Secondo me, Giorgia Meloni non dovrebbe mai preoccuparsi degli epiteti che spesso i suoi detrattori le riservano e delle loro accuse più o meno velate di fascismo mai rimosso o superato, perché in realtà ella, da questo punto di vista, resta accomunata a un personaggio come Alcide De Gasperi, oggettivamente estraneo a qualunque compromissione col fascismo, ma definito appunto “fascista” da Palmiro Togliatti, a seguito della decisione della Democrazia Cristiana di rompere l’alleanza di governo con i comunisti e quindi di porre fine al governo di unità nazionale per dare vita ad una nuova fase, nota come centrista, di governo. Se De Gasperi e il suo partito poterono sopportare attacchi così ingiusti e ignobili, a maggior ragione l’attuale Presidente del Consiglio potrebbe considerare un grande motivo di onore personale il sentirsi accomunata oggi al destino di quello che molti giudicano come uno dei più grandi statisti della storia d’Italia e d’Europa. Certo, il sentirsi dare del fascista da figure sciatte e insignificanti come il letterato Scurati e molti esponenti attuali del Partito Democratico è molto meno significativo dell’offesa arrecata nel ’47 a De Gasperi da Togliatti e dal suo partito, ma il poter condividere con uno dei numi tutelari dell’Italia costituzionale e repubblicana lo stesso destino di persona vilipesa dagli avversari politici, è comunque un buon motivo per non demoralizzarsi e per continuare ad impegnarsi nel miglior modo possibile al servizio degli interessi nazionali.
D’altra parte, per una maggioranza becera di comunisti e progressisti italiani, ridottisi ormai ad essere “rivoluzionari” sul terreno assai scivoloso dei cosiddetti diritti civili e in totale allineamento ai moduli imperanti del pensiero “politicamente corretto”, ha sempre rappresentato un’infelice abitudine quella di etichettare spesso come fascisti tutti coloro che non fossero e non siano disposti a condividerne analisi critico-culturali e giudizi etico-politici, per cui Meloni, forte di una solida preparazione culturale e di un raffinato e realistico acume politico, farebbe bene a non dare troppa importanza al trambusto creato a bella posta da un esercito di individui frustrati e puerili, nel nome di un abusato antifascismo e finalizzato non già a migliorarne ma ad impedirne o ad affossarne l’azione e l’esperienza fin qui promettente di governo.
Per quale motivo bisognerebbe professarsi oggi antifascisti, senza se e senza ma, se l’antifascismo, di cui ex comunisti e loro odierni proseliti di incerta o indistinta fede politica rivendicano l’esclusiva titolarità, è troppo spesso un antifascismo di facciata e privo di una visione realmente democratica e virtuosamente competitiva di vita associata? D’altra parte, anche se lo storico del fascismo Emilio Gentile, di cui si tiene qui presente il recente libro Totalitarismo 100. Ritorno alla storia, Roma, Salerno Editrice, 2023, non concorda, penso avesse ragione Umberto Eco nel parlare di una teoria del “fascismo eterno”, benché già Croce lo avesse definito come “una malattia dello spirito” e, come tale, sempre riproducibile storicamente sia pure sotto forme diverse. Può accadere, in altri termini, e non di rado accade che ci si dichiari antifascista per meglio nascondere un’indole autoritaria e fascista, là dove peraltro è indubbio che chi si dichiari lucidamente fascista lo sia realmente, anche ove tenga una condotta irreprensibile di vita. Può darsi che un cattolico, un comunista, un credente o un ateo, uno spiritualista o un materialista, siano, sul piano comportamentale, addirittura più fascisti di uno che si professi fascista. Il fascismo, ancor più che una forma mentis, è una condotta di vita che non di rado viene esercitandosi in stridente contrasto con valori di tutt’altra natura pure professati con apparente trasporto. Le possibili facce di certe professioni di fede sono molteplici, donde appare ragionevole non prestarsi ad equivoche e maldestramente ingiuntive operazioni di identificazione politico-ideologica, non accondiscendere a preconcette e capziose sollecitazioni di tipo aggressivamente polemico.
