Per quanto stupita e commossa, Maria non dubita né dell’apparizione angelica né del pur breve ma significativo colloquio avuto con l’inviato di Dio. Non pensa di essersi sbagliata, di essere rimasta vittima di un’allucinazione o di un qualche inganno della mente, semplicemente perché, anche ben supportata da una rigorosa formazione biblica, la sua mente era sempre stata aperta alla possibilità di esperienze sovrannaturali nel quadro della ordinaria realtà umana. Naturalmente, tali esperienze possono essere ammesse e riconosciute oppure negate e misconosciute, ma esse, pur rivestendo una valenza eminentemente soggettiva e personale, non possono essere negate aprioristicamente né ridotte a fantasmi di una attività mentale patologica o iperattiva. Da un punto di vista credente, tali esperienze sono parte costitutiva e integrante di quel problema o di quella ricerca di Dio che rappresenta senza alcun dubbio la questione più antica, più urgente e impegnativa della storia dell’umanità, anche se molti continuano a ritenerla, con argomenti in vero alquanto generici e speciosi, questione fittizia e del tutto ininfluente sulla vita delle persone e sulla storia dei popoli. A dire il vero, anche nelle comunità cristiane e cattoliche di ogni tempo e soprattutto del tempo corrente, non sono mai mancate e non mancano forme pregiudiziali e aperte di diffidenza, se non di ermetica chiusura, verso tutto ciò che abbia a che fare presuntivamente con manifestazioni del divino concretamente esperite o esperibili. Ma, pur ritenendo doverosa e necessaria ogni cautela nel valutare qualunque fenomeno che non appaia facilmente inquadrabile nel normale ordine degli accadimenti umani, il credente non ingenuo e non superficiale resta convinto che, se “nulla è impossibile a Dio”, sia per via di fede che di ragione non possa apparire certo inammissibile che il potere divino possa manifestarsi in diversi modi anche in ambito profano. Ed è dunque in questa ottica che, secondo una metodologia idealtipica weberiana, si verrà qui sviluppando il ragionamento.
Maria è un’amante della sapienza biblica, che non è espressione di una fede staccata dalla ragione pur non essendo una sapienza puramente intellettuale ma anche, e in egual misura, una sapienza pratica, prescrittiva, normativa, e tale quindi da riguardare tutti gli aspetti dell’esistenza, la vita nella sua totalità. Maria è un’amante della sapienza e della verità e della ricerca indomita di ambedue e giunge alla conclusione che nulla sia umanamente conoscibile e virtuosamente praticabile al di fuori di quello che venga reso conoscibile e sancito sul piano valoriale da Dio, anche perché, senza la fede in Dio come principio di verità e santità, l’umana conoscenza non potrebbe mai avere, anche in presenza di metodi di ricerca particolarmente affinati e attendibili e sia pure in una prospettiva di tempi lunghi, i crismi della solidità, della stabilità, dell’oggettività, dell’universalità, e d’altra parte il mondo morale sarebbe continuamente soggetto alle opinioni, agli umori, ai capricci e all’arbitrio degli uomini. Di questa natura è, per così dire, il percorso filosofico e teologico, nel senso informale e più ampio del termine, di Maria.
