Metamorfosi e profilo identitario dell’intellettuale.

Non so se avesse completamente ragione Bauman nell’affermare che, nel periodo di transizione dalla modernità alla postmodernità, gli intellettuali, in quanto specifica categoria storico-sociologica nata nel contesto illuministico e meglio caratterizzatasi poi sul finire dell’800 per la sua specifica e duplice funzione di critica sociale e critica del potere, sarebbero venuti gradualmente smarrendo la loro originaria e universalistica funzione di “legislatori”, termine a mio avviso usato impropriamente dal sociologo polacco (meglio sarebbe stato limitarsi ad usare un termine come “giudice culturale”), ovvero la funzione di affrontare e dirimere con indiscussa autorevolezza critica le grandi e generali questioni della verità, dell’eticità e dei costumi sociali della loro epoca, per assumere un più dimesso ruolo di “interprete”, consistente nel ridurre il grado di incomprensione e di incomunicabilità tra tradizioni diverse di pensiero e di cultura e nel descrivere, quanto più analiticamente possibile, la problematicità, la contraddittorietà, la complessità dei processi in atto, anche se la natura per così dire “tecnica”, neutrale, imparziale, di questo approccio programmaticamente non più valutativo, ideologico e politico ma, per  l’appunto, basato su giudizi avalutativi, descrittivi, ermeneutico-esplicativi, si sarebbe presto rivelata illusoria1.  

Non so se e in che misura Bauman avesse ragione, ma d’altra parte è naturale che storicamente anche le forme dell’intellettualità, dell’essere intellettuali, siano soggette a mutare, pur senza necessariamente perdere la loro costitutiva vocazione all’universalità. Per esempio, non si può dire che un giornalista postmoderno e postcomunista come Piero Sansonetti sia un intellettuale più descrittivo, più obiettivo e imparziale di quanto non lo fossero certi eminenti intellettuali del primo novecento, magari solo per via di un linguaggio più leggero, agile ed essenziale, anche se meno analitico, meno problematico, meno esauriente ed esaustivo, quale dev’essere quello di chi scrive quotidianamente articoli per i giornali. Ora, proprio un “interprete”, direbbe Bauman, come l’intellettuale democratico-libertario  Sansonetti, si chiedeva sarcasticamente, sulle colonne di “Liberazione”, che fine avessero fatto, all’indomani dell’elezione pontificia di Joseph Ratzinger, tutti quei cattolici democratici che per tutta la seconda metà del ’900 avevano contribuito attivamente allo sviluppo della società civile e del sistema democratico, spesso ponendosi come mediazione sensibile e intelligente tra società laica e società religiosa, tra comunità sociale e Chiesa gerarchica, oscurantista e totalitaria, lamentando che quegli stessi intellettuali assistessero ora pavidamente, sotto il pontificato di un papa “reazionario” come Benedetto XVI (questo, in sostanza, era il giudizio che ne dava), allo smantellamento di quella che era stata, negli anni sessanta, la grande costruzione conciliare. E, per contrasto alla pochezza intellettuale che caratterizzava la scena dei cattolici italiani nell’era del papa tedesco, sciorinava tutta una serie di nomi di famosi intellettuali cattolici del bel tempo andato, da Ernesto Balducci a Lorenzo Milani, da Adriani Zarri a padre Turoldo, dai più moderati Pietro Scoppola e Achille Ardigò a sindacalisti combattivi come Livio Labor o Pierre Carniti e, infine, a parlamentari, filosofi ed economisti come Franco Ròdano, Giuseppe Gozzini, Claudio Napoleoni. Tutti nomi noti, se si vuole anche celebri e popolari, più che altro per le frequenti celebrazioni giornalistiche loro dedicate per via del particolare piglio caratteriale e di una certa carica critico-contestativa non identica per tutti indistintamente, che ne caratterizzavano gli studi e le prese di posizione spesso polemiche su questioni culturali o di quotidiana attualità, e che soprattutto riempivano i giornali a causa di quel loro cattolicesimo talvolta controcorrente o antistituzionale.

