Da un punto di vista storico-empirico è molto probabile che la famiglia sia un’istituzione presente in tutte le culture sufficientemente note, ivi comprese quelle più primitive, a dispetto dell’antica ipotesi, ormai caduta in disuso, di una originaria promiscuità da cui non sarebbero potute derivare ben definite unità familiari. Ma, nonostante la conseguente importanza di essa nella storia sociale dell’umanità, con tutte le implicazioni di varia natura che sono contenute nel termine socialità, la famiglia non è mai stata trattata nella multisecolare riflessione filosofica, se non marginalmente all’interno di più generali dimensioni del vivere civile, come istituzione universale della storia del genere umano (G. Riconda, Famiglia e bene comune. Fonti filosofiche ed esperienza religiosa (2007), in M. Borsari, Famiglia. La costruzione religiosa del legame sociale, Modena, Fondazione San Carlo, 2008, pp. 129-157. Da confrontare utilmente anche: D. Grillo, Il pensiero filosofico sul matrimonio e sulla famiglia, Verona, Edizioni QuiEdit, Verona e D. Di Giosia, Filosofia della famiglia. L’analisi di Karol Wojtyla, Assisi, Cittadella Editrice, 2021).
In Platone non c’è traccia della famiglia come, almeno fino a tutto il ‘900, è stata intesa, e quindi della famiglia caratterizzata da ben definiti legami tra i sessi, da forme parentali di allevamento ed educazione dei figli, da beni familiari di tipo esclusivamente privato: infatti, com’è noto, il filosofo greco delle idee propone una sorta di comunismo statale di beni materiali e spirituali, e di socializzazione statale di beni affettivi, sentimentali e sessuali, con relativa istituzionalizzazione di rigide forme educative cui si sarebbero dovuti attenere e conformare indistintamente tutti i processi di crescita e formazione degli individui, dalla nascita fino all’età adulta.
Qualcosa di questa impostazione sarà verosimilmente sopravvissuta nella cultura delle generazioni successive a quelle dell’antica Grecia fino ad oggi, essendo ancora possibile rilevarne quanto meno qualche traccia nella tendenza giovanile e non solo giovanile di questo tempo a disconoscere le proprie origini familiari, determinati princìpi educativi loro inculcati già in tenera età, e a rivendicare modi di pensare e di agire spesso completamente difformi da quelli ricevuti in ambito familiare. D’altra parte, in Aristotele si trova invece una difesa della famiglia, della sua funzione psicologica e morale nel processo di educazione e formazione dei figli, benché esso trovi il suo completamento o perfezionamento, al di là del nucleo familiare originario, in altre e più complesse agenzie ed esperienze educative della polis.
Completamente innovativo, se non rivoluzionario, sarebbe stato naturalmente il contributo dato all’idea di famiglia dal pensiero filosofico cristiano nel quadro di un processo storico-sociale-culturale ormai bimillenario, un contributo così solido che avrebbe impedito un permanente o duraturo radicamento storico a fenomeni culturali di potenziale scardinamento delle strutture educative, morali e spirituali, non solo del mondo europeo e occidentale ma anche di larga parte di un mondo che, pur molto eterogeneo e variegato internamente, forse in modo troppo generico e improprio si usa definire come non-occidentale o addirittura antioccidentale.