Ora, così come Maria, alla luce della sua interlocuzione angelica, non perde assolutamente niente della sua autonomia di giudizio e di coscienza, allo stesso modo il credente, di cui la giovane nazarena è archetipo ineguagliabile, tanto sul piano religioso quanto sul piano filosofico, nel prendere in considerazione e nell’accogliere l’interpellanza evangelica non perde assolutamente nulla della sua capacità di discernimento, si può anche dire della sua autonomia critica, ma guadagna solo l’opportunità conoscitiva di allargare il suo campo di riflessione, gli orizzonti della sua ricerca di fede e di ragione ad un tempo. Papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica “Fides et ratio” (108), si spingeva a cogliere in Maria non solo un’immagine esemplare di fede ma anche un’immagine di corretta ricerca intellettuale o, in senso lato, filosofica, peraltro in linea con quanto avevano già intuito gli antichi padri cristiani, convinti che una ricerca filosofica cristiana dovesse avere una matrice mariana e che l’attività filosofica del mondo cristiano potesse essere pienamente legittimata in uno spirito mariano. Non un filosofare legato ad un modello di razionalità ristretta o unilaterale utilizzabile solo in funzione di cose o significati dimostrabili su un piano empirico-osservativo e logico-teorico, ma connesso ad un modello più ampio, ad un modello aperto di razionalità finalizzato ad indagare non solo le regioni del mondo conosciuto e conoscibile ma anche le regioni di un mondo ignoto e forse inconoscibile ma non per questo irreale o inesistente, là dove peraltro nel mondo ordinariamente sperimentabile non mancano certo indizi che inducano a pensare che la verità e il senso del mondo e della vita non possano essere semplicemente racchiusi nelle scoperte e nelle cognizioni della realtà immanente ma debbano essere invece ricercati anche in ambiti conoscitivi e morali di realtà trascendenti o ancora trascendenti. C’è un tutto, una totalità indeterminabile di cose, aspetti, piani, significati, valori, strettamente intrecciati o interdipendenti tra loro, e la possibilità stessa di cogliere le strutture portanti, i princìpi fondanti di questa totalità sfugge completamente alle tradizionali nozioni di immanenza e trascendenza, non potendosi stabilire aprioristicamente se e in che misura ciò che oggi è conoscibile, valido o dotato di valore in termini storico-immanenti, potrà esserlo anche in futuro, oppure se e in che misura ciò che oggi appaia inaccessibile, impenetrabile, trascendente, domani potrà rivelarsi ai sensi e alla ragione come fondamentalmente identico a quanto creduto per fede oppure difforme da ciò che oggi per fede si venga postulando.
La fede mariana in un mondo altro da quello terreno e governato da un Dio creatore e Salvatore non pregiudica affatto il principio di un sapere libero e autonomo che venga esercitandosi criticamente senza impegnare o coinvolgere in sé le verità rivelate della fede, né quello di un agire morale e di un sentire spirituale fondati sulla libertà di coscienza e di giudizio, ma allarga idealmente a dismisura i confini del conoscibile e della vita pratica dell’uomo. Davanti a certe questioni particolarmente difficili di natura scientifica e, per così dire, “indecidibili”, persino lo scienziato più rigoroso, ove non voglia rinunciare alla ricerca, si trova costretto a compiere una scelta, un atto di fede più che di ragione, un atto di natura più intuitiva ed istintiva che logica e decisamente assertiva, per non dire che la scienza stessa, in quanto tale, non dispone di fondamenti assolutamente certi e immutabili ma anch’essa, non meno della fede, di semplici presupposti intuitivi e a-logici la cui validità euristica sia continuamente suscettibile di revisione e perfezionamento. La fede mariana è la fede della ragione umana nell’esistenza, nell’amore e nella giustizia di Dio, ed essa non si contrappone affatto alla fede razionale e scientifica nella conoscibilità del reale e in una validità universale dell’etica umana. La figura di Maria non è quella della credente stereotipicamente vincolata a modelli devozionali di tipo fideistico, esclusivamente associati ai contenuti dogmatici della fede e della teologia, ma quella della credente che, pur consapevole dei limiti e delle ambiguità della ragione umana, assume quest’ultima, in relazione a qualunque ambito di sapere e di umana esperienza, quale fonte di radicale apertura intellettuale e spirituale verso una infinita verità che Maria identifica con Dio.