A Sansonetti, laico comunista libertario e ateo, naturalmente non interessava lodare quegli esponenti della cultura cattolica antecedente l’era ratzingeriana se non per utilizzarli strumentalmente in funzione di una polemica interamente anticattolica. In realtà, il suddetto giornalista manifestava non solo il suo astio verso il mondo cattolico ma anche e soprattutto la sua profonda ignoranza religiosa e teologica, in particolare e significativamente quando giungeva ad affermare che il pontificato ratzingeriano avesse già «sfigurato, in pochi mesi, il volto della religione cristiana», là dove era ben evidente che la conoscenza del vero volto del cristianesimo non potesse certo essere acquisita prevalentemente attraverso l’interpretazione di questo o quel personaggio, soggetto come tutti i comuni mortali a limiti ed errori, della vita politica e culturale nazionale, bensì solo per mezzo di una sincera, paziente e faticosa esperienza di fede, da cui fosse possibile apprendere in modo corretto imprescindibili verità della fede cattolica, tra cui per esempio quella per cui il cattolico ha il dovere di amare la Chiesa fondata da Cristo specialmente nei momenti in cui essa si trovi a navigare in acque torbide e tempestose.

Ora, in vero, se c’è un modo di pensare, di ragionare, di argomentare, imperdonabilmente irritante e sterile, questo consiste proprio nell’usare acriticamente, ipocritamente, la dissidenza interna di un gruppo, di un partito, di un movimento, di una Chiesa, per dimostrare che gruppo, partito, movimento o Chiesa, siano in errore più o meno colpevolmente e incoerenti rispetto alle ragioni e agli scopi fondativi del loro esserci. Che è un ragionamento palesemente falso, non solo perché bisognerebbe interrogarsi non genericamente ma con scrupolosa analiticità sulle interne ed effettive articolazioni di quella dissidenza, ma anche perché persino la più brillante e convincente forma di dissidenza potrebbe risultare pur sempre carente, lacunosa o fuorviante, rispetto ai suoi bersagli tematici o dottrinari.

L’intellettuale cattolico, serio e integro, non rifiuta mai di misurarsi dialetticamente con i suoi interlocutori, specialmente se particolarmente agguerriti e ostili, tranne che nel caso in cui costoro danno prova di confondere le ragioni della critica o della polemica razionale con le ragioni più o meno preconcette e inconfessate di un vissuto personale carico di frustrazione e risentimento. A quel punto, come suggeriscono i libri biblico-sapienziali, è meglio tacere e passare ad altre e più utili occupazioni. Anche perché non si capisce per quale motivo certi laici alla Sansonetti, liberi di pensare quel che vogliono, come vogliono e quando vogliono, si sentano poi autorizzati ad interferire negli affari interni e nelle manifestazioni religiose pubbliche di una Chiesa diversa dalla loro, ovvero da una chiesa non storico-istituzionale ma molto più dogmatica e fanatica di quanto non sia stata nella sua storia bimillenaria la Chiesa cattolica.

Niente di male, d’altra parte, se uno, intellettuale o non, abbia l’inconscio desiderio di ridurre il cristianesimo alle proprie idee, alle proprie convinzioni e alle proprie scelte di vita, ma quello che proprio non si può non considerare come una indebita pretesa è che anche i cristiani rivedano la fede su cui si sono formati e in cui profondamente credono. Se si vuole parlare di divorzio, aborto, eutanasia, matrimonio tra omosessuali e quant’altro, come di pratiche lecite e moralmente non censurabili, lo si faccia pure, ma senza aspettarsi o pretendere l’unanime condiscendenza del mondo cattolico, per il semplice fatto che per quest’ultimo quelle pratiche sono semplicemente immorali e comunque contrarie al senso cristiano della vita.