Tuttavia, con l’avvento della scienza moderna e delle significative trasformazioni che essa sarebbe venuta implicando anche nei modi e nelle forme di esercitare lo stesso pensiero filosofico, il concetto di famiglia teorizzato per molti secoli da in punto di vista rigorosamente cristiano, comincia ad assumere caratteri di inedita problematicità e significati diversi da quelli dei precedenti secoli. In Hegel, che rappresenta il tentativo più alto di razionalizzare il significato e il valore trascendenti della famiglia cristiana, la famiglia non avrebbe più avuto basi di scontata naturalità, né basi giuridiche e morali, ma una giustificazione più ampiamente etica, là dove in sostanza essa, pur dotata di relativa e dialettica autonomia, non avrebbe più avuto valore in se stessa e la sua essenza non si sarebbe più risolta in estrinseci rapporti giuridici e in una dinamica di intenzioni morali ma sarebbe venuta dilatandosi fino a relazionarsi con un ordine sociale di leggi e istituzioni che avrebbe richiesto agli individui di pensare e vivere non più secondo una determinata o particolare forma di coscienza morale, ma secondo un quadro oggettivo di norme e valori sociali condivisi che sollecitano i singoli a vivere e ad agire assumendo comportamenti o costumi etici che sono altro dall’autonomo sentire morale soggettivo e si pongono ad un più alto livello valoriale. Ma questa ricostruzione del rapporto tra moralità, diritto ed eticità e, parallelamente, in corrispondenza di quest’ultima, tra famiglia, società civile e Stato, se da una parte presenta qualche somiglianza con la concezione aristotelica secondo cui la famiglia era in sé autonoma ma solo in quanto funzionale alla centralità dello Stato nella vita della polis, dall’altra riflette la crisi della tradizionale famiglia di ispirazione cristiana, non costituendo più il nucleo familiare un valore in se stesso e come tale inviolabile da parte di enti ad esso esterni, ma solo un valore subordinato al pieno dispiegamento dello spirito nella complessiva storia degli uomini.
Solo che la totalità dialettica hegeliana si sarebbe presto manifestata, nella concreta ed effettuale prassi storica, non come unità di forze culturali convergenti e pacificanti, ma molto più spesso come processo i cui momenti di divergenza e di esplosiva rottura avrebbero prevalso su quelli di coesione e unificazione. Con la progressiva divaricazione tra logica etico-sociale e statuale e logica familiare, con una sempre più ridotta influenza della moralità familiare sulle più impersonali strutture della società e dello Stato, sarebbe certo rimasta una società borghese con le sue connaturate contraddizioni e forme atomistiche di conflittualità, ma sempre più dissociata da quella spiritualità cristiana che, per alcuni secoli, ne aveva costituito pur sempre un prezioso serbatoio di energia morale e valoriale cui fosse possibile attingere nei momenti di più grave crisi o sconvolgimento epocale. D’altra parte, anche in Marx, in cui il momento della contraddizione, della divergenza, dell’opposizione antitetica, è molto più avvertito che in Hegel, e in cui la dialettica storico-rivoluzionaria è molto più ancorata che in Hegel alla volontà delle forze soggettive del processo rivoluzionario, la famiglia si trova ad essere dibattuta tra ideale naturalità e storicità, nel senso che essa, in quanto famiglia monogamica, ha una precisa origine storica e classista che ne snatura e ne avvilisce l’essenza e la funzione razionale e morale che potranno essere però ripristinate nel quadro di un rapporto monogamico d’amore finalmente sottratto a tutta una serie di unilaterali condizionamenti sociali, economici e religiosi.
La verità è che, per Marx, la famiglia proletaria resta ancora discriminata dall’esistenza di una famiglia borghese, che può contare su un reticolato di privilegi, prerogative, opportunità, di cui è invece assolutamente carente la prima, per cui, solo quando ogni discriminazione classista cederà il passo a strutture economiche e norme sociali egualitarie e comunitarie, anche la famiglia monogamica potrà essere acquisita e vissuta storicamente come una universale forma di famiglia. Ma fino a quando la famiglia non sarà ugualmente dignitosa e internamente egualitaria per tutti gli esseri umani di sesso maschile e femminile, continuando a risentire nella stragrande maggioranza dei casi dei laceranti contraccolpi di un sistema economico-sociale fortemente gerarchico e fondato sul profitto illimitato di pochi e sullo sfruttamento di molti, fino a quando quindi essa, su larga scala, continuerà a riprodurre, al suo interno, le stesse dinamiche capitalistiche di assoggettamento lavorativo non retribuito e di alienazione, dal punto di vista marxiano la famiglia monogamica, lungi dal costituire un’istituzione naturale, avrebbe continuato ad esistere solo come un epifenomeno del modo di produzione capitalistico [Sul complesso intreccio relazionale e conflittuale tra famiglia e matrimonio, da una parte, e le strutture economico-sociali e giuridico-culturali, dall’altra, è utile vedere uno studio come quello di L. Bifulco, La famiglia e il matrimonio. Proprietà, dominio e conflitto. Marx, Engels, Weber, Veblen, Collins, Anzio-Lavinio (Roma), Novalogos, 2018].
