L’apostolato laico dell’intellettuale cattolico

La principale funzione che Leonardo Sciascia molto candidamente attribuiva all’intellettuale era quella di «dire la verità», che era quello che diceva anche Chomsky durante la guerra americana in Vietnam e che, comunque, è un concetto anche abbastanza ovvio. Dire la verità sembrerebbe la cosa più facile del mondo, anche se in realtà, sia sotto l’aspetto conoscitivo ed interpretativo che sotto quello etico e religioso, è verosimilmente l’operazione logica e psicologica più difficile e complessa cui un essere umano, semplice e ingenuo o evoluto che sia, possa dar luogo. Per quale motivo? Perché tale funzione, non già in contesti particolarmente semplici ed elementari di vita e di vita familiare o sociale ma in contesti relazionali, sociali e storico-istituzionali, già abbastanza complessi e ingarbugliati, che sono propriamente quelli in cui l’intellettuale è chiamato ad operare, viene il più delle volte esercitandosi su una realtà opaca e non agevolmente riducibile allo schema binario vero-falso, giusto-ingiusto, razionale-irrazionale.

Per lo scrittore siciliano la verità era generalmente quella di tipo pirandelliano, cioè apparente o sospetta, ambigua ed enigmatica, una verità che non si offre quindi spontaneamente a chi osserva e indaga, ma che va inquisita, va forzata a parlare e a rivelare le sue parti nascoste o ombrose con le spesse lenti di un’interrogazione intelligente e severa e il forcipe della dimostrazione rigorosa e stringente, lasciando pur sempre margine, nei casi più ostinati, ad una saggia sospensione di giudizio1. E’ per l’appunto questo l’ambito di difficoltà in cui l’intellettuale viene cimentandosi nell’esercizio di una sua specifica funzione critica, tenendo presente che persino le migliori menti e le coscienze più oneste possono ottenebrarsi e avere difficoltà, specialmente in questo tempo di imperante e confuso relativismo, nel distinguere con assoluta precisione tra valore e disvalore. E, dinanzi a vecchie e nuove questioni come sapere razionale e sapere religioso, cultura e democrazia, progresso civile e sviluppo scientifico e tecnologico, il potere, l’ingiustizia sociale, l’idea di nazionalità e la globalizzazione, l’immigrazione e l’integrazione, uguaglianza e diversità, il compito dell’intellettuale appare sempre più arduo e impervio perché si tratta di questioni dotate di un crescente grado di complessità anche alla luce di approcci sempre più estesamente interdisciplinari e transdisciplinari che tendono ad amplificare le difficoltà delle analisi, delle indagini comparative, dei procedimenti epistemicamente integrativi e selettivi ad un tempo.

Ne consegue che “il dire la verità” su ciascuno dei temi su accennati, come su qualunque altro tema, presuppone non solo l’acquisizione di un congruo numero di conoscenze, informazioni e strumenti metodologici sufficientemente precisi e rigorosi, ma anche una speciale attitudine alla ricerca critico-razionale, alla elaborazione teorica dei fatti raccolti, dei dati osservati, delle esperienze considerate, e ancora una particolare vocazione ad una prudente, elastica ed esperta lettura ermeneutica dei contesti testuali e storico-culturali o storici tout court, certo contraria a sistemazioni o conclusioni definitive e omnicomprensive ma anche aperta ad audaci e insieme plausibili congetture metascientifiche e metafilosofiche il cui grado di tenuta epistemica sia tuttavia verificabile per mezzo di periodici e ben congegnati controlli teoretico-scientifici.