Il domenicano Timothy Radcliffe ha giustamente osservato che l’appassionata ricerca intellettuale e religiosa di Maria non è fine a se stessa e staccata dal fluire spesso impetuoso e imprevedibile dell’esistenza, perché, al contrario, è proprio di esso che si sostanziano i suoi stessi pensieri e sentimenti religiosi. Il suo pensare non è astratto dal suo vivere, né isolato rispetto ad esso, ma è profondamente condizionato dal suo vivere: esso non si esaurisce nella contemplazione orante e nel culto delle verità divine, ma trova la sua origine e il suo senso nella capacità di ascoltare i suoni, le voci, i discorsi del mondo e di saperne selezionare e riconoscere gradualmente i significati, il valore, il grado di veridicità, sino alla scoperta della presenza di Dio nella propria vita personale e nella vita di tutti gli altri esseri umani. Maria sa ascoltare perché sa fare silenzio dentro di sé e attorno a sé, perché è capace di quell’attenzione senza la quale non sarebbe possibile non già il semplice sentire ma il vero ascoltare che introduce alla comprensione e alla visione di ciò che venga posto quale oggetto dell’ascolto. Maria ascolta perché si sente povera di verità e di una verità che non può raggiungersi in modo casuale, occasionale, fortuita, ma solo impegnando ogni volta la coscienza in un’opera di riflessione non ingenua ma attenta e intenta a cogliere non aspetti generici o esteriori di cose, pensieri, eventi, situazioni umane, ma i loro significati meno appariscenti, i loro valori più specifici e profondi, la loro essenza razionale, morale, religiosa. Maria ascolta, intende, comprende l’altro cosale, gli altri umani, e l’Altro trascendente, non tanto nel senso di conquistarne la consistenza conoscitiva per mezzo di una penetrazione intellettuale, che corrisponde ad una concezione tipicamente maschile e fallocratica del conoscere e del sapere, ma piuttosto nel senso di una disponibilità ad accogliere, ad ospitare ciò verso cui la coscienza dirige o orienta il proprio sguardo intenzionale, a lasciarsi fecondare gradualmente dal potere rivelativo di qualcosa che viene interpellato dall’intelletto, a ricevere la verità come qualcosa che si dà, che si offre, la verità come dono e non come possesso.
Per tutto questo, il pensare mariano, che, per interna dinamica, non è mai un pensare teorico unilaterale o univoco ma multilaterale o plurivoco, per cui la stessa realtà cui esso tende può essere percepita intellettivamente in senso più ristretto o riduttivo oppure in senso più largo ed estensivo, e che tuttavia non sussiste solo come pensare tendenzialmente logico-formale ma anche come pensare pratico e quindi soggetto alle componenti affettive, emotive, relazionali, etico-morali della persona, non è mai un pensare solipsistico e prettamente soggettivistico ma sempre aperto a un campo indefinito di possibilità, che venga implicando o imponendo opzioni o scelte diverse e alternative, ugualmente legittime da un punto di vista formale ma spiritualmente antitetiche. Quello mariano è, altresì, un pensare relazionale, integrativo e selettivo ad un tempo, avente luogo in un rapporto di reciprocità con l’altro materiale o ideale, con gli altri umani, con l’Altro divino o sovrannaturale, e per questo motivo è anche un pregare e un pregare che si pone non come altro dalla struttura spirituale del pensare ma come costitutivo di essa e quindi come parte integrante dell’ascoltare, dell’intendere, del comprendere, del conoscere, dell’essere stesso di sé in pienezza.
