Leopardi e Dio

L’inarrestabile incivilimento del mondo comporta un graduale allontanamento dalla naturalità della vita, da un modo naturale di vivere. E questo è destinato a complicare enormemente l’esistenza umana, in quanto la crescente separazione dalle leggi naturali della vita non può che comportare verosimilmente, negli esseri umani, una tendenza altrettanto crescente all’«indifferenza», alla «morte delle passioni e delle emozioni», all’«impossibilità di sentire e di immaginare», che «sono solo alcuni degli effetti visibili nel cambiamento di paradigma»1 (F. Cacciapuoti, Editoriale. Sull’etica, in Rivista “Appunti leopardiani”, 2013, 1, n. 5-6, p. 7). In realtà, Leopardi, che nel corso della sua riflessione poetica e filosofica viene idealizzando lo stato di natura in modi molto diversi e persino opposti, ne avrebbe sì individuato il sostrato fisico-astronomico in una struttura materiale eterna e retta da inesorabili leggi meccanicistiche  ma identificandolo con condizioni etico-esistenziali ora più tollerabili, ora sempre più intollerabili e crudeli. Quale sia stata effettivamente la realtà morale degli uomini nello stato di natura, in Leopardi non mero mitico e immaginario che in Rousseau nonostante la critica esercitata in questi termini dal primo nei confronti del filosofo ginevrino2 (Cfr. N. Sapegno, Giacomo Leopardi, in Storia della letteratura italiana (diretta da E. Cecchi e N. Sapegno), Milano, RCS, 2005, vol. XIII), né Leopardi, né altri, sarebbero mai stati in grado di indicare con precisione, ed è pertanto probabile che anche il pensatore-poeta di Recanati, pur oscillando tra una prima idea fiduciosa e una successiva idea ben più cupa e contrariata di natura, abbia inteso  utilizzare tale tema più che altro a scopo polemico, per evidenziare e denunciare il degrado di pensiero e di costumi prodotto dalla civiltà e il muoversi di quest’ultima verso forme e stadi sempre più esasperatamente irrazionali di vita.

Da una parte Leopardi appare condizionato dal materialismo metafisico settecentesco, dall’altra dall’apologetica religiosa che avrebbe molto inciso sulla sua formazione giovanile. Da una parte, un mondo governato da un ferreo determinismo, dal capriccio del caso, dalla totale mancanza di senso, dall’altra un persistente stupore davanti al mistero di un universo infinito e insondabile, la non accettazione del male nel mondo, del dolore e dell’infelicità nella vita e nella storia degli uomini, e in fondo la taciuta nostalgia di un Dio che desse risposta ad interrogativi altrimenti destinati a rimanere senza risposta. Questo significa anche che, in Leopardi, tra la sua concezione materialistica del mondo e la sua amara ma mai sopita ricerca del senso della vita, sarebbe intercorsa costantemente una fortissima tensione. Sempre dibattuto tra l’esasperante mutismo della nuda realtà delle cose e l’ostinata speranza di riuscire a cogliere almeno un indizio di senso razionale nella fredda e cieca congerie di avvenimenti storico-umani, Leopardi non avrebbe mai desistito dal fare dei suoi affanni, della sua solitudine e della sua disperazione esistenziale, un luogo privilegiato di indefessa e inesauribile interrogazione poetico-filosofica.

Se l’uomo porta in sé un desiderio di felicità, non si comprende per quale motivo il suo destino fattuale debba essere l’infelicità. Se la sua anima si ribella alla sua debole e mortale corporeità, se la sua costituzione fisico-psichica e il suo particolare essere in relazione con i suoi simili gli procurano alla lunga più sofferenza che godimento3 (S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 161), bisogna pur chiedersi se sia conforme a un qualche principio razionale e realistico di giustizia il provvidenzialismo cristiano o sia semplicemente spiegabile con il dogma di un peccato originale l’infelice destino terreno del genere umano. La natura idealmente dovrebbe essere benigna, in quanto principio di vita, di sviluppo, di creatività, di compartecipazione umana ad opere di progresso civile e culturale, ma quanto più essa diventi oggetto di coscienza, di riflessione, di apprendimento, il senso umano di stupore, di incantevole e coinvolgente meraviglia, suscitato dalla apparente regolarità delle sue leggi e dei fenomeni che vi hanno luogo, e dalla spettacolare bellezza delle sue specie viventi e dei suoi esseri o corpi non viventi, delle sue risorse, dei suoi colori, dei suoi stessi insondabili misteri, comincia ad essere affiancato e poi sopraffatto da un senso di paura, di terrore e di sconforto esistenziale, perché si viene costretti a prendere atto della sua angosciante ambivalenza strutturale: la natura non è solo buona, benefica, affascinante, ma anche cattiva, maligna, terrificante, e lo è in particolare la stessa natura umana che genera esseri normali ma anche esseri abnormi, creature gentili e affabili e creature rozze o animalesche, intelletti sensibili e profondi ed intelletti stolti e superficiali. C’è anche una natura che accomuna tutti gli uomini ma che appare profondamente contraddittoria, perché desidera il bene ma è incline al male, chiede solidarietà e giustizia ma produce comportamenti egoistici e iniqui, invoca una pace universale ma le azioni ricorrenti cui dà luogo sono piuttosto quelle di una guerra permanente, anela alle altezze celesti dello spirito ma non di rado la si vede sprofondare nella melmosa palude dell’arroganza e della più becera saccenteria.