La filosofia come arte del domandare, dell’interrogare, dell’interloquire e dell’ascoltare, del comprendere nei limiti delle sue capacità di ascolto, è o dovrebbe essere la filosofia più congeniale all’intellettuale virtualmente libero, quali che siano le sue personali opzioni teoriche e spirituali, da condizionamenti ideologici o da incauti cedimenti alle suggestioni irrazionali variamente derivanti dalle verità spesso meccanicamente ripetute e ribadite del mondo, della cultura e della storia2. Ma la consapevolezza della struttura complessa, contraddittoria o antinomica, spesso inesplicabile e misteriosa, della natura, della società, dello stesso sapere, non deve inibire l’intellettuale che anzi, senza rinunciare ad avventurarsi esplorativamente nelle loro zone e nei loro significati più oscuri, più inaccessibili e controversi, non fa altro che testare di continuo la solidità delle sue conoscenze e delle sue convinzioni, la correttezza della sua navigazione euristica e delle sue stesse aspettative spirituali, badando in pari tempo a curare la ricerca di indizi, di controprove fattuali che potrebbero continuare a legittimarne o invalidarne assunti teorici, valutazioni etico-morali, giudizi politici,  prospettive metafisiche e religiose.   

In ciò consiste il difficile lavoro di permanente disvelamento critico-storico del vero, del bene e del giusto, che un intellettuale deve poter espletare instancabilmente se voglia tentare di farsi portatore delle istanze universalizzanti di una ratio che, senza il filtro interpretativo della competenza e della sensibilità soggettive di un singolo, resterebbe astratta, indeterminata, disincarnata. Le cose, i fatti, gli eventi sono oggettivi nella loro datità, ma ciò che conferisce loro un significato universale, un senso razionale, è pur sempre, seppur nei limiti di possibilità conoscitive finite, l’attività universalizzante, e tuttavia di volta in volta soggettiva e personale, della ragione umana. L’universalità di qualcosa è come un oggetto prismatico dotato di lati diversi e non necessariamente eguali. Ogni interprete può essere capace di coglierla quindi in misura maggiore o minore, più estesa o meno estesa, anche se l’essenziale è che egli si ponga nella giusta posizione, dal giusto angolo di visuale per intercettarne almeno una parte o un frammento. E’ di frammento in frammento che, in effetti, progrediscono il sapere, la cultura, la civiltà.

Tuttavia, specialmente anche se non unicamente nei periodi di crisi o di decadimento storico-sociale, com’è certamente quello attuale, la capacità raziocinante media di un popolo tende ad abbassarsi sensibilmente con conseguente proliferazione di idee, teorie, dottrine, opzioni politiche, abbastanza confuse, approssimative, acritiche, e spesso impulsive e avventate, che concorrono, non senza l’apporto di una politica miope e mossa da interessi meschini e temporalmente circoscritti, a marginalizzare la funzione e le posizioni critiche dell’intellettuale, da intendere come colui che, mentre pensa, ragiona, riflette o ammonisce pubblicamente, venga realmente assolvendo un’alta funzione educativa e riformatrice, in relazione ad un dato conformismo intellettuale di massa e a costumi etico-sociali prevalentemente corrotti o degeneri. Se la vita politica non è più sostenuta né da una solida cultura, né da una forte e non sospetta passione morale per il bene comune, essa, come ammoniva Sallustio, è destinata a produrre effetti socialmente e umanamente funesti e oppressivi.

Ma è anche vero, e inversamente, che una politica inetta e non lungimirante è spesso figlia del ruolo fallimentare della scuola e di tutte le altre agenzie educative e formative della società, che recepiscono e assorbono passivamente o meccanicamente qualsiasi condizionamento, modi di pensare, stili di vita, gusti sociali, provenienti da una pubblica opinione acefala che viene formandosi spontaneamente, senza alcuna autonoma e incisiva mediazione scolastico-culturale e solo sotto la massiccia influenza di una informazione e comunicazione mediatiche che veicola e privilegia nettamente il futile, il superfluo, il voluttuario, rispetto a tutto ciò che sarebbe saggio e necessario acquisire, psicologicamente, intellettualmente, moralmente e civilmente, per affrontare in pienezza, e quindi al meglio delle proprie possibilità cognitive, emotive, motivazionali e spirituali, quell’esistenza notoriamente piena di sorprese e di sorprese non di rado traumatiche.