Ma questa speciale e complessa configurazione della sua facoltà di pensare e di sentire, di giudicare e valutare, di conoscere e amare, per Maria non è opera sua, bensì opera dello Spirito Santo, lo stesso che ne avrebbe fecondato il grembo di vita divina. Suo merito non inferiore, tuttavia, sarebbe stato quello di assecondare lo Spirito lasciandosi guidare interiormente da esso pensando e vivendo nella fedeltà agli insegnamenti di Cristo e alla divina volontà. In effetti, Gesù non avrebbe mai potuto fare la volontà materna, sia pure con qualche suo intervento correttivo, esortativo, educativo, se Maria non fosse stata in grado di fare sempre la volontà del Padre: d’altra parte, tra Gesù e Maria sussiste pur sempre un ineliminabile scarto ontologico e si può ben comprendere che egli debba lavorare talvolta al perfezionamento della spiritualità materna, così come d’altra parte non si può non capire che, dovendo essere educato a vivere sotto il profilo umano e civile nel mondo terreno, Gesù non potesse sottrarsi generalmente agli insegnamenti e ai suggerimenti materni o disubbidire alla volontà della madre. Maria, accanto a Gesù, cerca sempre di capire, di apprendere, di imparare cose che ancora ignora e che il figlio conosce quasi sempre perfettamente: ella è sempre alla ricerca del non ancora, del nuovo, del vero, con una incrollabile fede nel fatto che la persona del Figlio sia fonte sicura, anzi unica fonte sicura e affidabile di verità, carità, santità; ella è la prima seguace, la prima ed autorevole discepola, la prima ed ispirata testimone della santità divina, la prima e appassionata filosofa della fede cristiana, mentre Gesù, esperto conoscitore degli eterni misteri di Dio, della vera e profonda identità e della volontà del Padre, esprime soprattutto il più paradigmatico e ispirato modello di sapere teologico di cui la storia del cristianesimo e delle religioni in genere possa disporre. Se nel Cristo ragione e fede, sapere razionale e sapere biblico e teologico, attività intellettiva e attività di preghiera e di lode, si pongono in un rapporto di totale continuità, in Maria questi due momenti di vita spirituale, pur continuamente intersecandosi e unificandosi, appaiono pur sempre segnati da un leggero scarto dialettico dovuto o conseguente alla differenza ontologica intercorrente tra la natura interamente umana di Maria e la natura anche e già perfettamente divina di Gesù, donde una saldatura fra tali momenti umanamente esemplare anche se di natura non intrinsecamente costitutiva.
Tra filosofia e teologia verrebbe così ad instaurarsi un rapporto di circolarità, non di unità senza distinzione e non di distinzione senza unità. Meditando sulla specifica identità spirituale di Maria e sul rapporto tra tale identità e quella di Gesù si è potuto affermare non in modo avventuroso o temerario ma ragionevole e persuasivo: «Che cos’è la filosofia? È Maria, in quanto è la natura umana elevata al piano divino, che pur rimane natura umana. E che cosa è la teologia? È Gesù, in quanto Egli è la congiunzione perfetta di umano e di divino. Ma, come non si può separare Maria da Gesù, non si può separare la filosofia dalla teologia, in quanto, pur dialetticamente disgiunte, risultano trinitariamente unite» (P. Foresi, Conversazioni di filosofia, Roma, Città Nuova, 2001, p. 133). La differenza ontologica non sembrerebbe impedire che spirito filosofico mariano e scienza teologica gesuana restino trinitariamente unite: «fare teologia sarà accettare la rivelazione e studiarla in quanto ci viene data da Dio. Fare filosofia sarà studiare il pensare, anche quello rivelato, in quanto è accettabile e comprensibile dalla mente umana. Quindi la filosofia ha implicita l’accettazione della rivelazione, però una rivelazione studiata col solo lume della ragione e spiegata non in virtù dell’autorità di Dio che rivela, ma in virtù del fatto che l’esperienza del cosmo e dell’umanità ci fa capire come nella rivelazione ci sia la soluzione ultima, completa, che dobbiamo approfondire. Quindi con la filosofia direi: “ecco, io capisco questo”; con la teologia: “io credo tutto”. Però già con quello che capisco posso fare molto, andare molto avanti» (Ivi, p. 156). Non molto meno convincente e suggestiva, anche se forse da rivedere e migliorare concettualmente, è un’altra affermazione: «Maria accoglie in sé il Logos eterno, lo riveste delle sue carni, ma distinto da sé: la filosofia accoglie la teologia, la riveste di sé ma distinta da sé. Maria forma il Figlio nel mondo, cristifica il mondo: la filosofia dà linfa alle scienze per la loro fioritura, come logos sapienziale del reale nel suo volto immerso nel divenire e nella “materialità”: dall’uomo, che è Cristo, alla natura, che è la Terra del Cristo. In sé, Maria è né l’una realtà né l’altra: è accoglimento puro, non-essere che è in altro. Ma che per questo è. Non si tratta di cancellare la filosofia nella teologia o nelle scienze, ma di scoprirne la forma proprio nel suo essere puro vuoto d’amore che accoglie il logos di Dio e i logoi degli enti» (G. M. Zanghí, La filosofia ha ancora oggi un destino?, in «Nuova Umanità», XVIII (1996/6), n. 108, pp. 637-638).
