo dell’umanità e del carattere complesso ma determinato di C. Michelstaedter, sono scritti come A. Benevento, Profilo di Carlo Michelstaedter, in «Critica Letteraria», 1991, Anno XIX, fasc. II, pp. 261-284 e G. Sessa, Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 2008.

15 S. Germini, La filosofia dell’impossibile di Carlo Michelstaedter. Prima parte: La persuasione, in Rivista di filosofia “I malpensanti”, 1 settembre 2021.

16 Ivi.

17 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, cit., p. 105.

18 Cfr. F. Fratta, Il dovere dell’essere. Critica della metafisica e istanza etica in Carlo Michelstaedter, Milano, Unicopli, 1986; M. Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis, 2013; I. Caliaro, Per una vita che sia vita. Studi su Carlo Michelstaedter, Firenze, Olschki, 2017.

19 Prospettive interpretative diversificate e talvolta contrastanti è possibile rinvenire nel volume collettaneo, curato da D. Calabrò e R. Faraone, Carlo Michelstaedter e il Novecento filosofico italiano, Firenze, Le Lettere, 2013.

20 Alludo a G. Pacelli, L’istanza tragica e religiosa in Carlo Michelstaedter, Perugia, Morlacchi, 2010. Tra gli studi che sono venuti sottolineando l’apertura della ragione filosofica di Michelstaedter alla dimensione metafisica religiosa, si possono qui segnalare quelli di: R. Peluso, L’identico e i molteplici. Meditazioni michelstaedteriane, Napoli, Loffredo, 2011; M. Veneziani, Carlo Michelstaedter e la metafisica della gioventù, cit.; P. M. Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere, Roma, InSchibboleth, 2016.

21 Di cui tracce evidenti si trovano esemplarmente in C. Michelstaedter, L’aerostato della filosofia, Roma, Castelvecchi, 2015. Ma, al riguardo, si è perspicacemente osservato che «Ciò che ancora cent’anni fa pare avergli impedito un successo più largo – si pensi solo alla valutazione di Gentile che criticò il pensiero michelstaedteriano in quanto privo di sistema e metodo – ora potrebbe perfino essere il suo punto di forza. Non avere un approccio metodologico ed evitare di diventare sistemico è anzi la conditio sine qua non della filosofia postmoderna, poststrutturalistica, pragmatistica», Yvonne Hütter, Michelstaedter postmoderno: Il concetto di scienza in Carlo Michelstaedter e Richard Rorty, in AA.VV., Un’altra società. Carlo Michelstaedter e la cultura contemporanea, a cura di S. Campailla, Venezia, Marsilio, 2012, p. 67.

22 F. Panuccio, Carlo Michelstaedter. L’impossibilità di essere dio, Venezia, Università degli Studi Ca’ Foscari, 2023, p. 4. L’ontologia in Michelstaedter assume una forte connotazione etica e il riconoscimento della essenzialità immodificabile dei valori del vivere si pone quale condizione di un agire eticamente consapevole e responsabile: AA.VV., Carlo Michelstaedter. L’essere come azione, a cura di E. S. Storace, Milano, Albo Versorio, 2007.

23 C. Michelstaedter, Amico – mi circonda il vasto mare, in Poesie, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1987, p.52 e La Persuasione e la Rettorica. Appendici critiche, op. cit., p. 36.

24 F. Meroi, Il ‘Cristo’ persuaso di Carlo Michelstaedter, in Rivista “Rosmini Studies”, 2015, n. 2, pp. 133-141. Non condivido la tesi qui enunciata di una rilevante influenza che i vangeli avrebbero esercitato sul filosofo di Gorizia.

25 F. Panuccio, Carlo Michelstaedter. L’impossibilità di essere dio, cit., p. 21.

26 Spunti interessanti, in tal senso, si colgono in AA.VV., Un’altra società. Carlo Michelstaedter e la cultura contemporanea, citato. Tra questi spunti va incluso quello del curatore dell’opera, Sergio Campailla che ricorda Carlo in questi termini: «Giovane che sotto le apparenze della verità snida la menzogna anche nei luoghi ritenuti inviolabili, con un rifiuto tra i più radicali alla vigilia della prima guerra mondiale, Carlo Michelstaedter ci appare oggi come il testimone e l’interprete del disagio di una civiltà», p. 19. 

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