In ogni caso, bello o brutto che sia il tempo della sua epoca storica, l’intellettuale deve agire, assecondando la sua vocazione, non importa se prevalentemente ideologica piuttosto che specialistico-disciplinare o storico-scientifica,  pedagogica e sociologica piuttosto che epistemologica o politologica, intimistico-esistenziale piuttosto che profetica e religiosa. L’importante è che le molteplici corde della vita e del sapere, al momento opportuno e giocate sul sempre fecondo rapporto tra tradizione e innovazione, possano essere utilizzate con sapiente padronanza (e quindi non con una padronanza meramente tecnica), perché un ragionamento, una denuncia demistificante, una interpretazione, una proposta, un programma scientifico o un progetto filosofico e culturale, una visione o una prospettiva religiosa, possano risultare chiaramente e il più esaustivamente possibile espressi, comunicati, diffusi e recepiti3.

Qui, però, poiché storicamente tanta parte del sapere contemporaneo ha origini non solo antichissime ma anche in gran parte radicate in una forma mentis religiosa, teologica, ecclesiale ed ecclesiastica, ovvero in quei “chierici”, che avrebbero costituito per molti secoli la struttura portante della Chiesa, dell’intera civiltà cattolica e di gran parte di quella occidentale, intendo porre il problema specifico dell’intellettuale cattolico. Non c’è infatti alcun dubbio che all’intellettuale di fede cattolica, al pari degli intellettuali di qualunque altra fede, competono precise responsabilità e inderogabili doveri verso il popolo dei credenti. Per sant’Agostino, gli intellettuali in genere erano “montes”, montagne che sono le prime ad indicare e godere l’apparire o il sorgere del sole, ovvero gli spiriti più pronti a cogliere la luce, la verità di determinati fenomeni del mondo e della vita e a sentirne il calore o la temperatura, cioè il valore e la portata spirituali più o meno significativi e intensi, più o meno moralmente ed esistenzialmente rilevanti e gravidi o forieri di conseguenze pratiche altrettanto importanti.

Ma la definizione agostiniana può ben essere riferita in senso laico anche agli intellettuali non credenti, a quell’esercito di miscredenti, nichilisti e relativisti scettici di questo tempo magmatico e incerto che oggi dovrebbero forse avvertire il bisogno civile ed intellettuale di precisare o chiarire quali siano i confini oggettivi tra i valori e i disvalori e fino a che punto o a quali condizioni un approccio relativistico al problema della verità e del bene possa evitare di riprodurre forme ancora una volta dogmatiche, acritiche e irrazionali di conoscenza, ma in questo caso prive anche della funzionalità metarazionale propria del dogmatismo cristiano, la quale può ben introdurre in un universo di conoscenze e valori infinitamente più vasto e sorprendente di quello terreno. Se alla verità relativa a conoscenze ed esperienze terrene e finite si può solo tendere, senza poter mai pretendere di conquistarla integralmente, la verità di conoscenze trascendenti ed eterne potrà essere verosimilmente anche posseduta nella sua assolutezza, in una sua perfetta struttura ontica costituita da un armonioso e mirabile intreccio tra il suo mutevole apparire fenomenico e il suo immutabile essere noumenico4.

Nel caso in cui tuttavia la questione da discutere sia lo statuto teorico e morale dell’intellettuale cattolico, la prima cosa da chiarire è che questi, al pari di tutti i battezzati in Cristo, deve essere necessariamente munito di uno sguardo apostolico, deve avere cioè coscienza di essere, nell’ambito della sua specifica attività, un inviato di Dio con il preciso compito di annunciare e testimoniare il vangelo, con parole e opere, a tutte le creature. Peraltro, non è detto che, nel disegno redentivo di Dio, il gruppo storico dei 12 apostoli, solo perché prescelto da Gesù, fosse destinato in linea di principio a ricevere da Dio un destino più glorioso e privilegiato di quello riservato a tutti gli altri suoi seguaci. Tant’è vero che uno di loro, Giuda, muore suicida per aver tradito il Signore, e che un altro discepolo, ovvero Mattia, non nominato da Gesù e a ben vedere neppure dagli undici apostoli rimasti ma semplicemente estratto da essi a sorte, dopo la Pentecoste lo sostituisce. Per non dire di Paolo, l’apostolo delle genti, che si aggiunge dopo la morte di Cristo al gruppo apostolico per volontà stessa di Cristo pur essendo stato precedentemente un suo accanito persecutore, e infine degli “altri settantadue”, inviati in tutto il mondo a predicare (Lc 10, 1).