I comandamenti di Dio, che non sono affatto moralmente scontati, possono risultare opposti o alternativi ai comandamenti delle civiltà umane, anche delle più progredite civiltà. E del fatto che vi siano ancora, almeno sul piano dottrinario, molti seguaci di quei comandamenti, come dei successivi consigli evangelici loro connessi, i laici dovrebbero pur farsene tranquillamente una ragione, senza digrignare i denti. E invece non solo digrignano i denti, ma non perdono occasione per polemizzare contro i “diversi” di fede cattolica su qualunque altra materia dello scibile umano. Il che spiace, ma non è che poi l’intellettuale cattolico, pur raggiunto da scariche di improperi o di commenti sussiegosi e sarcastici, si senta costretto a mettere al braccio una fascia nera in segno di lutto. La sua vita continua, deve continuare, magari tra amarezze e delusioni, privazioni e umiliazioni, al fine di onorare non già ambizioni di successo e di potere, ma l’impegno di servire con fedeltà il Cristo e la sua Chiesa persino contro ogni possibile tradimento “interno” di cui non di rado sono vittime2.

Gli intellettuali come Sansonetti, e sono moltissimi quelli che tra i più o meno mediaticamente accreditati hanno, a parte la sua inconfondibile spocchia, le sue stesse caratteristiche di insinuante perfidia logico-argomentativa, potranno replicare che questo modo di ragionare è molto poco liberale, piuttosto chiuso o poco aperto ad un pubblico confronto che abbia veramente a cuore i destini della società civile e della vita democratica, soprattutto perché la presenza storica della Chiesa cattolica non è questione di poco conto e tale da poter quindi essere trascurata da parte di chi si preoccupa per gli assetti etico-culturali presenti e futuri della società italiana e della stessa civiltà umana, ma in realtà anche questa obiezione è abbastanza spuntata e facilmente suscettibile di ritorcersi contro chi vorrebbe togliere persino il diritto di parola ad interlocutori particolarmente scomodi e dotati di ostinato rigore.

Davvero non si comprende perché mai quel che vale per gli intellettuali in genere, di fatto non dovrebbe valere per gli intellettuali cattolici, il fatto cioè che per quanti lavorano con il pensiero, nei modi più variegati e immaginifici possibili e sulla base di presupposti e convincimenti esistenziali oltremodo diversi ed eterogenei, non esistano ordini fissi, gerarchie scontate, presupposti intoccabili e verità a priori in quanto tutto è, in linea di principio, pur sempre discutibile, confutabile, controvertibile. Certo l’intellettuale deve mostrarsi competente sulle cose di cui parla o scrive, ma le stesse competenze non sempre sono facilmente verificabili, specialmente nell’immediato, e soprattutto come tali riconoscibili con forme di unanime consenso.

L’importante è che le sue idee facciano breccia, da vivo o da morto, nella mente e nel cuore di un certo numero di persone, riuscendo ad esercitare una funzione di stimolo, di sollecitazione critica su questioni sufficientemente rilevanti sotto il profilo critico-esistenziale, critico-politico o economico, critico-scientifico, e anche coinvolgenti sul piano psicologico e morale. Sarà la storia, evidentemente, sarà un’umanità terrena o già celeste, a decretarne la maggiore o minore attualità, la maggiore o minore inattualità critica, il maggiore o minore o inesistente valore di “immortalità”, anche se l’intellettuale dovrà immergersi umilmente nel suo tempo per coglierne ogni volta lo spirito e domande vitali, per criticarne altresì eccessi e aspetti deteriori. Anche le sue modalità comunicative e il suo vocabolario avranno la loro importanza, perché un linguaggio incisivo, anche se complesso, e comprensibile da molti, non può che contribuire ad accrescere il pregio e il valore educativo e spirituale dell’opera intellettuale.