E’ probabile che sia stata un po’ questa la complessa e tormentata fenomenologia della vita intellettuale e spirituale leopardiana, vivendo e subendo nella sua vita, già di per sé alquanto gravosa, una molteplicità molto più infernale che paradisiaca di altre estenuanti vite. Perché i viventi sono, devono essere così malfatti, così tortuosi, così infelici, soprattutto nella loro inconfessata ma costante attitudine a distorcere e manipolare la realtà delle cose, il significato naturale dei valori morali e spirituali insiti nella dimensione umana di ogni individuo, la naturale dinamica collaborativa delle relazioni interpersonali e dei rapporti sociali? Possono mai spiegarsi l’antipatia, la rivalità, la gelosia, la discordia, la volontà di potenza, che imperversano nei rapporti tra simili e in ogni ambito della società civile, solo con fattori o motivazioni esclusivamente e irriducibilmente soggettivi, o non sarà la stessa struttura antropologica degli esseri umani a risultare geneticamente predisposta ad un’amplificazione esacerbante e corrosiva di stati d’animo, sentimenti, affetti, comportamenti, giudizi?

Cos’è che, si chiede Leopardi in diversi passi dello “Zibaldone”, non supportando costitutivamente la moralità e la spiritualità umane e non consentendo all’uomo di allentare sensibilmente la sua originaria vulnerabilità, la sua congenita alterazione, il suo patologico stato naturale di irrequietezza esistenziale, determina fondamentalmente le condizioni delle contrarietà, della conflittualità, dell’infelicità universale del genere umano? Può essere ritenuta veritiera o attendibile la spiegazione addotta dal cristianesimo: quella per cui un peccato originale avrebbe determinato un cambiamento radicale, un sostanziale deterioramento della qualità di vita degli uomini? E potrebbe ritenersi plausibile la connessa e conseguente indicazione della teologia cristiana, secondo cui l’unico modo rimasto all’umanità per ripristinare il perfetto ordine creaturale delle origini e per superare lo stato di perenne insoddisfazione in questo mondo mortale, sarebbe quello di accogliere integralmente l’offerta salvifica di Cristo? Come sarebbe possibile escludere che indicazioni di questa natura non rientrino nel grande calderone delle illusioni umane?

L’uomo percepisce nitidamente l’infinito, avverte il naturale e profondo bisogno di infinito, ma tale senso di infinito può costituire la prova dell’esistenza di Dio, dell’amore stesso misteriosamente elargito da Dio alle sue creature in tutte le fasi della loro storia terrena? Leopardi, che avrebbe sempre diffidato delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio,  si astiene dal dare una risposta, ma pone comunque il problema: sarà mai possibile capire e spiegare il non senso della vita, di questa vita, senza Dio e al di fuori di una prospettiva trascendente in cui il dolore possa ancora riscattarsi e mutarsi in gioia e pace della mente e del cuore? Fino a che punto sarà possibile alla ragione umana valorizzare criticamente le ragioni della fede o dichiararle piuttosto del tutto inutilizzabili sul piano filosofico e culturale? Le nostre passioni terrene si possono in qualche modo saziare e, tuttavia, pur completamente sazi di piacere fisico, intellettuale e morale, gli uomini continuano ad apparire largamente insoddisfatti e infelici. Di tutti i bisogni umani, quello di felicità è l’unico che manchi della possibilità stessa di essere soddisfatto, anche perché in effetti non è per niente agevole identificare l’oggetto della felicità che si desidera. Peraltro, quanto più l’uomo tende a soddisfare i suoi bisogni materiali, inclusi quelli della mente e della psiche, tanto maggiore è il suo avvertito senso di infelicità. Ma se tutto è materia come può spiegarsi questa clamorosa incongruenza della natura?