Con la lenta ma inesorabile emarginazione della presenza e dell’influenza cristiana e cattolica, che non avrebbero mancato di contagiare in qualche modo persino la coscienza morale di non pochi laici non credenti, dalle sempre più complesse e imprevedibili dinamiche del mondo contemporaneo, per effetto dell’impatto sempre più pervasivo prodotto dallo sviluppo scientifico e tecnologico, la società prima in varia misura frammentata a seconda delle compagini nazionali di appartenenza, poi sempre più globalizzata in una sorta di virtuale comunità statuale sovranazionale, sarebbe andata incontro ad un caotico proliferare di modelli intellettuali e comportamentali ormai tendenzialmente sradicati non solo dall’originaria e originale tradizione cristiana ma persino da più recenti, diffuse forme popolari assunte da tale tradizione per pura consuetudine o convenzione.
La famiglia è visibilmente in via di decomposizione storico-culturale: le sue tradizionali forme educative, i suoi valori, le sue regole di comportamento, sia pure spesso tra eccessi di spirito autoritario, paternalistico o conformistico, di protezione genitoriale e di condizionamento mammistico, dall’inizio del XXI secolo appaiono in crescente disuso e, a giudicare dagli effetti prodotti, non sembra siano sul punto di essere sostituiti da paradigmi di pensiero e modelli esistenziali ben più originali e proficui. Sociologismo e nichilismo, che costituiscono i due estremi di un vastissimo e variegato fronte culturale, «sono in fondo d’accordo nell’avanzare una visione dell’uomo che considera ogni gesto umano verso la Trascendenza inutile e vano, assumendo la nuda finitezza e mortalità umana come orizzonte ultimo del vivere e dell’agire, in un’accettazione dell’esistente che smorza le sue capacità critiche. Essi non possono non apparire filosofie di un’umanità stanca, di un’umanità vecchia, che abbandonata la speranza rivoluzionaria di una realizzazione del Paradiso in terra, sembra ora volere rinunciare all’idea stessa di Paradiso, riassorbendo l’uomo nella sua quotidianità, nella sua mondanità, anche se poi non cessano di coltivare e allettare le sue spinte prometeiche, insistendo sui poteri che la tecnica, soprattutto le nuove tecniche biologiche, gli consentono» (G. Riconda, Famiglia e bene comune. Fonti filosofiche ed esperienza religiosa, 2007, citato).
Beninteso, nel denunciare la crisi della famiglia postmoderna si intende far riferimento ad una sempre più considerevole percentuale di famiglie i cui componenti appaiano non solo moralmente ed eticamente disimpegnati ma persino incuranti della qualità morale delle stesse relazioni di reciprocità tra essi intercorrenti e del destino esistenziale di ognuno di essi. L’indifferenza umana, morale e religiosa, alla condizione altrui di vita, ai bisogni materiali e immateriali del prossimo, alla sofferenza degli altri, che, sino a non molti decenni addietro, era radicata principalmente in ambito sociale, ormai tende ad estendersi, in forme spesso drammatiche e devastanti, anche al vecchio e residuale istituto familiare il quale appare peraltro soggetto a metamorfosi tutt’altro che rare e rassicuranti, nel senso che la famiglia viene soppiantata, con sconvolgente ma in apparenza non traumatica rapidità, dalle famiglie, da una pluralità di tipologie familiari che viene collocandosi ben al di là di modelli familiari tradizionali e in aperta contestazione di tutti quei divieti un tempo finalizzati a bloccare o a disincentivare forme particolarmente trasgressive di vita familiare e civile.