Però, bisogna intendersi bene: la coscienza critica degli intellettuali, la loro funzione non solo interpretativa ma formativa, non deve essere necessariamente gridata, pubblicizzata, promossa a colpi di campagne pubblicitarie o di apparizioni televisive. Essa può o potrà esprimere e veicolare alte idealità e valori universali anche se confinata nei limiti angusti di una stanza o di una cella, di un monastero non troppo conosciuto o di una modesta biblioteca urbana, mentre, viceversa, può o potrà rivelarsi a suo tempo meno interessante o infeconda anche se esteriormente imponente e impressionante, resa oggetto di infinite recensioni e discussioni, e soprattutto implicitamente esibita o ostentata dall’assiduo presenzialismo mediatico di colui o coloro cui appartenga.

Non si può generalizzare, in quanto, a differenza dei parametri addomesticati e manipolati di giudizio in base a cui di solito vengono assegnati posti di lavoro o cattedre universitarie anche a un cospicuo numero di non meritevoli, i criteri oggettivi, che la storia della cultura si incarica di elaborare al di là delle transeunti e corruttibili generazioni di esperti, e relativi alla identificazione di legittime e non arbitrarie figure di intellettuali, rigorosamente distinte dalle loro caricature o copie mal riuscite, non sono aggirabili né eludibili in modo più o meno fraudolento, e producono, sia pure a distanza di tempo, effetti inattesi, imprevisti e sorprendenti. Che, specialmente per quanti sono persuasi che le opere di valore non siano in nessun caso destinate a restare coperte dalla polvere della storia, rappresenta non solo un’ipotesi suggestiva e consolatoria ma anche l’esito di un atto di fede tanto nella provvidenzialità della storia quanto principalmente nella giustizia misericordiosa di Dio.

Un intellettuale brillante ma omnipresente, solo per citarne uno tra i più gettonati mediaticamente, come Massimo Cacciari, potrebbe essere celebrato fra cento o duecento anni come una grande mente del XX-XXI secolo, ma non si può escludere aprioristicamente che nel frattempo potrebbe essere invece diventato oggetto di sonore e motivate stroncature e additato a modello esemplare di una teoresi tanto attraente o spettacolare quanto vuota di sostanziale senso etico-veritativo. In fin dei conti, anche oggi, gli si potrebbero muovere dei rimproveri non marginali: per esempio, su quelle analisi politiche in apparenza impeccabili ma non di rado avventate e discutibili, oppure su quell’esegesi biblica su cui le autorità ecclesiastiche della Chiesa cattolica non trovano mai alcunché da ridire ma che, in realtà, non sempre riflette il genuino significato scritturale e il vero valore della Parola di Dio. Non si può mai dire prima quel che un domani potrebbe succedere, mentre è assolutamente certo che tanti asini conclamati di oggi, e per di più meno dotati di qualità attoriali rispetto ad intellettuali affermati a ragione o a torto, dallo scorrere del tempo possano temere solo giudizi sempre più severi per aver essi usurpato titoli e funzioni che sarebbero spettati ad altri.   

In ogni caso, è giusto che chi, a vario titolo, avverte una spinta vocazionale all’impegno intellettuale, lo venga affrontando e portando a termine al meglio delle proprie capacità. Il resto, il verdetto ritardato o tardivo della storia oppure il giudizio insindacabile di Dio, egli potrà solo subirli: con profonda tristezza o grande giubilo nel caso in cui la sua vita naturale e terrena venga dischiudendosi a quel di più di vita che coincide con la vita eterna. Quel che non si deve temere è che una vita intellettuale esercitata nel più oscuro anonimato, lontano da riflettori più o meno potenti e da importanti strutture mediatiche, non possa essere che aleatoria e irrilevante, perché anzi, non di rado, accade esattamente il contrario.