Non è che il poeta-filosofo marchigiano intenda accettare la mistificante argomentazione di stampo cattolico per cui l’uomo è infelice a causa del suo innato e inappagabile desiderio di felicità divina e infinita, essendo egli ben consapevole che in realtà la sua infelicità deriva dalle concrete miserie della sua quotidianità, ma appare convinto che persino l’uomo più libero da ordinarie e pressanti preoccupazioni terrene di natura psicologica, economica, affettiva o professionale, non possa considerarsi felice in presenza di possibilità anche per lui sempre e comunque imminenti e ineluttabili quali la malattia, la solitudine, la morte, né possa considerarsi felice semplicemente pensando all’ineluttabilità della fine, della sua fine personale. L’infelicità di cui parla Leopardi non è una semplice infelicità psicologica, morale, situazionale, ma una infelicità cosmico-ontologica, storico-esistenziale, che permane al di là di tutti gli apparenti o reali stati soggettivi di felicità.

Per questo motivo, l’essere coscienti di una siffatta infelicità non comporta certo una sorta di rassegnata rinuncia a qualunque tipo di impegno per il progresso civile e per migliori assetti politici o sociali, per l’eliminazione di tante cause congiunturali di infelicità individuale e collettiva, ma l’uomo di ragione non può accontentarsi di soluzioni materialistiche, temporalistiche o immanentistiche, e non può non porsi il problema di chiedersi se la vita si esaurisca nel rapido consumarsi delle nostre forze corporee o nell’infinito umanamente percepito e percebibile abbia un’ulteriore possibilità di dimora o, paradossalmente, di ancora più tragica infelicità. Lo scrive Leopardi nello “Zibaldone”, in diverse pagine datate 23 novembre 1823: «noi concepiamo pure e sentiamo per esperienza come ci possa fare infelici la privazione e il desiderio di beni non mai provati, mal conosciuti, ed anche non definibili; dei desideri vaghi ecc.», e aggiunge «anche non concependo il bene del Paradiso possiamo in qualche modo concepire come la privazione irreparabile e il desiderio continuo ed eterno di esso [da parte dei dannati], possa fare infelici». Piaccia o non piaccia, questo pensava e scriveva il pur enigmatico Giacomo Leopardi.

Per quest’ultimo non aveva importanza stabilire se il desiderio, radicato nell’intera specie umana, di un bene così grande, di un bene infinito ed eterno, fosse desiderio di un bene reale o di un bene immaginario: a suscitare l’attenzione morale dell’uomo per una felicità non riducibile a mero godimento o soddisfacimento storico, bastava la consapevolezza, che nessuna categoria storica, filosofica, antropologica o scientifica, avrebbe potuto neutralizzare o rendere irrilevante, della sussistenza logica ed etico-esistenziale di un possibile oltre il reale empirico e storico, di un possibile colorato di grandezza e bellezza celesti e incomparabilmente superiori a qualunque grandezza e bellezza terrena4 (Cfr. M. Mamone Capria, Leopardi e l’etica dell’infinito, in Rivista “Appunti leopardiani”, 2013, 1, n. 5-6, p. 16. Di inconscia nostalgia leopardiana di Dio, ha spesso scritto l’editoria cattolica, là dove non manca chi, nel quadro della saggistica specificamente filosofica, ha evidenziato tale sentire più in generale nel pensiero moderno e contemporaneo: M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Brescia, Queriniana, 1972, mentre è curioso, e anche esegeticamente deludente, che Cesare Luporini, pur riconoscendo la misteriosa problematicità del “caso” Leopardi, non abbia mai pensato di interrogarsi attentamente proprio sul tema di una possibile o probabile nostalgia leopardiana di trascendenza divina: si veda il suo ultimo lavoro, pubblicato ancora incompleto, Decifrare Leopardi, Napoli, Macchiaroli, 1998). Che poi tale sguardo mistico-contemplativo verso un infinito e un esterno che si stagliassero ai confini dell’umano e della storia non distraessero Leopardi dal compito pure doveroso di concentrarsi sulle urgenze della storia stessa e di intervenire a rimuovere almeno parte delle iniquità politico-sociali del mondo, è senz’altro vero, là dove però, se egli avverte profonda insofferenza per ogni forma di autoritarismo paternalistico e reazionario, per ogni forma rozza e volgare di antiegualitarismo sociale e popolare, per difese aprioristiche e ottuse dell’ordine costituito, non appare certo più sbilanciato a favore di mirabolanti visioni palingenetiche del progresso storico-civile, di ipotesi rivoluzionarie di radicale ribaltamento delle strutture economiche date e di rapporti sociali consolidati, o infine di fantasmagoriche teorie di assalto al potere nel nome di modelli collettivistici o accentuatamente democratici di vita economica e sociale.