Tutto questo accade, si usa scrivere, sostenere, ripetere, senza alcun imbarazzo, nel nome del progresso civile e della democrazia, ma la cosa più oscena consiste nel fatto che la stessa religione cattolica, la più universale delle religioni esistenti, vien fatta scendere frequentemente in campo non per riprovare, deplorare, criticare severamente le troppe numerose novità della storia che allontanano inesorabilmente gli uomini dalle verità di Dio e della vita, ma per comprenderle, giustificarle, razionalizzarle e per farne addirittura manifestazioni, segni, richiami del provvidenziale spirito divino che solleciterebbe di continuo l’umanità a imprevedibili riscoperte teologiche, a impensabili e stupefacenti svolte spirituali, e talvolta persino ad epocali conversioni religiose.
La nostra civiltà è disseminata di una patologica volontà di potere e di vivere, di un vitalismo irrazionalistico basato su pulsioni primitive e incontrollate, che non trova più o trova sempre meno un contrappeso nell’esistenza di voci profetiche non pavide ma coraggiosamente destabilizzanti e generalmente avversate non da questa o quella corrente culturale o parte ideologica e politica, da questo o quello schieramento della grande comunità ecclesiale ma da tutti indistintamente anche se, di volta in volta, per motivi diversi. L’uomo, nel corso della sua storia, non è mai stato particolarmente fedele a Dio, e anzi non di rado ha violato l’alleanza con Dio. Dio, invece, continua ad esser fedele all’uomo, con la saggezza, la fermezza e il rigore paterni di cui è profondamente carente oggi la civiltà dell’uomo. I valori familiari, e con essi valori morali e sociali un tempo molto più vincolanti, non sono più sacri, ma piuttosto ordinariamente banali, perché è il senso stesso del sacro che ormai evapora nello sport allegramente e massicciamente legittimato e praticato della sua derisione, della sua dissacrazione.
Ma una fede religiosa che non riposi sulla percezione del sacro, non può produrre altro che conformismo e accettazione acritica dell’esistente, sia pure nel quadro di un vulcanico attivismo fine a se stesso. In questo senso, sembra di poter dare ragione, oggi più di ieri, a Sartre che, nella sua celebre opera del ’43 “Essere e nulla”, parlava dell’uomo come di «una passione inutile» (Cfr. anche G. Invitto, Sartre. Dio: una passione inutile, Padova, Messaggero, 2001, pp. 95-96. L’uomo per il quale Dio è una “passione inutile”, non può essere a sua volta, quasi inevitabilmente, che una “passione inutile”). Ma, in realtà, se la famiglia muore o si snatura assumendo forme di promiscuità relazionale e smarrendo ogni distinzione di ruoli sessuali e genitoriali certo complementari ma non interscambiabili, se la famiglia naturale e tradizionale, per quanto marxianamente soggetta a deteriori condizionamenti storico-sociali che possono sfigurarla e depotenziarne le vitali risorse affettive e morali, viene consegnandosi all’insignificanza e all’oblìo della storia, e, ancor di più, se essa recide ogni contatto con il sacro massimamente veicolato da un’antica e sempre inattuale fede nel Dio di ogni salvezza, persino la più radicale ricerca di cose sempre nuove, sempre più profonde e complesse, sempre più utili alla nostra provvisoria esistenza in questo mondo, si rivelerà assolutamente insufficiente, come ha scritto un ispirato scrittore gesuita indiano, a «capire ciò che è necessario» ad ogni essere umano (Anthony De Mello, La preghiera della rana, Torino, Edizioni Paoline, 1992).
A dire il vero, la famiglia ha conosciuto crisi congiunturali piuttosto rilevanti tutte le volte che storicamente sono venute affermandosi in senso egemonico modelli economici, sociali, culturali, di tipo individualistico, rispetto a concezioni sociali fondate sul principio di comunità e autorità. Già nella Grecia del V secolo a. C., con Socrate che viene teorizzando l’assoluta autonomia dell’individuo, il modello sociale fondato sulla famiglia subisce una profonda crisi, anche se subito dopo Aristotele, nel primo libro della Politica, reagisce scrivendo che «la comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura è la famiglia», cui poi segue la vita comunitaria del villaggio derivante dall’unione di più famiglie e, infine la vita comunitaria dello Stato derivante dall’integrazione di più villaggi, là dove è in quest’ultima esperienza di vita comunitaria che, senza nulla perdere dei precedenti apporti della comunità familiare e di quella sociale, viene esplicandosi in pienezza la vita dell’individuo cittadino.