Piuttosto, una domanda oggi ricorrente è dove siano andati a finire i grandi intellettuali di una volta che non solo interpretavano la realtà ma influenzavano l’opinione e le convinzioni dei cittadini, anche a distanza di diverse generazioni storiche. Gli intellettuali contemporanei, ad eccezione di casi sporadici che riguardano però personalità culturali abbastanza longeve, nate nei primi decenni del secolo scorso, non godono più dell’ammirazione e del rispetto sociali un tempo loro tributati. Anzi, il più delle volte se ne parla, anche se non sempre a giusta ragione, con sospetto, con ironia o con sprezzante sarcasmo, soprattutto a causa di modalità linguistico-comunicative inadeguate o scarsamente esplicative, di un eloquio verboso e inessenziale, di un argomentare troppo unilaterale e poco problematico, se non addirittura preconcetto e capzioso.

Oggi, la gente comune vuol sentirsi parlare in modo rassicurante di posti di lavoro, di occupazione, di soldi, di tasse e tributi, di inflazione o di assistenza sanitaria, e poi di diritti, di spazi per il tempo libero, di sport, di cronaca leggera ed evasiva, piuttosto che di doveri, ideali, valori, richiami religiosi, e diventa molto difficile, in un contesto socio-culturale così dozzinale e pregno di praticismo spicciolo, spiegare ai più che, senza coscienza di quale possa e debba essere il comune orizzonte etico-civile, giuridico, spirituale e religioso, i problemi della vita corrente sono destinati ad aggrovigliarsi sempre di più fino a creare nodi che sarà sempre più difficile tagliare e risolvere, dal momento che una società priva di una sicura direzione etica ed educativa che investa tutti gli aspetti della stessa vita personale e privata, di una sensibilità quanto meno per la dimensione spirituale e religiosa dell’esistenza, di onesta dedizione al bene comune e di una capacità di riconoscere rettamente il confine che passa tra liceità e arbitrarietà e tra legittimi interessi privati e abusi o reati commessi ai danni dell’interesse pubblico o collettivo, è soggetta ad una rapida disgregazione e ad una crescente ingovernabilità che verranno richiedendo, come troppo spesso la storia delle nazioni comprova, l’uso istituzionale della spada o il ricorso sconsiderato e irrazionale della violenza di massa.

L’intellettuale classico, l’intellettuale vate, l’intellettuale-funzionario dell’umanità, l’intellettuale organico, l’intellettuale profetico, sembrano dunque non poter più trovare adeguata collocazione in un mondo che, quanto più appare confuso e disorientato, tanto più sembra essere indifferente alle diagnosi, ai consigli, ai moniti di qualche residuo e sfortunato intellettuale di altri tempi che si ostini a parlare, a scrivere, a comunicare e testimoniare, pur sapendo che per lui tutte le luci della ribalta sono ormai spente e che le sale, le platee, le piazze restano tristemente deserte. A che serve ancora ragionare, imparare dal passato, argomentare con competenza, conoscere con spirito critico, visto che esistono mille canali televisivi e innumerevoli testate giornalistiche, con il decisivo supporto del web, da cui si può attingere facilmente qualunque nozione o notizia e tutto quel di cui si ha bisogno, qualunque informazione, spiegazione, soluzione, e qualunque tipo di raccomandazione, di suggerimento, di strategia comportamentale e relazionale?L’intellettualità è ormai quella informatica, mediatica, robotica; perché bisognerebbe ancora ricorrere ai ruderi culturali del passato, a mitiche figure di educatori civili, sociali, politici in un contesto storico-culturale in cui ormai tutti possono disporre, con un semplice click di tastiera, di una figura impersonale e meccanizzata di intellettuale che trova la sua più moderna, asettica e avanzata sede d’elezione nelle piattaforme on line?3.