Leopardi, infatti, rimane pur sempre uno spirito elitario. Lontano dal discriminare gli individui da un punto di vista economico, sociale o religioso, egli tuttavia non appare disposto a sorvolare sulle differenze naturali esistenti tra gli uomini e che nessuna ideologia emancipativa, egualitaria o libertaria, avrebbe mai potuto cancellare. Gli uomini sarebbero stati sempre diseguali, quanto a intelligenza, ingegno, sensibilità e nobiltà di spirito, ed egli avrebbe sempre patrocinato l’idea che il governo delle cose civili dovesse essere affidato ad uomini di vera cultura e animati da un amore disinteressato tanto per l’avanzamento delle arti e del sapere quanto per la graduale liberazione di uomini e donne di qualunque classe sociale dall’ignoranza e dalla miseria. In Leopardi non ci sono tracce né di classismo sociale, né di socialismo rivoluzionario, né di specifico democraticismo giuridico-istituzionale. C’è invece la consapevolezza di un’umanità  sempre e comunque in affanno, divisa e lacerata da mille discordie e da recidiva incomunicabilità, sempre protesa a beni in apparenza appaganti ma effimeri e deludenti, è c’è soprattutto la consapevolezza che questa umanità non è destinata a mutare ma a nutrirsi indefinitamente di falsi beni, illusioni, fragili e avvilenti speranze, con un’annotazione che contribuisce a chiarire ulteriormente il senso di questa consapevolezza: «l’individuo, amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo; e l’odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata dell’amore di se stesso; il quale essendo innato, anche l’odio degli altri viene ad essere innato in ogni vivente»5 (G. Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, a cura di Giosuè Carducci, Firenze, Successori Le Monnier, 1898, vol. I, p. 926).

Intellettuale senza roboanti idealità e senza particolari speranze, ma mai rassegnato e imbelle, Leopardi avrebbe sempre lottato, come emerge bene dai suoi Canti pubblicati per la prima volta nel 1831, contro la cultura e le mode purtroppo infauste del suo tempo: contro l’economicismo dilagante, il colonialismo e il militarismo, la corruzione, il consumismo edonistico e le frivolezze mondane. Ma tutto questo malcostume, questi vizi, queste perversioni, non sono causati da appartenenze politiche, per Leopardi, da particolari condizionamenti politico-ideologici, o da semplici situazioni contingenti, quanto da stati ricorrenti di frustrazione che derivano dalla perenne infelicità degli uomini, consistente nel non poter possedere mai l’essenziale, ciò che umanamente necessiterebbe per esaudire compiutamente la sete individuale di felicità. E’ ben significativo al riguardo un noto brano dello “Zibaldone” (4070-72, datato 17 aprile 1824): «Gli uomini governati in pubblico o in privato da altri, e tanto più quanto il governo è più stretto (i fanciulli, i giovani ecc.) accusano sempre, o tendono naturalmente ad accusare de’ loro mali o della mancanza de’ beni, delle noie e scontentezze loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima l’innocenza di questi, e la impossibilità o d’impedire o rimediare a quei mali o di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose con loro. […] Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d’odio e di querele de’ governati. Gli uomini sono sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del loro stato, perciò medesimo di chi li governa. […] Però circa il governare non v’ha pur troppo che due partiti veramente savi, o astenersi dal governo, sia pubblico sia privato, o amministrare totalmente a vantaggio proprio e non de’ governati».

Qui, indubbiamente, la generalizzazione è eccessiva, ma non c’è dubbio che questa diagnosi possa correttamente applicarsi a una grande quantità di casi storico-politici. E, d’altra parte, non penso si possa parlare di una politicizzazione o ideologizzazione che Leopardi sarebbe venuto facendo di sue personali convinzioni “metafisiche”6 (S. Timpanaro, Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa, ETS, 1982, pp. 190-191). Il fatto è che la formazione cattolica del giovane Leopardi avrebbe lasciato anche nel suo pensiero più maturo una traccia indelebile e una di quelle tracce significative che, da un punto di vista rigorosamente critico-filosofico e storico-culturale, non è possibile liquidare come un semplice fenomeno di effervescenza spirituale o attribuire a una sorta di parziale infantilismo speculativo, non foss’altro che per il fatto di essere tracce di un patrimonio di pensiero e di spiritualità talmente imponente da aver condizionato l’intero sviluppo della civiltà occidentale. E’ probabile che Leopardi non riuscisse, fino alla fine, ad essere compiutamente un uomo di fede, un credente cattolico, come sostiene non forse senza ragione Divo Barsotti7 (Divo Barsotti, La religione di Giacomo Leopardi, Brescia, Morcelliana, 1975), ma il problema mai risolto della riflessione leopardiana era costituito dalla sua pretesa non solo di percepire l’infinito, la presenza di una realtà totalmente altra da quella ogni giorno conoscibile e identificabile con precisi significati e segni valoriali, ma di sperimentarlo sensibilmente come può accadere con una persona o un evento della nostra esperienza terrena. Per qualche motivo, l’Onnipotente non avrebbe ritenuto di doversi rivelare, anche in via eccezionale, al poeta e filosofo Giacomo Leopardi e, come sostiene Barsotti, egli fu forse un credente che non seppe credere8 (Ivi).