La figura metaforica di una Maria filosofa viene a significare che la ricerca storica del vero nasce autonomamente nella coscienza umana come ricerca quindi emergente “dal basso” e dall’ascolto soggettivo di un’esperienza sempre diveniente e quindi dei relativi significati sempre perfettibili: Maria esprimeva la verità delle cose, dell’uomo e del mondo, così come ella la percepiva, la sentiva, la intuiva razionalmente e spiritualmente, e dunque pur sempre nella sua parzialità, incompletezza, relatività, ma senza cessare di confidare in una progressiva illuminazione dello Spirito Santo che poco per volta avrebbe potuto condurla ad una visione via via più chiara ed esaustiva della verità stessa, ad una contemplazione teorico-pratica così frequente e intensa della verità da risultare persino suscettibile di trasformarsi in luminosa contemplazione mistica di Dio. La filosofia, come Maria, nel liberarsi dalla sua assoluta ma limitata autoreferenzialità, tende ad allargare e ad affinare le sue capacità di inesauribile e mai definitivo approfondimento critico. Così, la verità mai posseduta, resta dono misteriosamente elargito agli esseri umani che, in base all’uso che vorranno e sapranno farne, avranno l’opportunità di sentirsi perennemente poveri e perciò destinati alla beatitudine promessa dal Cristo oppure lo svantaggio di trovarsi esposti alla disgrazia di fidare illusoriamente e rovinosamente nell’onnipotente potere esplicativo e risolutivo del proprio intelletto.
La fede, pertanto, alla luce dell’esperienza mariana, necessita della ragione come strumento soggettivo ed intersoggettivo indispensabile di riflessione e giudizio sulle esperienze personali e comuni di vita, sulla maggiore o minore validità della vita spirituale nella sua duplice valenza personale e comunitaria, e sul senso presunto o reale dei contenuti stessi della propria o dell’altrui fede. Ma questa opera strumentale, “ancillare” se si vuole, della ragione rispetto alla fede, della filosofia rispetto alla teologia, non implica alcuna subordinazione qualitativa della ragione e della ricerca filosofica rispetto alla fede e al sapere teologico, in quanto la fede senza razionalità, modesta o illuminata che sia, sarebbe una manifestazione ben poco comprensibile e significativa di spiritualità. La fede resta inscritta costitutivamente nella complessa e articolata area dell’umana razionalità, nel senso che si pone come una delle possibili opzioni della razionalità, pur tenendo conto del fatto che non ogni opzione razionale ha il medesimo grado di validità e di efficacia epistemica, morale, spirituale e religiosa. La fede anzi è continuamente alimentata da una ragione volta ad andare al cuore delle cose, all’essenza o al significato reale del loro manifestarsi.