Per quanto ciniche possano sembrare, anche queste considerazioni hanno un fondo di verità, dal momento che nella storia umana, tranne che la Parola di Dio nel cuore di quanti intendano restarle fedeli, tutto cambia e non c’è niente, non c’è istituzione o modello conoscitivo e culturale, non ci sono sistemi economici e costumi sociali, né religiosità e credenze popolari, né figure professionali e modalità relazionali di natura assembleare o interpersonale, che, pur sempre accomunati da una sorta di naturale funzionalità rispetto ai molteplici piani e aspetti del vivere personale e collettivo, possano rimanere immutati nel tempo sottraendosi all’inevitabile trasformazione delle loro forme. Occorre, però, precisare che è difficile immaginare un’intellettualità meramente tecnica o tecnologica, completamente muta, priva di oralità, di espressività, di tonalità, di gestualità, quindi di capacità di coinvolgimento emozionale, giacché non c’è vero apprendimento di conoscenza, di sapere, se non nei limiti in cui l’essere umano nella sua globalità venga adeguatamente coinvolto, motivato, indotto a riflettere e a cercare autonomamente il vero e il giusto.

Un giornalista colto, di formazione filosofica ed economica, e quindi un intellettuale a pieno diritto, come Luigi Sanlorenzo, in un suo articolo on line intriso di realistico pessimismo, ha significativamente affermato che «“Educare” … non è solo “istruire”, ossia trasmettere conoscenze, ma far presa sull’emotività degli studenti che, se non entra in gioco, preclude l’apertura della mente. Del resto, già Platone segnalava che si apprende per “via erotica”. E tutti noi abbiamo studiato volentieri le materie insegnate da professori che ci affascinavano … Cuore e mente, sentimento e ragione, apollineo e dionisiaco in una sintesi inedita e creativa. Forse è stato ed è questo il vero ruolo dei Maestri: irrigare il deserto dell’anima, come fiumi, ora impetuosi e manifesti, ora carsici e celati, portatori di una stagione fertile e rigeneratrice che lo trasformi nell’Eden primigenio»4.

E allora, se anche dovesse accadere che l’intellettuale del XXI secolo non sopravviva nelle sue forme tradizionali e sia soggetto ad un drastico e significativo ridimensionamento di immagine e di popolarità, che potrebbe rivelarsi tuttavia utile ad una riscoperta delle sue umili e nobili origini — quelle per cui l’uomo di pensiero, ancora assolutamente lontano dalle seduzioni del potere o della notorietà, del prestigio o dell’influenza sociale, si immergeva nei complessi e oscuri meandri della natura e dell’animo umano e si interrogava, per sua personale necessità e per generoso servizio a favore di quanti quella stessa necessità condividessero, sugli innumerevoli problemi emergenti da quella stessa immersione intellettuale e spirituale —,  la sua immagine, come la sua funzione critica, forse continueranno ad essere tutt’uno con la personalità, l’umanità, gli umori e le intemperanze caratteriali, di coloro che vorranno provare ad incarnarle riproponendosi, in un rinnovato e rivisitato registro comunicativo e relazionale, come indispensabili termini di riferimento, come concrete e preziose opportunità di interlocuzione individuale e collettiva sui destini complessivi del mondo.

Fino a che ci sarà vita e vita civile sulla terra, anche se in condizioni terribilmente difficili o drammatiche, l’uomo di pensiero non sparirà, non essendovi più pensiero solo se non vi sia più vita. E, al solito, egli sarà chiamato a destreggiarsi tra le caratteristiche e insuperabili antinomie del suo mestiere: tra ragione critica e ragione dogmatica, tra razionalità storico-immanente e razionalità storico-trascendente, tra ragione laica e ragione religiosa, tra fede nella ragione e rassegnata e disincantata o scettica accettazione dell’irrazionalità, tra impegno e disimpegno, tra realismo e utopia, tra attivismo etico e coscienzialismo intimistico e moralistico, tra militanza e non militanza5. Ma, al di là delle particolari simpatie che ogni essere umano verrà legittimamente esprimendo per gli intellettuali a lui più congeniali, sarà sempre intellettualmente opportuno e necessario astenersi da scelte aprioristicamente discriminanti, fatte per sentito dire e non per precisa cognizione di causa, per conoscenza diretta almeno dei passaggi essenziali di determinati itinerari di pensiero, anche in considerazione del fatto che spunti interessanti o geniali, osservazioni critiche pertinenti e preziose, giudizi parzialmente condivisibili, non di rado possono essere individuati anche in pensatori sostanzialmente lontani dalla nostra sensibilità e dai nostri personali orientamenti teorici e ideali.