Ma è pur vero che la via da lui seguita per tentare di avere risposta dall’Onnipotente non sarebbe stata quella più accreditata dalla sapienza biblica, non sarebbe stata quella di Noè, di Giobbe, di Giuseppe, padre adottivo di Cristo, solo per citare alcune delle figure simboliche più rappresentative di giusto fedele a Dio, di giusto che soffre senza colpa ma anche senza mai mettere in discussione la presenza e il santo operato di Dio. Il modo leopardiano di rapportarsi a Dio non è propriamente quello che caratterizza il giusto biblico che soffre, lotta, si pone tante domande, sino a stabilire talvolta persino un rapporto particolarmente confidenziale e rischioso con il suo Signore, ma senza mai contestarne i pensieri, gli atti, i disegni più reconditi e incomprensibili. Dio risponde a Noè, a Giobbe e a Giuseppe, perché ne conosce la fede purissima, adamantina, che non può essere minimamente scalfita o minata dal dubbio, dallo sconforto, dalla disperazione, perché è una fede per cui Egli, qualunque cosa possa succedere, è sempre presente e paternamente partecipe del destino dei suoi figli più cari sia nei momenti più sereni che, soprattutto, in quelli più oscuri e difficili della loro vita. Diverso è il modo leopardiano di porsi, in quanto qui Dio è sì intuito, è sì oggetto di un forte presentimento spirituale, ma non è stabilmente acquisito come dato inoppugnabile e definitivo di certezza morale ed esistenziale, come punto di riferimento imprescindibile della stessa attività critico-razionale e come motivazione decisiva e vincolante di comportamento, di scelta e di giudizio. Dio aleggia sulla vita di Leopardi, ma non vi entra, non vi abita, non vi agisce, in quanto presenza vitale e determinante per il suo destino di uomo.

A Leopardi non basta la Rivelazione, l’annuncio evangelico, che pure grandemente apprezza e valorizza nella sua riflessione di poeta e di filosofo, perché appare come mosso da una pretesa non dichiarata di possesso più pieno, più razionale, più personale, della infinita potenza e, soprattutto, dell’infinita giustizia misericordiosa di Dio. E’ come se egli aspirasse ad assistere ad una seconda rivelazione divina, ad una rivelazione privata di Dio, ad un consegnarsi della divinità alla sua umanità di semplice e inquieta creatura. Il suo rapporto con Dio arriva fin dove lo consentono le qualità e le potenzialità critico-conoscitive di una ragione severamente e onestamente impegnata nella ricerca di un senso ultimo della vita, ma forse Leopardi non giunge a sfidare la sua stessa ragione nel riconoscerne limiti costitutivi insuperabili, non giunge ad implorare con toni talmente umili ed adoranti il Dio biblico affinché gli conceda qualche segno non solo vagamente tangibile ma largamente e inequivocabilmente sperimentabile, non è così giusto da indurre  il Dio di giustizia ad accogliere integralmente la sua specifica esigenza.

Eppure, Leopardi sa bene che non solo l’inimicizia tra ragione e natura, ma anche tra uomo e Dio, conseguita alla originaria violazione umana della legislazione divina e alla pretesa adamitica di condividere la potenza divina (Zibaldone 434-435), è causa di morte seconda e definitiva ove l’uomo non si disponga a credere, nei limiti in cui gli sia concesso dalla grazia divina, alla Rivelazione divina e al messaggio salvifico di Cristo. Si sarebbe trattato, forse, di riflettere più attentamente su un altro aspetto del rapporto tra la creatura e il Creatore, e cioè sul fatto che non è solo quest’ultimo che deve preoccuparsi di rassicurare la prima circa il suo amore per essa, ma è anche la creatura che deve preoccuparsi, nell’osservanza delle indicazioni e dei consigli biblico-evangelici, di meritare l’ascolto e la grazia divini. Tuttavia, e contrariamente a chi è venuto esaltando il materialismo di Leopardi in contrapposizione non tanto al suo spirito di lotta contro la decadenza dei costumi e la complessiva mediocrità intellettuale dei suoi contemporanei, quanto alla continua ricerca spirituale e religiosa che attraversa da cima a fondo ogni singolo momento della sua poliedrica e ispirata attività poetico-filosofica, tale materialismo, storico-antropologico più che storico-economico, non appare incompatibile con una prospettiva esistenzialistica di chiara intonazione cristiana anche se di più dubbia osservanza cristiano-cattolica.