L’apostolo è un missionario, è uno che viene inviato da qualche parte con l’incarico di annunciare, divulgare, testimoniare la verità e la parola divina di salvezza, in tutti i modi e con tutti i mezzi, ivi compresi i doni carismatici, come l’intelligenza, la sapienza, la scienza, eventualmente ricevuti da Dio, di cui egli disponga in modo naturale o per acquisizione nei diversi ambienti o contesti sociali o geopolitici in cui si trovi a dover operare. In questo senso, anche l’intellettuale battezzato è un apostolo, un missionario, delegato da Dio a lavorare nel mondo, facendo fruttare i suoi talenti personali, per la prosperità quanto più rigogliosa possibile della sua vigna, della sua Chiesa, anche attraverso un continuo ripensamento, una incessante riappropriazione del senso inesauribile della fede5. Qui è, però, necessaria qualche precisazione.

Il Signore previde e disegnò anzitempo il configurarsi della sua Chiesa nella storia: prima fonda la sua Chiesa in funzione itinerante inviando i dodici (come le tribù israelite) al popolo di Israele, poi, con l’invio degli “altri settantadue”, prefigura la missione universale di tutta la Chiesa. Il che significa che la Chiesa “visibile”, “istituzionale” o “gerarchica”, non è stata legittimata a rivendicare alcun particolare privilegio spirituale rispetto a tutti coloro che, pur dovendo amarla come la loro stessa Chiesa, si adoperano principalmente nella Chiesa “invisibile”, “spirituale” o “carismatica” che presuppone la prima ma in essa non si esaurisce, cosí come la funzione magisteriale e regolamentativa della Chiesa-istituzione è tenuta ad attingere continuamente dalla ricchezza spirituale della più ampia ed articolata vita ecclesiale.

Nessuno dunque si salva per il posto che occupa nella Chiesa, ma ogni battezzato, a prescindere dalla funzione o ruolo esercitato in seno ad essa, si salva o può salvarsi solo per la sincerità e l’intensità della sua fede e per le opere compiute nel nome e per conto del Signore Gesù. Questo vale, naturalmente, anche per l’intellettuale, per l’uomo di pensiero, per l’educatore o il riformatore della coscienza umana. Sant’Agostino fu il primo intellettuale cristiano a a distinguere tra Chiesa come società visibile (Ecclesia carnalis) o gerarchico-istituzionale e Chiesa come società dei santi o Ecclesia spiritualis, pur subito precisando che tale distinzione non potesse in nessun caso trasformarsi in separazione. Egli, con tale distinzione, intese mettere a fuoco una differenza di livello, nel senso che la Chiesa non è solo quella visibile dei papi, dei vescovi, dei preti, dei teologi ufficiali e degli stessi concili ecumenici, dei riti ufficiali e delle assemblee ecclesiali periodicamente convocate e riunite, ma anche quella invisibile degli assenti, dei defunti, degli angeli, dei “profeti” inascoltati, della presenza continua e reale e non semplicemente postulata di Dio, di una moltitudine di eventi non da tutti riconosciuti ma realmente dovuti alla grazia e alla misericordia di Dio stesso. Questo comporta che bisogna stare attenti a non idolatrare le stesse figure istituzionali della Chiesa, a cominciare dal papa che va amato e rispettato senza tuttavia dimenticare che è solo primus inter pares, e quindi anche a non fare esclusivo affidamento sui cosiddetti maestri spirituali per quanto riguarda le proprie scelte, e a non accettare supinamente il pur variegato clericalismo dei presbiteri6. Puo cosí accadere, osserva Agostino, che si possa essere dentro la Chiesa visibile e istituzionale ma essere fuori della Chiesa invisibile o spirituale o, al contrario, essere visibilmente fuori della Chiesa ma spiritualmente dentro di essa. In proposito, dice significativamente Agostino nell’omelia 45: «Quanti lupi sono dentro l’ovile (della Chiesa) e quante pecore sono fuori di esso!». E’ impressionante ma è cosí, perché una Chiesa terrestre che smarrisca o riduca il contatto con la Chiesa celeste, ed è quello che accade molto spesso sia storicamente sia pure nel quadro delle nostre singole esistenze individuali, è o sarebbe in realtà non più la Chiesa di Dio e voluta da Dio ma una Chiesa di uomini e voluta da uomini a scopi meramente consolatori ed edificanti oppure a scopi di potere e comunque di personale utilità.