Solo in questo modo potrà essere esperito il saggio tentativo di mettere seriamente la cultura al servizio dello sviluppo nazionale e internazionale, integrando nella coscienza civile di tutti il contributo teorico-intellettuale e scientifico di quanti lavorano, sia pure tra immancabili limiti e condizionamenti soggettivi, su questioni di fondo, anziché discriminarli, isolandoli e costringendoli a rinchiudersi in comode anche se anguste torri d’avorio. Condannare il contributo di qualcuno all’irrilevanza, solo perché potrebbe recare disturbo a più collaudati modi di vedere le cose, significherebbe privare l’intera società di risorse intellettuali che potrebbero rivelarsi preziose soprattutto nei frangenti più critici del suo sviluppo.

Francesco di Maria

Note

1 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Torino, Bollati-Boringhieri, 2007, ma pubblicato la prima volta nel 1992.

2 Particolarmente appassionate e significative sono, in tal senso e al di là di possibili eccessi polemici, denunce come quelle contenute in due libri di impostazione tradizionalista ma corretti e rispettosi dell’ortodossia cattolica: Michele Arcangelo (pseudonimo), La Chiesa tradita. Scempio della fede latina, Roma, BastogiLibri, 2017; B. Gherardini, Ecumene tradita. Il dialogo ecumenico tra equivoci e passi falsi, Verona, Fede&Cultura, 2009.

3 L’informatizzazione della conoscenza e della comunicazione pone problemi molto seri che impongono una riflessione attenta e rigorosa, in parte contenuta, anche su un piano propositivo, in un recente libro: F. Brevini, Abbiamo ancora bisogno degli intellettuali? La crisi dell’autorità culturale, Milano, Cortina Raffaello, 2021.

4 L. Sanlorenzo, Metamorfosi involutive. L’Italia è un paese senza intellettuali, nel sito “Linkiesta”, 8 agosto 2020.

5 Si hanno intellettuali di tutti i generi,  a prescindere dagli orientamenti politici, spesso discontinui o contraddittori, di ognuno di essi, come emerge anche dal libro di R. Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2011, dedicato principalmente a quei celebri intellettuali italiani, quasi tutti letterati, che seguirono con distacco individualistico le vicende della seconda guerra mondiale astenendosi dal partecipare attivamente alla Resistenza e alla contemporanea opera di ricostruzione morale e civile dell’Italia uscita dal fascismo e dalla guerra. Lo stesso autore aveva già ampiamente sottolineato il disimpegno etico-intellettuale o, se si preferisce, il neutralismo ideologico-politico, di uomini come Pavese, Moravia, Calamandrei, e tanti altri, che preferirono non scegliere e stare dalla finestra a guardare lo svolgimento e l’epilogo degli eventi, R. Liucci,  La tentazione della “casa in collina”. Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana, Trezzano (Mi), Unicopli, 1999. Ma interessante e istruttivo è anche: S. Simon Levis, I fantasmi del fascismo. Le metamorfosi degli intellettuali italiani nel dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 2021, dedicato alle figure di Federico Chabod, Piero Calamandrei, Luigi Russo e Alberto Moravia. Ma ormai è risaputo che, sotto il fascismo, gran parte degli intellettuali italiani, successivamente convertitisi a ideologie “democratiche”, o avrebbero collaborato attivamente con esso, o si sarebbero limitati a prenderne la tessera di partito, o si sarebbero chiusi in una sorta di indifferenza difensiva, o si sarebbero “imboscati”, decidendo peraltro di cambiare casacca al momento opportuno.

 

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