Ma questo ideale aristotelico di famiglia sarebbe andato nuovamente in crisi nel 90 d. C., nella Roma repubblicana, come testimonia Plutarco, ancora una volta a seguito del deciso prevalere di una mentalità individualista impregnata di edonismo utilitaristico. Dopodiché entra in campo il cristianesimo che, come detto in precedenza, avrebbe per molti secoli assolto il compito non solo di defensor fidei ma anche, e congiuntamente, quello di defensor familiae. Anche in Hegel, in fondo, la famiglia, in quanto primo momento dell’eticità e pur non dotata della stessa centralità sociale conosciuta in altre epoche della storia medievale, continua ad assolvere una funzione antindividualista e antiutilitaristica. Con l’irruzione sempre più imponente del capitalismo individualistico nella scena del mondo, tende naturalmente a radicalizzarsi il contrasto tra visione familiare-comunitaria e visione mercatista-individualista. Marx avrebbe combattuto la prima per effetto della sua critica e della sua lotta verso la dominante società borghese-capitalistica.
Tale contrapposizione sarebbe venuta aggravandosi fino a manifestarsi in forme oltremodo preoccupanti in questo primo scorcio di XXI secolo, in cui non c’è più istituzione sociale e politica dell’intero globo terrestre che non appaia letteralmente dominata da un mercato quasi totalmente alla mercè di interessi economico-finanziari e da oligarchie politiche transnazionali particolarmente arrembanti e determinate a mutare nel modo più radicale possibile ogni sia pur consolidato e non poco condiviso ordine di princìpi e valori morali: ad essere coinvolti in un processo di crescente disgregazione valoriale e di disorientamento coscienziale non sono solo la famiglia, la scuola, le diverse agenzie educative di tipo associativo, o modelli di pensiero e di vita della gente comune, ma persino lo Stato e la Chiesa, fino a non molto tempo addietro bastioni apparentemente indistruttibili della civiltà occidentale e destinati a perpetuare indefinitamente la propria autonomia di giudizio e un sovrano potere decisionale.
Oggettività, universalità, non negoziabilità, bene comune: sembrano ormai concetti, nello stesso ambito dell’attività giuridico-legislativa degli Stati e della prassi dottrinaria e pastorale, in via di dissoluzione o meglio di sostanziale accantonamento sotto la spinta di incontenibili pulsioni e rivendicazioni soggettive: di quelle degli immigrati che vorrebbero andare liberamente dapperttutto, di quelle di omosessuali e transessuali che vorrebbero sentirsi sempre più tutelati da leggi adeguate, di donne pervicacemente convinte di una loro superiorità morale sugli uomini e da ciò indotte a chiedere contro quest’ultimi misure sempre più repressive, di agricoltori non più liberi di coltivare le terre come un tempo e di proporre beni di consumo in quantità non soggette a censure di sorta, di giovani che reclamano per se stessi una totale libertà di pensiero, di azione e di svago, di sportivi che chiedono la creazione di spazi e strutture sempre più ampi da dedicare ad attività ludiche, al tempo libero e al divertimento, di artisti di varie aree culturali che invocano a gran voce finanziamenti ben più cospicui di quelli che di solito verrebbero destinati a cultura e spettacolo, e via dicendo.