Sarebbe, infatti, difficile interpretare diversamente un materialismo che, come appunto nel caso di quello leopardiano, appare costantemente punteggiato dalle seguenti domande: perché il nulla e non l’essere, perché il male piuttosto che il bene, perché la disperazione piuttosto che la speranza? Cosa potrebbe racchiudere la percezione soggettiva di quell’Infinito coinvolgente e affascinante, contagiosamente familiare nella sua apparente ospitalità e spaventosamente sconosciuto nella sua assoluta indeterminatezza? Si può forse dire che non ci sia in Leopardi un problema di senso e che, ove venga a sussistere il problema del senso, esso non possa o non debba essere riconosciuto ed identificato come un problema tipicamente esistenziale di segno religioso?9 (Cfr. F. di Maria, Leopardi, Una teoresi per l’esistenza, in Una teoresi per l’esistenza. Leopardi, Husserl, Wittgenstein, Padova, Primiceri Editore, 2023, pp. 38-41). In Leopardi, certo, non ci sarebbe stato un trionfo della fede, peraltro strutturalmente e vergognosamente soggetta nella stessa comunità cattolica a ricorrenti usi strumentali e mistificanti, ma, d’altra parte, non ci sarebbe stato neppure un trionfo della ragione, i cui naufragi storici erano troppo frequenti perché vi si potesse confidare come in un decisivo principio di civiltà, là dove peraltro, notava il poeta su un versante non certamente democratico-progressista, «l’avanzare della civiltà comporta inevitabilmente la distruzione della diversità, e favorisce la massima uniformità, perché tende, questo progressivo incivilimento, “a conformare gli uomini e le cose umane” (Zib. 147): quanto più una nazione è civile, tanto più le sue caratteristiche saranno uniformi»10 (F. Cacciapuoti, Tra etica e esistenza: la situazione umana, in Rivista “Appunti leopardiani”, 2013, 1, n. 5-6, p. 29). Siamo così all’oggi, a quello che noi, uomini e donne del XXI secolo, stiamo sperimentando proprio in questo momento: la globalizzazione tanto unificante quanto dispersiva, l’appartenenza ad una civiltà sovranazionale in cui ogni sentimento patriottico, ogni tradizione culturale e religiosa, ogni differenza etico-civile, ogni legittima rivendicazione comunitaria, tendono a sprofondare nell’oblìo di un pensiero vario ma uniforme e conformista, e a ricongiungersi all’antica ed ennesima illusione storico-umana di una radicale rinascita dell’umano integrale.

Ci resta, altresì, il saggio avvertimento tardo-leopardiano (quello de “La Ginestra” pubblicata postuma in un’edizione dei “Canti” del 1845) coincidente, come è stato ben scritto, con «un ultimo appello contro la falsa ideologia del progresso: infantile autoinganno che conduce alle tenebre di una nuova barbarie»11 (María de las Nieves Muñiz, Cantos, in “Rassegna europea di letteratura italiana”, Milano, Ediciones Cátedra, 2009, n. 418, p. 485). Non solo contro la falsa ideologia di un benefico sviluppo scientifico-tecnologico, industriale ed economico-finanziario, ma contro lo stesso progresso civile e culturale. Proprio con “La Ginestra” Leopardi sferra l’ultimo, decisivo colpo alla vanitosa illusione, coltivata dai sapienti del mondo, di un sapere progressivo e sempre più prossimo tanto alla verità delle cose quanto all’universale senso etico-esistenziale della vita e della storia del genere umano. E’ stato pertinentemente osservato che «Nella Ginestra l’intento di “disingannare” e “atterrare” è spinto ai suoi limiti estremi. Nessun principio consolidato resiste a uno sguardo lucido e intransigente. I fondamenti sulla cui solidità l’uomo costruisce i miti della propria grandezza e del suo “fetido orgoglio” sono abbattuti. Tanto più l’opera arriva a buon fine quanto più la distruzione diventa radicale. Deve sollevare qualunque velo offuschi lo sguardo. Non può arrestarsi di fronte a nessun ostacolo o ritegno. Solo in questo modo arriva a contemplare l’essenza dello stare al mondo e a farne coscienza: “I filosofi antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’esperienza. […] Così lo spirito umano fa progressi: e tutte le scoperte fondate sulla nuda osservazione delle cose, non fanno quasi altro che convincerci de’ nostri errori, e delle false opinioni da noi prese e formate e create col nostro proprio raziocinio o naturale o coltivato e (come si dice) istruito. Più oltre di questo non si va. Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore; non pianta niuna verità” (Zib. 2711-12)»12 (M. Palumbo, La ginestra ovvero I Sepolcri di Giacomo Leopardi, in Rivista “Appunti leopardiani”, 2013, 1, n. 5-6, p. 43).

