La guerra tra Costituzione e filosofia

L’articolo 11 della Costituzione italiana recita testualmente: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Tale articolo ha un duplice significato: un significato storico e un significato eminentemente giuridico. Dal punto di vista storico, riflette naturalmente la volontà di sottolineare una doverosa e necessaria discontinuità con un recente e tragico passato bellico, del quale l’Italia, a rimorchio della Germania hitleriana, era stato diretto responsabile, e di esprimere l’augurio di un futuro di ricostruzione e di pace da costruirsi anche nel quadro delle nuove relazioni politiche, giuridiche, economiche e militari interstatuali, internazionali e sovranazionali.

Il problema oggi, soprattutto in presenza di fenomeni bellici sempre più estesi e preoccupanti in senso planetario, è quello di capire il reale e profondo significato razionale e giuridico di tale norma costituzionale. In essa, ricorrono tre essenziali momenti concettuali: il ripudio della guerra in quanto mezzo offensivo e principio-base per la risoluzione di controversie internazionali; la disponibilità politico-giuridica dello Stato italiano, che non è mai un obbligo se non dopo averla manifestata e ratificata in forme di assoluta trasparenza consensuale con gli altri Stati in condizioni di parità rispetto ad essi, a cedere parte della propria sovranità e quindi a rinunciare anche a parte dei propri doveri costituzionali fissati dall’art. 11, al fine di promuovere e favorire, questo è il terzo momento, le organizzazioni e le stesse alleanze internazionali il cui fine statutario sia la conservazione o il mantenimento della pace nel mondo.

A ben vedere, di tassativo e incondizionato vi è solo il primo momento, quello relativo al ripudio della guerra, non ripudio tout court ma solo in quanto strumento di offesa, di attacco militare illegittimo e indiscriminato contro altri popoli, di deliberata aggressione bellica a scopi di invasione, occupazione, distruzione e/o conquista coloniale o imperialistica. Ciò significa che, ove l’integrità territoriale e la sicurezza esistenziale dello Stato e del popolo italiani fossero seriamente, e direttamente o indirettamente, minacciati o messi in pericolo da potenze militari altre, l’Italia avrebbe ancora il pieno diritto di difendersi e di resistere con le armi a possibili aggressioni altrui. Tuttavia, poiché oggi l’Italia è parte integrante, è membro effettivo e fondatore dell’Unione Europea e membro anche dell’Alleanza Atlantica e della Nato, nel caso in cui la sicurezza territoriale di una qualsiasi nazione che faccia parte di entrambe fosse posta direttamente o indirettamente in pericolo, essa è tenuta, su questo specifico tema della guerra e insieme a tutti gli altri Stati membri, a decidere democraticamente sul da farsi e sulle specifiche modalità anche militari di difesa in rapporto ad evidenti e reiterate azioni di ostilità poste in essere da potenze nemiche.

Tutto ciò l’Italia è tenuta a fare appunto, terzo momento, per promuovere e favorire tanto le organizzazioni aggregative transnazionali di cui ha stabilmente deciso di far parte, quanto evidentemente la pace e la giustizia nel mondo esplicitamente richiamate dall’art. 11 della nostra Costituzione. Pertanto, nel constatare che questo passaggio del testo costituzionale, non è affatto così ingenuo come si potrebbe essere indotti a pensare, ma ben più meditato e realistico, se ne può cominciare a trarre una prima conclusione, quella per cui l’Italia, pur aborrendo la guerra a scopi di conquista o di puro espansionismo politico-militare, non la ritiene affatto un’opzione illegittima e impraticabile in caso di concreto, evidente ed oggettivo, diretto o indiretto pericolo, per la pace e la giustizia tra i popoli. In altri termini, l’Italia, con l’articolo 11, rinnega il passato nazionalista, militarista, imperialista, che l’aveva portata alla catastrofe umanitaria, economica e sociale, senza per questo rinunciare al suo ruolo attivo o proattivo proprio per cooperare alla inversione delle politiche esasperatamente nazionaliste in atto nel mondo contemporaneo e allo stabile perseguimento dei fini universali sopra indicati.