Si sta assistendo, quasi impotenti, ad una travolgente soggettivizzazione, non pluralistica ma anarchica, di ogni tradizionale canone etico, giuridico, politico e religioso; ad una sorta di istituzionalizzazione del diritto soggettivo assoluto a pretendere una plausibile valenza politica per ogni genere di richiesta, di recriminazione, di rivendicazione; ad una epocale reinterpretazione del bene pubblico non già in funzione di reali, oggettivi, cogenti, bisogni di tutti e di ciascuno, ma in funzione della disseminazione di esigenze soggettive, anche se di gruppi, pur umanamente comprensibili, ma non tuttavia così inderogabili e imprescindibili da comportare, nel caso in cui non potessero essere soddisfatte, l’inevitabile mortificazione della dignità personale dei loro portatori. Ma, certo, per quanto riguarda in particolare l’istituzione familiare, essa, perdendo la sua tipica identità eterosessuale seppur monogamica, e riducendosi ad un puro e semplice contratto tra individui di diverso sesso o dello stesso stesso, che peraltro, con l’avallo giuridico, possono anche procreare non necessariamente per via genetica o naturale ma anche in modo artificiale o medicalmente assistito, appare del tutto evidente che ad essere riscritta è la stessa struttura antropologica umana secondo canoni esasperatamente relativistici e soggettivistici che comportano inevitabilmente pratiche manipolatorie e mercificatorie dell’umano. Ormai, poiché la tecnica rende possibili artificialmente processi biologici, o meglio di trasformazione biologica, in passato impensabili, è sufficiente esprimere un desiderio, la volontà di ottenere un determinato risultato, al fine di convertirla, ove appunto sia tecnicamente possibile conseguirne l’oggetto, in materiale idoneo ad essere trattato ed elaborato sul piano giuridico.
Ma riconoscere dignità giuridica a qualunque desiderio, a qualunque ricerca soggettiva di qualcosa che non sia possibile ottenere secondo procedure naturali ma solo secondo procedure tecnologicamente sempre più sofisticate, corrisponde ad una crescente meccanicizzazione degli affetti umani, delle relazioni sentimentali, e, sia pure indirettamente, della vita associata nel suo insieme, in quanto il risultato o l’effetto di quello che dovrebbe conseguire ad un diretto, spontaneo, atto di reciproco amore, viene ottenuto in realtà per via meccanica, esterna, indipendente dallo specifico contesto di una compenetrazione consensuale di due volontà che in un momento determinato e irripetibile del rapporto d’amore agiscono con la speranza di poterlo coronare con il concepimento di una creatura. Altro è amarsi per quello che si è, per come si è, e desiderare un figlio nell’accettazione della propria condizione naturale, altro è amarsi trasformando artificialmente la propria sessualità o altrettanto artificialmente adottando procedure alternative a quelle naturali per poter avere dei figli.
Ormai l’importante non è tanto dedicarsi affettivamente, e quindi anche pazientemente, disinteressatamente, alla persona che si presume di amare, ma è piuttosto l’efficienza, la produttività, la realizzazione in qualunque modo di uno scopo umano come può essere la filiazione. Nella vita familiare dovrebbe accadere esattamente il contrario di quel che nella moderna o postmoderna vita sociale accade normalmente: non la superficialità, la frettolosità, la competitività, l’interesse strumentale nei rapporti sociali ma la delicatezza, la profondità, lo spirito di servizio e di comunità nei rapporti coniugali e negli stessi rapporti interpersonali interni al nucleo familiare. In questo senso, secondo il filosofo francese Alain de Benoist, starebbe di recente emergendo un “bisogno crescente di famiglia”: «i valori famigliari appaiono come l’esatto contrario dei valori sociali [attuali] … ”Il bisogno crescente di famiglia” di cui parlano i sociologi non ha altra spiegazione – visto che a causa della crisi economica, la famiglia dimostra di essere una notevole rete di solidarietà. […] Giudicata ieri opprimente, essa è ora percepita come un’oasi di sicurezza, dove i membri del parentado fanno da prestatori di servizi. Medica le piaghe inflitte agli individui dalla società globale» (Alain de Benoist, L’intervista. De Benoist: “La famiglia rifugio al tempo della crisi e l’ideologia del gender”, in “Famiglia e Società”, Napoli, Controcorrente, 2013).