A dire il vero, questa interpretazione epistemologica del sapere appare piuttosto forzata rispetto al significato reale della ricerca scientifica e filosofica e, più in generale, della complessiva attività storico-euristica: i progressi conoscitivi, infatti, non evidenziano solo i limiti logico-metodologici delle fasi culturali che li abbiano preceduti, né gli usi scorretti dell’intelletto prima che quei progressi fossero conseguiti, esprimendo essi non di rado anche il conseguimento di vere e proprie novità conoscitive e contribuendo non di rado a significativi potenziamenti della coscienza morale ed etico-civile individuale e collettiva, anche perché la possibilità di togliere pregiudizi ed errori è logicamente prodromica alla concreta possibilità della scoperta e di un sostanziale avanzamento del sapere. Tuttavia, pur tra tante reali scoperte conoscitive e tra molteplici, potenti e inedite sollecitazioni etico-religiose, dalla vita e dalla storia sembrano riemergere sempre le stesse domande, che non a torto Leopardi ripropone: perché vita e storia tendono a ripetere monotonamente le loro trame, le loro dinamiche di menzogna e di morte, perché sulle cose del mondo incombe persistentemente una logica nichilistica e annientatrice di qualunque valore e finalità, ad eccezione di quella puramente biologica e naturale della conservazione delle specie animali e, tra queste, della specie umana, l’unica specie dotata di razionalità cosciente?

Perché la vita, virtualmente così ricca di potenzialità, si trova tuttavia sottoposta a poche e inserorabili leggi che ne determinano l’inizio, lo svolgimento, la durata e la fine, e perché non si riesce a dare una direzione diversa e più significativa alle cose del mondo, un telos eticamente più emancipativo alla civiltà umana? Perché le moderne conoscenze scientifiche non coincidono con forme attuative di vero progresso umano, etico, politico? Perché il bene comune che costringe gli uomini a lotte inesauste e senza tregua rimbalza sulla storia come una chimera irraggiungibile pur nelle sue mutevoli forme? Perché i modi in cui viene esercitata la giustizia sono arbitrari e quelli in cui viene vissuta sono diseguali e, soprattutto, perché chi di tutto ciò sia criticamente consapevole viene emarginato dai suoi simili sentendosi costretto a confidare di poter essere riammesso nella società di uomini liberi in un ipotetico, ravvicinato futuro in cui si possa finalmente contare su un’umanità più libera, sensibile e combattiva? Il cristianesimo delle origini, se non quello spesso malamente tradotto del suo tempo, avrebbe potuto fornirgli forse una miniera di utili suggerimenti, ritenuti però da Leopardi inidonei a placare la sua febbre razionalistica.

Egli trovava il cristianesimo, probabilmente più per motivi psicologici che strettamente religiosi e teologici, fastidiosamente evasivo e consolatorio ovvero moralistico e, in effetti, lo accusa ripetutamente «di annullare l’esistenza, distogliendo gli individui dagli “affari del mondo” e incoraggiandoli a ritirarsi dalla società per concentrarsi su “cose di natura affatto diversa da quella delle cose nostre e dell’uomo”(Zib. 1687)»13 (E. Cervato, «Su un fragile cristallo»: il percorso leopardiano di prassi e teoria morale fra il Manuale di filosofia pratica e lo Zibaldone, in Rivista “Appunti leopardiani”, 2013, 1, n. 5-6, p. 53). Si configura qui chiaramente una delle aporie più caratteristiche e persistenti della vita e dell’impegno poetico-filosofico di Leopardi: da una parte, la tensione verso un infinito troppo grandioso, misterioso e avvolgente, per poter essere realisticamente ignorato come tema di serissima riflessione teorica e come causa di permanente emozione estetico-esistenziale, dall’altra l’attaccamento passionale, ma anche rafforzato dalle sue assai precarie condizioni fisiche e psichiche, ai piaceri mai veramente soddisfatti della vita e della carne, e ad una felicità non volgarmente edonistica e tuttavia pienamente terrena, pur tenendo conto che, per lui, l’uomo di studio e di pensiero non può certo lamentarsi della solitudine ma farne una gradita compagna di viaggio in un mondo generalmente chiassoso e turbolento.

Da questa aporia bisognerà muovere tutte le volte che si tratterà di stabilire se Giacomo Leopardi abbia inteso il principio di laicità come recisa negazione della presenza-assenza del Dio rivelato e absconditus nel mondo virtualmente secolarizzato e desacralizzato dell’uomo moderno, oppure come riconoscimento critico-razionale della legittimità teorico-esistenziale della più inquietante delle domande sopravvissute alla censura dei secoli: chi dite che sia Dio? Il Dio della giustizia biblica e neotestamentaria o il Dio dell’illusoria amplificazione ideologica dell’ipermisericordismo cattolico contemporaneo, il Dio misericordioso che fa tutt’uno con un Dio numinoso di verità e giustizia oppure il Dio meramente antropomorfico e ontologicamente predisposto ad assecondare qualsivoglia aspettativa personale e storico-umana? La complessa, originale e travolgente esperienza leopardiana, la potente immaginazione critica, l’ordinata e corrosiva razionalità e la mistica spiritualità, che vi si vengono manifestando, potrà essere interpretata come testimonianza favorevole alla cosiddetta insignificanza del sacro e della fede o potrà essere anche valorizzata come prova dell’irriducibilità del sacro a parametri esclusivamente razionali e ad unilaterali attese emozionali e della fede alle tante forme di sapere che, ormai in modo spesso confuso, vengono elaborandone la forma?  