Il ripudio costituzionale della guerra, dunque, non può e non deve essere inteso in senso pacifista, come non è ancora specificamente pacifista chiunque si limiti a dire che non bisogna arrecare offesa, né oltraggio, né morte, né danni di qualunque genere ed entità, ma un individuo semplicemente ragionevole. Come ragionevole era la posizione espressa da Togliatti nella seduta della prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione del 3 dicembre 1946: «In particolare, il principio della rinuncia alla guerra come strumento di politica offensiva e di conquista, oltre il fatto che è compreso in tutte le Costituzioni, deve essere sancito nella Costituzione italiana per un motivo speciale interno, quale opposizione cioè alla guerra che ha rovinato la Nazione». Si trattava, implicitamente, di preservare il mantenimento di un apparato bellico nazionale in funzione difensiva e dissuasiva, necessario alla realizzazione di un altro importante principio costituzionale: quello dell’art. 52, che prescrive normativamente «la difesa della Patria [quale] sacro dovere» dei cittadini, per cui questi ultimi ancora oggi  sono tenuti ad esercitare obbligatoriamente il servizio militare o, almeno, il servizio civile, in presenza di conclamati motivi di natura etica e religiosa.

L’art. 11 non equivale ad un atto irresponsabile di svendita dell’identità nazionale italiana a favore delle potenze occidentali vincitrici della seconda guerra mondiale e, in sostanza, a favore di inglesi e americani, né tale atto lascia intravedere spiragli di subordinazione ideologico-politica dell’Italia nei confronti di quell’Unione Sovietica che pure aveva cooperato, sebbene non in modo intenzionale, alla liberazione dell’Europa dall’incubo nazifascista, ma esso recepisce comunque la necessità storica di ridefinire per via giuridico-costituzionale il perimetro di agibilità del nascituro Stato repubblicano e democratico, il quale, di conseguenza, non avrebbe più potuto usare la sua sovranità assoluta — e ribadisco assoluta e non depotenziata come altri pure sono venuti sostenendo nel tempo (cfr. il pur ispirato Codice di Camaldoli o il pur lungimirante Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, ecc.), non potendo sussistere uno Stato sovrano ove la sua sovranità sia limitata — in funzione di un esercizio sconsiderato e irrazionale della forza militare o di una esasperata volontà di potenza di marca neocoloniale o imperiale, bensì in funzione di ideali universali e universalmente condivisi di pace e di giustizia.

Per i costituenti, pertanto, non si trattava di ridimensionare la sovranità assoluta dello Stato, ma di prevedere che, nel nome di tale assoluta sovranità, esso si disponesse, di volta in volta, e a seconda delle diverse e specifiche questioni che fossero state oggetto del dibattito politico internazionale, a cedere parte della sua pur inalienabile sovranità alla o alle comunità politiche internazionali per metterla al servizio di inequivocabili scopi planetari di pace e giustizia. Poi, a seguito di taluni interventi innovativi deliberati dal parlamento (soprattutto quello del 2001) e, più incisivamente, di reiterati processi di superfetazione normativa, giurisprudenziale e giurisdizionale, con connessi fenomeni di esasperazione interpretativa non priva di varia e contraddittoria connotazione ideologica, processi di cui la Corte di Cassazione sarebbe stata principale artefice (si pensi, in particolare, alle pronunce n. 183 del 1973 e n. 227 del 2010), si è venuto forse ingenerando il dubbio che le limitazioni di poteri statuali, cui fa riferimento l’art. 11, potessero essere indotte autoritativamente dal “superiore” potere delle varie istituzioni internazionali anche se proprio le pronunce appena citate, in se stesse considerate, affermano che per, quanto riguarda tali limitazioni, esse non necessitano di apposite integrazioni costituzionali, ma hanno già il loro sicuro fondamento in quell’articolo costituzionale, sebbene, va aggiunto, l’attività della Cassazione, sulla questione del rapporto tra potere nazionale e potere comunitario, venga non di rado e significativamente recepita da parte non trascurabile di opinione pubblica come piuttosto sbilanciata a favore del secondo e a detrimento del primo, il che, di primo acchito, non sembrerebbe essere propriamente un capolavoro di saggezza giurisprudenziale. I trattati internazionali certamente contano ma ovviamente non sono infallibili solo perché internazionali, e, costituzionalmente, essi non sono automaticamente prevalenti sulle norme costituzionali italiane, giacché «le limitazioni di sovranità necessarie …» non possono essere unilateralmente stabilite né dai trattati, né dagli organismi sovranazionali, né possono essere accettate ciecamente dal governo nazionale, ma devono essere pur sempre concordate, sulla base di criteri non oggettivamente lesivi degli interessi nazionali, a prescindere dai quali non avrebbe alcun senso né la politica in generale, né la democrazia, né la stessa Costituzione repubblicana.