In realtà, l’umana razionalità è funzionale alla ricerca del senso visibile ma soprattutto del senso invisibile della realtà, e invisibile non solo in un orizzonte immanentistico, in cui la ricerca avvenga orizzontalmente per causas, bensì anche nel più ampio e indefinito-indefinibile orizzonte trascendente, in cui la ricerca possa aver luogo anche in senso verticale, sebbene in un ambito sottratto a prove empiriche di qualunque genere storico-scientifico e tuttavia non necessariamente a qualsivoglia esperienza di natura sensoriale e a pertinenti intuizioni, supposizioni, costruzioni di menti e anime indagatrici e soggette, indipendentemente dal loro essere predisposte a credere o a non credere, al vento imprevedibile e sorprendente dello Spirito. Ma la fede, che è il possibile sbocco di una rigorosa ricerca critico-razionale, continua ad aver bisogno, all’interno stesso del suo specifico dominio dogmatico-conoscitivo, di una luce razionale tanto più intensa quanto più favorita dal possibile, inspiegabile diradarsi della fitta nebbia che generalmente staziona al confine tra noto e ignoto.
La ragione intercetta, nel suo cammino, la dimensione della fede, e tale dimensione essa può porre poi al suo servizio per favorire un incontro sempre più integrale tra sé e la verità e la giustizia assolute. La filosofia può vivere da sola senza rapporto con gli altri saperi, ivi compreso quello teologico, ma in tal modo non avrebbe alcuna possibilità di conoscere le proprie reali possibilità e i propri limiti di ricerca, né la propria identità e funzione epistemica. La sua ragion d’essere è esclusivamente nel suo saper essere in dialogo, in relazione con tutte le altre discipline, con tutte le scienze, non esclusa la scienza del sacro e la domanda perennemente ricorrente di sovrannaturalità. La sua ragion d’essere è quella di essere madre come Maria, sempre ospitale e affabilmente dialogante verso tutti, anche se mai disposta a rinnegare gli esiti della sua libera e autonoma ricerca spirituale e religiosa. La filosofia è di tutti e per tutti ma, per essere mariana, e non è affatto detto che debba esserlo, deve riconoscere che il principio primo e ultimo del Tutto non è un principio anonimo, impersonale o puramente regolativo, ma un principio rivelatosi chiaramente nella storia dell’umanità, un principio personale e tre volte santo, un principio che ha il nome di Padre e trae la sua linfa infinitamente creatrice dalla relazione ontologico-trinitaria sussistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Gesù, sapendo che la madre è figlia prediletta del Padre ed è tutt’uno con lui, impara ad essere umanamente filosofo proprio da sua madre, e proprio nel porre la domanda estrema: perché Dio mio mi hai abbandonato?, si rivela quale filosofo per eccellenza, costituendo tale domanda la domanda filosofica per eccellenza. Infatti, se anche chi non crede avrà facoltà di esercitare un impegno filosofico nell’interrogarsi sulle ragioni immanenti, sulle essenze logico-ideali, sul senso interno o sulle finalità intrinseche della vita e della storia di individui e popoli, solo il credente, solo colui che non si rassegni all’idea semplificatrice di una vita e di una storia prive di senso o di scopo, verrà a trovarsi prima o poi al cospetto di questo nodo etico ed intellettuale apparentemente inestricabile: se Dio è ed è nella sua sapiente onnipotenza creatrice o distruttiva, per quali ragioni tale razionale, mirata, santa onnipotenza divina, finisce per ritorcersi anche contro la stessa realtà divina, contro la vita divina del Cristo liberatore, annientandone ogni potere e sottoponendola addirittura alla morte? E’ la domanda che, per qualche secondo, deve essere balenata nella mente di Maria sotto la croce, in modo esattamente simmetrico alla angosciata domanda di Gesù: Padre, so bene che qui mi hai inviato per il compimento di un’opera difficile e dolorosa, ma com’è possibile che la mia natura divina, identica alla tua, e il tuo stesso illimitato potere divino di Padre, non mi preservino neppure dalla sofferenza fisica e morale che potrebbe essere prevista e riservata, al più, per il più infame e malvagio degli uomini?