E’ solo illusorio o può ritenersi plausibile il giudizio di chi, ben più di dieci anni or sono, affermava che «il “brusio degli angeli” abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso. La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione de1lla tradizione, anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante»14 (F. Garelli, La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi, in “La Stampa” del 2 novembre 2011)? Il bisogno di Dio, certo, ma di quale Dio e di quale Dio cristiano e cattolico? Ritornando conclusivamente al poeta-filosofo di Recanati, che dire ancora della sua religiosità, se non che hanno probabilmente ragione tutti quegli studiosi che, con molta onestà, tendono ad escludere che in essa sia rinvenibile qualche traccia significativa di un Dio personale e provvidenziale, di un Dio di grazia, di misericordia e di giustizia, in sostanza di un Dio fedelmente evangelico cui affidare fiduciosamente tutti i propri dubbi e travagli interiori15 (Questa linea interpretativa è comune a studiosi oltremodo affidabili quali il già citato Divo Barsotti, La religione di Leopardi, cit., A. Caracciolo, Leopardi  e il nichilismo, Milano, Bompiani, 1994, G. Amelotti, Filosofia del Leopardi, Genova, Fabris, 1937, cui può aggiungersi, in continuità con questi studi, R. Franzini Tibaldeo, Sofferenza e infinito. Il pensiero di Leopardi sulla religione, Dronero (Cn), Edizioni L’Arciere, 1999). Ciò non toglie, beninteso, che possa ritenersi corretto e condivisibile, perché ben riscontrato, tranne che per la discutibile asserzione relativa ad un presunto e mai rimosso e «assoluto materialismo scettico», anche il giudizio di chi ha osservato che «le verità di fede non furono … del tutto respinte da Leopardi, neppure negli anni della maturità filosofica, in cui prevalsero il più cupo pessimismo e l’assoluto materialismo scettico. Quella che il Leopardi, insomma, condanna negli anni della maturità è la religione cristiana vuota e fredda, che mortifica il corpo e che, in nome della presunta superiorità dello spirito, soffoca la vita, sfociando in atteggiamenti stereotipati come quelli della madre, la cui spiritualità consisteva solo nella cieca adesione a vani riti esteriori e convenzionali. Per Leopardi la fede autentica non è nulla di tutto ciò, ma è intimo colloquio e incontro dell’anima con Dio per trovare una risposta ai dubbi esistenziali propri ed universali»16 (M. Di Franco, Leopardi oltre il nichilismo e il materialismo, in Rivista “Estudios Italianos”, vol. V, n. 2, luglio 2017, pp. 194-105).

Tuttavia, la fede o la non fede di Leopardi, non meno dell’universo misterioso che egli non si sarebbe mai stancato di contemplare e indagare, è questione destinata a restare avvolta, ancora per molto tempo, dal mistero, perché la sensazione è che nel suo pensiero, alla fine della sua avventurosa storia terrena, resti ancora, al riguardo, come qualcosa di implicito, di taciuto, di inespresso, al di là del suo accostarsi in punto di morte, come sembrerebbe risultare da alcune affidabili testimonianze, ai sacramenti della comunione eucaristica e dell’estrema unzione. Pertanto, potrebbe non essere molto lontano dal vero anche chi ha scritto: «Il poeta-sognatore è comunque preso dallo stupore dalla grandezza e dall’estensione dei suoi desideri. Avverte con forza il fascino della perfezione. In ciò non mancano segnali che fanno percepire l’artista non troppo lontano da Dio, particolarmente quando è alle prese con tematiche – come il problema del male – delle quali la ragione non riesce a dare spiegazione. Anche il fascino della donna è da lui avvertita come presenza del divino, un segno che rimanda oltre, una traccia di qualcosa immensamente più grande. Esistono inoltre delle costanti nella sua visione lirica: lo sguardo verso il cielo stellato, un clima di attesa, una speranza ostinata.

Per Leopardi appare sfuggente la definizione di credente o non credente: sicuramente è stato un uomo inquieto, che ha vissuto in sé stesso, nel suo corpo, l’inganno di una natura da cui si sentiva come raggirato, una creatura dilaniata da aspirazioni impetuose e seducenti come la bellezza, l’infinito, l’amore, e che dunque non ha mai smesso di ricercare il senso della vita. Un uomo che bramava di volare alto, ma gli sono mancate le ali. Una creatura dalla struggente nostalgia di Dio. Una personalità che comunque ci tocca profondamente»17 (O. Giuliani, Leopardi: sulle ali dell’infinito, Chiesa di Milano, 9 marzo 2020).

Francesco di Maria

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