Ne consegue tuttavia che, su ogni istanza di intervento militare di qualunque natura al di fuori del proprio territorio, il parlamento e il governo nazionali, che sono tenuti, va ribadito, sul piano giuridico, politico e deontologico, a perseguire innanzitutto, e prima di qualunque altro scopo, l’interesse nazionale, benché tale concetto non sembri ricorrere spesso in forma esplicita nello stesso testo costituzionale, restano pienamente sovrani nel decidere se, come, e in che misura, sia opportuno o necessario cedere la propria sovranità alle entità politiche e militari di cui l’Italia fa parte, nell’esclusivo interesse dei popoli del mondo e nel doveroso perseguimento interstatuale e sovranazionale di condizioni non effimere, né apparenti, di pace e giustizia. Ma sia chiaro che l’articolo 11, proprio per quel che fin qui è stato detto, non costringe affatto l’Italia di Meloni e Crosetto a negare all’esercito ucraino la possibilità di usare armi occidentali per colpire obiettivi e infrastrutture militari in territorio russo. Non ci si può difendere semplicemente combattendo sul proprio territorio se il nemico ne approfitta per fare sparire dalla carta geografica un intero popolo. Sarebbe un controsenso, un’idiozia, non solo per il diritto internazionale ma anche e soprattutto per la logica comune.

La verità, che anche in questo caso occorre dire anche in relazione a personalità politiche che finora, a mio parere, avevano meritato il plauso di molti italiani, è che Giorgia Meloni, tenendo conto delle codarde e interessate posizioni pacifiste di Salvini, soprattutto, ma anche di Taiani, che, è il caso di dirlo, fa il furbo per non andare in guerra, teme di perdere molti voti del suo stesso elettorato qualora dovesse sottoscrivere la decisione europea di autorizzare l’esportazione delle operazioni belliche in territorio russo. Va bene, si dirà: è un calcolo più che comprensibile. E invece non lo è affatto, perché qui in gioco ci sono proprio la pace e la giustizia nel mondo, che saranno completamente compromesse se si lascia che Putin scorazzi indisturbato, con i suoi missili assassini, su tutto il territorio ucraino e sulle povere, martoriate vite dei suoi abitanti. Che anche il Presidente del Consiglio, dopo aver dato prova di intelligenza e coraggio politici, si lasci destabilizzare e condizionare psicologicamente da due lestofanti politici come Salvini e Taiani, è moralmente e politicamente molto grave! Ma riconosca, almeno, che la Costituzione non sarà stata complice della sua scelta di non allinearsi alle decisioni maggioritarie europee, circa la opportunità che gli ucraini possano finalmente colpire anche il territorio nemico!

E, per un cattolico come me, è deprimente constatare che forse le idee malsane e anticaritatevoli di un fanatico pacifista e sedicente cattolico, di nome Marco Tarquinio, potrebbero aver fatto scuola in Italia, dove il “particulare” e la “discrezione” guicciardiniani hanno sempre contato più delle analisi razionali e della virtù morale machiavelliane. Beninteso, non sono, anche per motivi psicologici strettamente personali, né un bellicista, né un militarista, né un guerrafondaio, ma solo un cristiano realista che, nel rispettare la massima evangelica del “porgere l’altra guancia”, non la interpreta tuttavia come invito a lasciarsi massacrare, a lasciarsi colpire senza mai replicare: questa è un’interpretazione farisaica delle parole di Gesù e la stessa Chiesa gerarchica attuale dovrebbe fare ammenda di averla avallata contro lo stesso principio evangelico della giustizia.