A ciò va aggiunto naturalmente il caso evangelicamente emblematico del fariseo e del pubblicano, ovvero dell’uomo religioso praticante “autosufficiente” e del peccatore pentito che sentendosi realmente indegno e piccolo di fronte al Signore entra nel tempio in punta di piedi e senza rivendicare consciamente o inconsciamente meriti particolari: il primo, oggi, è ancora parte integrante di una religiosità istituzionale priva o carente di reale spiritualità, di una Chiesa frequentata e celebrata ma non vissuta e attuata, mentre il secondo continua ancora a simboleggiare la figura del credente che, consapevole dei suoi limiti e realmente contrito, rivolge al Dio vivente o vivo una umile e silenziosa supplica di perdono e di aiuto. L’intellettuale cattolico avrà, tra i molteplici compiti intellettuali che dovrà assolvere, anche quello di sollecitare la Chiesa-istituzione-gerarchia non tanto a fare prediche routinarie e a somministrare sacramenti quanto a interrogarsi ininterrottamente sulla Parola di Dio, e ogni volta come se fosse la prima volta, a prendersi cura dei fedeli non in modo autoritario, formale e superficiale, né in forme invadenti e prevaricatorie, ma con semplicità, disponibilità umana e disciplina etico-dottrinaria ad un tempo, e ad onorare realmente il Signore non solo esercitando la funzione ministeriale ma soprattutto attraverso una vita non posticcia né ostentata di preghiera e raccoglimento spirituale, di sacrificio e dedizione, e una testimonianza non semplicemente dichiarata o postulata di verità, giustizia e carità.

Al tempo stesso, egli non dovrà far mancare osservazioni, rilievi, rimproveri e moniti fraterni ma più o meno severi alla sua comunità religiosa, ai suoi fratelli e sorelle, restando a sua volta disposto a riceverne di altrettanto legittimi, specialmente nei momenti di maggiore flessione della tensione spirituale, del sentimento religioso, della stessa disciplina etica e dottrinaria.  Come ogni battezzato, ma con una speciale, più affinata, consapevolezza critica, l’intellettuale è ben conscio di come la Chiesa sia di carne, ma sia chiamata a vivere secondo lo Spirito, lo Spirito che peraltro non annulla la carne ma la nobilita e la esalta trasfigurandola progressivamente proprio perché lo Spirito di Dio si è incarnato per salvare e non per condannare la carne stessa; di come la Chiesa sia altresí chiamata a vivere nel mondo ma non ad operare per il mondo o secondo il mondo, magari anche a dispetto del fatto che le sue occupazioni ufficiali debbano avere una natura eminentemente spirituale.

Sta a tutti coloro che come battezzati e a vario titolo ne fanno parte, essendo tuttavia essi stessi Chiesa, fare in modo che la Chiesa storica, senza confondersi con uno dei tanti poteri terreni, non rinunci mai non solo alla sua ordinaria e preziosa funzione magisteriale e sacramentale ma anche e soprattutto alla sua originaria e divina vocazione profetica che, come tale, non può alla lunga legittimare certo diffuso e piatto conformismo religioso ma deve inevitabilmente procurare inquietudine e crisi nella coscienza di credenti e non credenti, purché l’inquietudine non sia in realtà sinonimo di dubbio corrosivo a sfondo nichilistico e la crisi non venga a configurarsi come ricatto e paralisi delle coscienze cristiane. Su questo terreno, oltremodo utile e necessaria sarà a tutto l’ecumene cattolico, specialmente in un periodo storico in cui le gerarchie non sembrano brillare per rigore esegetico e puntualità dottrinaria, la lucidità critica e la vigile e appassionata militanza apostolica dell’intellettuale cattolico, quale che possa essere lo spettro delle sue competenze e delle sue particolari esperienze di vita7.