Personalmente non sono convinto che esista questo crescente bisogno di famiglia, non almeno nel senso morale più alto del termine bisogno, perché semmai è un ripiego, un’ancora di salvataggio in un mondo sociale troppo caotico, vertiginoso, difficile, ben poco gratificante, principalmente sul piano dei rapporti umani. D’altra parte, de Benoist non parla in senso positivo della famiglia come valore-rifugio, come ritirata strategica nel confort, per chi ne abbia la possibilità, della amorevolezza, della comprensione e dell’affettività privata proprie dell’habitat familiare, ma critica questa famiglia nucleare così chiusa al mondo esterno e così poco partecipe delle convulse e spesso drammatiche vicende del mondo sociale. Ma poi, molto spesso sembrerebbe essere vero il contrario, e cioè che la famiglia è anch’essa piena di piaghe, è anch’essa un soggetto comunitario moralmente incapace di amore paterno, materno, fraterno, di comprensione e di intima complicità coniugale sul terreno di comuni e impegnative scelte etiche e spirituali di vita, è anch’essa sede di litigi, contrasti, divergenze psicologiche ed esistenziali. Vorrei sperare che fosse vero il contrario ma, per quel che vedo, la famiglia non mi sembra generalmente capace di esprimere reali valori educativi, formativi, né di indicare prospettive eticamente nobili di vita civile o religiosa, per cui, a parte talvolta il legame istintuale del sangue, essa ad oggi assolve un ruolo socialmente irrilevante o insignificante.
Non si tratta solo di proteggere economicamente i figli: questa è una funzione doverosa ma pur sempre insufficiente da un punto di vista familiare. La famiglia non può essere passiva, puramente protettiva, rispetto ai figli, ma dovrebbe porsi in modo attivo, propositivo, autorevole, anche esortativo o monitorio a seconda dei casi, ovvero realmente formativa e mossa non da semplice affetto abitudinario o meccanico verso di essi, bensì da un interesse spirituale a farne onesti strumenti di operosità e di bene, nel privato come nel pubblico. Era giusto quel pensiero che, muovendo dalla constatazione di come si stesse snaturando il rapporto genitori-figli all’interno delle famiglie, si articolava più di 15 anni or sono nel seguente modo: «La famiglia appartiene a quel genere di rapporti primari, all’interno dei quali gli atteggiamenti e le emozioni possono essere vissute in pienezza, cercando di trasmettere in questo genere di rapporti, tutte le nostre potenzialità: è questo che fa sì che all’interno della famiglia si giochi tutto il potenziale esistenziale delle persone: ora, risulta da più parti che i genitori hanno gradualmente abdicato ad una funzione di soggetti attivi, rinunciando in parte a farsi mediatori tra i figli e il mondo esterno attraverso una funzione critica, di trasmissione di valori, di orientamento e soprattutto una funzione di controllo di quello che avviene all’esterno della famiglia. I genitori si limitano troppo spesso, ancora oggi, ad esercitare una funzione ’ancillare’, cioè di semplice trasmissione di beni ed opportunità, per lo più di tipo materiale, ai figli» (E. Lozupone, La famiglia nella globalizzazione: la figura paterna nella costruzione di un puerocentrismo responsabile, in Rivista pedagogica “Prospettiva EP”, Roma, Bulzoni, 2006, n. 1, pp. 23-26).
Mi sembra perciò di poter concordare abbastanza e ben più che con de Benoist, con l’analisi più articolata e veritiera di Mario Tronti: «Nonostante il deterioramento generale, in Italia la famiglia è riuscita a reggere l’urto, impedendo l’esplosione di conflitti sociali che restano latenti. Va in questa direzione la permanenza dei giovani in casa, dove le istanze di rivolta vengono in qualche modo smorzate. Sì, la famiglia funziona ancora come piccola impresa economica, ma non sono altrettanto ottimista per quanto riguarda la formazione delle nuove generazioni. In questo ambito mi pare che il rumore di fondo proveniente dall’esterno abbia finito per prevalere, mettendo seriamente in discussione il ruolo educativo della famiglia» (M. Tronti, Intervista di Alessandro Zaccuri, L’individualismo ha ucciso la sinistra, in “Avvenire” del 20 aprile 2016). Ma, almeno per il cristiano, non è ancora detta l’ultima parola. D’altra parte, se tutto dovesse precipitare in modo irreversibile, ci sarebbe sempre la Sacra Famiglia, giuste demistificazioni a parte, ad aspettare con le braccia aperte i suoi figli più amorevolmente e ragionevolmente impegnati contro il peccato del mondo.
Francesco di Maria