Nel ’91, in occasione della prima guerra del Golfo Persico, avversai l’intervento militare americano contro l’Iraq, perché, come i documenti avrebbero dimostrato successivamente, mancavano allora i presupposti per un attacco sconsiderato come quello allora posto in essere. Identica posizione tenni per la guerra del Kosovo nel 1999. Fui contro quelle guerre ma non perché, come scrisse Umberto Eco in alcuni articoli degli anni ‘90 (un suo primo articolo era intitolato “Pensare la guerra” e venne pubblicato l’1 aprile 1991 in “La Rivista dei Libri”, poi ripubblicato con altri saggi in “Cinque scritti morali”, Milano, Bompiani, 1997, cui avrebbe abbinato subito dopo l’articolo intitolato “Quando la guerra è un’arma spuntata” e pubblicato in “La Repubblica” del 27 aprile 1999), «il bellicismo, ancor prima di essere immorale, è demenziale», giacché credo che, sebbene la guerra sia sempre e comunque demenziale, talvolta, oggi non meno di ieri, possa risultare paradossalmente necessaria anche ove non fosse poi sufficiente a tutelare la dignità e la libertà dei popoli, tutte le volte che qualche potenza politica e militare, senza disporre peraltro di motivazioni plausibili (nel caso dell’Ucraina, per esempio, dopo il crollo dell’Unione Sovietica nell’89, essa aveva piena facoltà di sganciarsi completamente dall’orbita di influenza russa senza che uno stupido e sanguinario criminale come Putin potesse minimamente eccepire ed opporsi all’indipendenza politica del popolo ucraino), ritenga di soffocare, terroristicamente, in fiumi e laghi di sangue, le giuste rivendicazioni autonomistiche di popoli sovrani.

D’altra parte, anche il giudizio di Massimo Cacciari, espresso nel libro Geo-filosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 1994, appare abbastanza arzigogolato e, alla fine, incerto o per niente chiaro, anche se brillantemente supportato da una raffinata analisi filologica. Infatti, per Cacciari, in un’epoca terribile e angosciante come quella in cui si viveva già nell’ultimo decennio del XX secolo, la voce del filosofo non doveva essere né quella di un pacifismo decadente e senile, secondo cui venga confusa la “tolleranza” con la giustificazione del male, né quella di un pacifismo accidioso della “via di mezzo”, in base a cui torti e ragioni verrebbero posti sullo stesso piano. Bene: ma, alla fine, la voce del filosofo è o non è anche quella che decide che possano darsi motivi umani e morali talmente evidenti da rendere necessaria e improcrastinabile una guerra, anche violentissima, di difesa?

Bisogna pensare la polis, dice Cacciari, per evitare che ci si debba trovare in questa terribile situazione. Sì, ma se dopo aver tanto pensato, non si riesce a risolvere nulla, il filosofo che fa: ammette o non ammette che un popolo ingiustamente perseguitato e oppresso militarmente, abbia il diritto di difendersi con le armi? Negli anni ’90, Cacciari non pare si decidesse a rispondere con nettezza a questa semplicissima e chiara domanda. Ma oggi egli non riesce a nascondere il fastidio per l’eroica resistenza ucraina contro quell’armata rossa che, per Cacciari, rimane evidentemente mitica e leggendaria. Ma Cacciari avverte anche che, continuare la guerra contro i russi di Putin, significa accelerare una prospettiva apocalittica. Certo, ma l’apocalisse è prevista dall’apostolo Giovanni, il discepolo che “Gesù amava” (Gv 13, 23), e gli uomini, in ogni caso, non potranno evitarla. Allora non sarà più tempo di metafore filosofiche e di giudizi teoretici, allora sarà solo il tempo del giudizio di Dio, anche se non è detto che pensatori come Fukuyama, Michael Walzer o Bernard-Henri Lévy, che oggi esprimono sulla guerra giudizi molto diversi da quelli di Eco e Cacciari, debbano temerlo meno di quest’ultimi e di quanti non abbiano mai voluto cogliere anche nella guerra un’opportunità di amore evangelico e cristiano.

Francesco di Maria 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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