Tutto questo per dire, in sostanza, che non solo i dodici seguaci storici di Gesù e per estensione non solo l’ordine sacerdotale di ogni tempo, qual è lo stesso collegio apostolico e cardinalizio, ma tutti i suoi seguaci di ogni epoca storica, ivi compresi per l’appunto gli intellettuali, sono stati chiamati in definitiva ad assumere uno sguardo apostolico: lo stesso sguardo di Gesù su uomini e donne che, pur religiosamente istruiti e in possesso di una fede dottrinaria e rituale in Dio, siano intimamente bisognosi di sentire il divino presente nella loro stessa umanità e pronto a corrispondere ai loro bisogni vitali, a bisogni spesso nascosti, a bisogni non solo materiali e psicologici ma a bisogni coincidenti con l’aspirazione interiore e non necessariamente espressa a parole a vivere e a rinascere in un mondo di perfetta e divina giustizia.

Lo “sguardo apostolico” è uno sguardo particolare e tale da non potersi confondere con altri tipi di sguardo. Si danno infatti molti modi di guardare agli altri: gli uomini d’affari negli altri vedono dei consumatori, i politici dei possibili sostenitori, i commercianti dei clienti, gli operatori dei massmedia degli utenti, gli artisti dei fans. Questi sono tutti sguardi superficiali che riducono gli altri al profitto o all’utile che ne possono trarre per sé. Invece l’apostolo è colui che guarda agli altri cercando di percepire o decifrare, con discrezione e non ostentata sensibilità, e in modo del tutto disinteressato e caritatevole, i veri problemi di ogni individuo, tra cui fragilità e inclinazioni dannose per se stesso e per gli altri, le reali esigenze di ogni persona, il vissuto inconfondibile di ciascunodi ogni “prossimo” non astratto e generico ma concreto e specifico, anche se sia un “prossimo” credente, battezzato, cresimato, assiduamente partecipe del sacramento eucaristico e persino ministerialmente impegnato nell’esercizio di determinate funzioni religiose.

L’apostolo è colui che guarda gli altri non per averne un ritorno personale di qualunque genere, ad eccezione di quell’unico ritorno spirituale che consiste nell’essere fedeli a Dio attraverso un atteggiamento di servizio all’altro e non di accaparramento dell’altro, ma solo per offrire se stesso in cambio di niente con la sola certezza di poter contare sull’amore divino. Purtroppo, non solo i falsi apostoli ma anche i veri apostoli, di ogni ordine e grado, sono soggetti alla tentazione sempre incombente di fare un sottile uso strumentale degli altri: e ciò accade tutte le volte che l’apostolo, sia pure nel nome della carità evangelica, ripone nell’altro determinate sue aspettative personali o guarda all’altro come fonte di possibile gratificazione psicologica o, peggio, come opportunità di soddisfare un desiderio vanaglorioso e perverso anche se non dichiarato di dominio psicologico sugli altri.

Tuttavia, il vero apostolo, uomo o donna, presbitero o laico che sia, è capace di resistere a questa temibile tentazione o di riaversi prontamente da eventuali e occasionali cedimenti ad essa, con una intensa attività di preghiera e un virtuoso esercizio di costante purificazione della propria vita interiore. In definitiva, l’apostolo è anche colui che, pur se difettoso e limitato, sa donare o si sforza di donare Dio, che è appunto il privilegio di chi si sente amato da Dio e ama gli altri in Gesù, sia pure in mezzo a relazioni interpersonali talvolta conflittuali o non pacificate, cioè colui che tendenzialmente, come Gesù, che ama anche quando muove sferzanti rimproveri, ha lo stesso sguardo di Dio.