Di certo, né Gesù, né Maria sarebbero stati tentati di dare risposte incredule o banali, come quella per cui Dio sa sempre quel che fa, anche quando agisce contro se stesso, limitandosi essi a lasciare avvolto nel mistero il loro sgomento spirituale. Ma noi sappiamo oggi, proprio alla luce di quei drammatici avvenimenti evangelici, che persino la morte, la morte più dolorosa, efferata, ingiusta e straziante, non può limitare il potere di Dio: il potere di far risorgere se stesso in quanto persona storica e messianica e quanti ad essa si fossero sinceramente affidati. La morte definitiva non è inevitabile per chi realmente viva e muoia in Cristo-Dio: questo è ciò che conta per l’ora terrena, il resto sarà appreso domani nel mondo che verrà. L’amore filosofico e mariano della sapienza e della verità che venga rivelandosi attraverso la sapienza, approda in modo del tutto legittimo alle soglie del sacro, al di là delle quali restano le risposte decisive che la ragione umana potrà acquisire quando non avrà più bisogno di fede. Maria, nel corso di tutta la sua vita terrena, aveva compiuto, per via di ragione non meno che di fede, una scelta precisa e irreversibile: il credere che Dio, il Dio di Cristo, sia la chiave dell’esistenza, e che la fede in Dio e nel Dio biblico-evangelico non comporti la salvezza in questo mondo ma la salvezza da questo mondo e da tutti i traumi mondani da cui le creature non sono immuni se non nella prospettiva e con i mezzi salvifici rivelati da Cristo.
Maria è stata capace di accogliere nella sua mente e nel suo cuore non tanto le sapienti parole di uomini dotti quanto la Parola originale e originaria, la Parola stessa di Dio, il Verbo incarnato, che esprime il reale nella sua purezza ontologica, nella sua incontaminata verità. Maria ha concepito, ha messo al mondo il Verbo di Dio, senza mai tentare di appropriarsene, anche perché consapevole che non avrebbe potuto, ma ascoltandolo e imparando da esso tutto ciò che era necessario per la sua stessa vita di creatura, e infine restituendolo umilmente al Padre sotto la croce. L’aver saputo comprendere sempre meglio il disegno sovrannaturale e la volontà del Padre avrebbe prodotto la commossa e inaudita decisione divina di decretarne l’immediata e gloriosa Assunzione in cielo in anima e corpo, non solo in qualità di Madre della Chiesa e del genere umano ma anche in qualità di Regina-Madre del cielo e della terra, di tutti gli esseri celesti e di tutti gli esseri terreni.
Maria ritenne che la vera conoscenza non possa provenire da processi mentali interamente chiusi in una specie di soliloquio intellettuale e solo retoricamente aperti alla ricchezza dell’esperienza e dei saperi dati, ma da una mente accogliente verso ciò che appaia lontano, distante o illusorio, da forme non predeterminate di col-loquio, di comunione, di rapporto spirituale con immagini non stereotipate, cristallizzate, consuetudinarie ed ingenue o semplicemente propagandate, di realtà, di verità, di essenzialità. Ascoltare Cristo per lei avrebbe significato ascoltare l’Altro più inimmaginabile e sovversivo, familiarizzare con la verità più pacifica e tagliente, interiorizzare come programma di vita l’annuncio più sconvolgente e appagante. Il retto filosofare per lei non poteva ridursi a semplice e generica speculazione intellettuale o ad un esercizio critico della mente fine a se stesso, ma doveva rimanere congiunto al desiderio e alla volontà di trasformazione interiore, di conversione spirituale, di essere diversi e migliori rispetto a come si è. Benchè “privilegiata” sin dalla nascita, Maria non fu esentata da limiti, condizionamenti culturali e sociali, tensioni e paure esistenziali, comuni a tutte le altre creature, e volle proiettarsi verso stati sempre più limpidi di spiritualità e santità. Il suo modo di filosofare l’avrebbe portata a scoprire che il suo non-essere avrebbe potuto essere solo nell’Essere immortale ed eterno di Dio.
Francesco di Maria