Così come, da un punto di vista laico ma non religioso, nessuno, quindi neppure l’intellettuale professionale, può pretendere di avere un ruolo privilegiato nella conversazione pubblica se non per l’autorevolezza intrinseca nel suo sapere, allo stesso modo a nessuno, nella Chiesa universale di Cristo, in quella istituzionale come in quella carismatica, potrà riconoscersi, in tal caso in virtù non già di un principio democratico ma dello spirito di fraterna comunione ecclesiale e di mutua assistenza nella verità e nella carità, una funzione assolutamente preminente in ordine all’interpretazione, alla chiarificazione e all’osservanza di taluni aspetti della Parola di Dio, pur restando ferma la specifica funzione ministeriale dei sacri ordini della Chiesa di garantirne l’ortodossia attraverso i secoli, là dove tuttavia l’autorevolezza esegetico-interpretativa o teologica di determinate argomentazioni non deriverà dal principio gerarchico in quanto tale ma dalla qualità degli apporti critici e spirituali di ogni singolo battezzato, tanto più qualificato e legittimato, verosimilmente, a prendere la parola su delicate questioni di fede e di vita ecclesiale quanto maggiormente dotato di capacità intellettuali di studio, di riflessione, di discernimento e di giudizio.

Volendo aggiungere un’ulteriore puntualizzazione, si può dire che intellettuale al servizio di Cristo e della Chiesa può essere chiunque dimostri, per via orale o scritta e senza doversi per forza assoggettare a certificazioni ufficiali di tipo istituzionale, con interventi nelle assemblee ecclesiali o nel corso di convegni e incontri di studio e di preghiera oppure con pubblicazioni attendibili e rigorose, di essere in possesso di conoscenze altamente qualificate, di valide competenze teoriche disciplinari o interdisciplinari, anche sul piano teologico, e di essere dotato di spiccata sensibilità per i problemi, le esigenze, le istanze della vita spirituale personale e comunitaria.  

Questo intellettuale è uno che, se “mandato” nel foro della sua coscienza direttamente da Dio e non da suoi vicari, si assume la responsabilità di quello che pensa, che dice, che scrive e pubblica, direttamente al cospetto di Dio prima che dinanzi a qualsiasi autorità umana o religiosa, anche se dovrà essere sempre pronto a render conto delle sue idee e del suo complessivo operato apostolico alle stesse autorità terrene a cominciare dalle autorità ecclesiastiche. Tuttavia, tenendo presente che in circolazione oggi non sono solo consuete forme di clericalismo religioso ma anche clericalismi abbondantemente antireligiosi8, sarà intellettuale laico e non ecclesiastico, libero quindi da interferenze o condizionamenti di qualsiasi natura, da controlli istituzionali di natura gerarchica e non anche basati su aperti e trasparenti confronti critici, pur tenuto ad una saggia e santa obbedienza agli stessi vertici gerarchici nel caso di conflitti manifestamente pretestuosi, offensivi o ingiustificati da lui provocati.

Francesco di Maria

NOTE

1 Tale affermazione appare fondata, anche se c’è chi, come J. Francese, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, Firenze University Press, 2012, riferendosi allo scrittore siciliano, ha scritto nella sua “Introduzione”, forse riduttivamente, che «i suoi protagonisti tendono ad essere unidimensionali, incapaci di dubbi, crisi di coscienza, catarsi o, tanto meno, sviluppo interiore», dove probabilmente si può eccepire che la  verosimile mancanza di “sviluppo interiore” nei personaggi sciasciani non esclude necessariamente l’esistenza di una loro interiore conflittualità, pur destinata a non trasformarsi in catarsi e quindi in maturazione etica e spirituale. Sulla duplice percezione, regionale e internazionale, di Sciascia, cfr. G. Panella, Leonardo Sciascia. L’intellettuale tra la Sicilia e l’Europa, Grottaminarda (Avellino), Delta 3, 2019, in cui si sottolinea energicamente la vena pirandelliana di Sciascia e il carattere problematico, labirintico della sua ricerca, che tende a sfociare nell’elogio degli “uomini vivi”, di coloro che hanno la capacità di contraddirsi e, insieme, di essere anticonformisti, cioè di sottrarsi a tutte le convenzioni umane e sociali della vita.

2 L’impegno intellettuale di Sciascia è alimentato costantemente da una passione febbrile, impaziente, talvolta forse frettolosa e retorica, per la verità. In un’intervista del 1978, riferendosi all’uccisione di Moro, afferma: « la menzogna genera menzogna, …  l’Italia è un paese senza verità: … bisogna rifondare la verità, se si vuole rifondare lo Stato. … non bisogna aver paura della verità, se non si vuole perire. Moro è stato un uomo da me non amato, e forse non amabile: ma il modo come è morto, come – dalle due parti – è stato fatto morire, quello che nelle sue lettere ha lasciato come constatazione e come previsione, è una grande e tragica lezione. Teniamocela nel sentimento e nella ragione. E cerchiamo di essere veramente cristiani. Cristiani con questa insegna: “La verità vi farà liberi”», Intervista a cura di Tony Zermo, pubblicata sul quotidiano “La Sicilia” il 14 agosto 1978.

3 L’intellettuale deve avere, con la vocazione ad un esercizio critico della sua razionalità, anche una poliedricità di interessi, se vuole rendere ragione della profonda ed estesa rugosità del reale e deve essere mosso dalla volontà, per riprendere un’espressione di Umberto Eco, a sua volta poliedrico anche se non sempre persuasivo, di “vedere un senso dove saremmo tentati di vedere solamente dei fatti”.

4 Da questo punto di vista, sempre utile può essere una proposta filosofica come quella di E. Berti, La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium, 2014.

5 Un esempio storico di ripensamento critico-istituzionale del cattolicesimo si trova in R. Bireley, Ripensare il cattolicesimo (1450-1700). Nuove interpretazioni della Controriforma, Genova, Marietti, 2010; si veda anche C. M. Martini, Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo d’oggi, Milano, In Dialogo, 2016.

6 S. Dianich, Idoli della Chiesa. Tentazioni e derive della coscienza cristiana, Bologna, EDB, 2015.

7 Nell’universo cattolico ci sono tradizionalisti reazionari o moderati e democratici moderati o progressisti: si dica pure che c’è un po’ di tutto, ma questo non toglie che ogni schieramento sia o debba essere consapevole del dovere spirituale e religioso di contrastare qualsivoglia tipo di conformismo ideologico, politico, sociale e culturale, palesemente in contrasto con la fede adorante nel Dio della croce e della risurrezione: per ripercorrere momenti significativi della storia del cattolicesimo e, in particolare, di quello democratico, si può vedere a cura di L. Guerzoni, Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, Bologna, Il Mulino, 2009.

8 Come si evince, per esempio, da Vittorio V. Alberti, Non è un Paese per laici. Onestà intellettuale e politica per l’Italia della crisi, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, interessante anche se non sempre indiscutibile, in cui opportunamente si ricorda la distinzione tra il significato storico-giuridico e il significato culturale della parola laicità: «La parola laico risale al Medioevo cristiano per distinguere, sul piano giuridico, un prete da chi non lo è (una distinzione che nella Chiesa c’è ancora oggi), che non significa distinguere chi crede in Dio da chi non ci crede. Poi c’è un significato culturale … che riguarda sia la politica, l’ideologia, la società, che la religione e la Chiesa». La tesi di fondo è che il “libero pensiero” non viene corrotto solo da determinati modi di intendere la fede religiosa ma anche da modi preconcetti, rozzi, faziosi, unilaterali e alla fine non solo dogmatici ma dozzinali e meramente polemici di affrontare le questioni del sapere e del vivere, benché, in realtà, anche il modo di argomentare dell’autore non sembri essere improntato in modo puntuale e ineccepibile ad un ideale di inattaccabile laicità critico-discorsiva.

 

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