Il significato e il valore etico-civile di certe parole non sono affatto indipendenti dall’uso che se ne viene facendo sul piano culturale e su quello del linguaggio comune, per cui è stolto pretendere che si faccia professione di antifascismo specialmente in un contesto storico-sociale in cui non trovino più diritto di cittadinanza princìpi ideali e valori morali dotati di un fondamento veritativo largamente riconosciuto e condiviso. Certo, sulla sua strada Giorgia Meloni, proprio in occasione di quest’ultimo 25 aprile 2024, trova un ulteriore e forse non inevitabile ostacolo proprio nel discorso del Capo dello Stato, che dovrebbe essere, sia pure secondo un rigoroso e franco spirito di verità, il Presidente di tutti e che invece talvolta, imitando il comportamento di chi lo ha preceduto nel suo stesso ruolo, non riesce ad assolvere perfettamente la sua funzione di rappresentante super partes dell’unità nazionale.
Nel suo recente discorso tenuto a Civitella in Val di Chiana per la celebrazione del 79° anniversario della Liberazione, Mattarella ha ricordato giustamente la barbarie, gli eccidi, le violenze e gli stupri non episodici, le abnormità ideologiche, i crimini di guerra e gli atti di viltà del fascismo, giungendo ad affermare che «l’8 settembre, con i vertici del Regno in fuga, fece precipitare il Paese nello sconforto e nel caos assoluto. Ma molti italiani non si piegarono al disonore. Scelsero la via del riscatto. Un riscatto morale, prima ancora che politico, che recuperava i valori occultati e calpestati dalla dittatura. La libertà, al posto dell’imposizione. La fraternità, al posto dell’odio razzista. La democrazia, al posto della sopraffazione. L’umanità, al posto della brutalità. La giustizia, al posto dell’arbitrio. La speranza, al posto della paura. Nasceva la Resistenza …», e per queste ragioni «il 25 aprile è, per l’Italia, una ricorrenza fondante: la festa della pace, della libertà ritrovata, e del ritorno nel novero delle nazioni democratiche. Quella pace e quella libertà, che – trovando radici nella resistenza di un popolo contro la barbarie nazifascista – hanno prodotto la Costituzione repubblicana, in cui tutti possono riconoscersi, e che rappresenta garanzia di democrazia e di giustizia, di saldo diniego di ogni forma o principio di autoritarismo o di totalitarismo».
Pensieri e parole assolutamente ineccepibili ma un Capo dello Stato realmente all’altezza del suo ruolo, e certo consapevole dell’odierno e surriscaldato clima di divisione politica e morale, avrebbe forse potuto e dovuto spendere una parola di pietà anche per gli sconfitti e i vinti dell’Italia successiva alla svolta dell’8 settembre, promossa da Togliatti ma astutamente suggerita da un tiranno come Stalin, non certo meno malvagio e spietato di Hitler e Mussolini, una parola di comprensione per i figli e i nipoti di quegli sconfitti, di quei vinti di allora, per le stesse forze politiche che ne discendono e a cui oggi il popolo sovrano, per mezzo di libere e democratiche elezioni, ha inteso consentire di salire ai vertici dello Stato e di governarlo.
Un discorso accorato ma anche retorico di pacificazione che veniva rivolto, il 24 giugno del 1943 a Roma in Campidoglio, ad un popolo dilaniato da una furiosa guerra civile; un appello, apparentemente nobile e intriso di vibrante senso etico, alla riconciliazione nazionale delle fazioni in lotta, erano stati quelli del filosofo Giovanni Gentile: ambedue, però, erano apparsi inopportuni, ambigui, contraddittori, ben poco pacificatori, come avrebbe dimostrato un successivo e acrimonioso articolo gentiliano, intitolato “Ricostruire” e pubblicato sul “Corriere della Sera” in data 28 dicembre 1943. Ma, dopo circa 80 anni dalla conclusione di quella drammatica stagione storica, la coscienza più nobile e nascosta del popolo italiano sperava che il Presidente Mattarella, trovasse il modo di svincolarsi coraggiosamente da certi luoghi comuni e ormai logori della cultura politica nazionale per richiamare l’attenzione del suo popolo sul fatto che la democrazia repubblicana, nata dalla lotta antifascista di molteplici forze politiche e culturali della società italiana e sancita dalla Costituzione, fosse principio non più inquisitivo e divisivo ma solidarmente unificante e collaborativo di vita nazionale, pur nel rapporto dialettico tra le sue varie componenti politico-culturali e nella distinzione di rigorosi ma variabili ruoli istituzionali. Peraltro, è tempo che si accantoni definitivamente quella speciosa argomentazione secondo cui non sarebbe proponibile una equivalenza tra crimini fascisti e crimini comunisti, in quanto, almeno in Italia, si osserva, il “partito nuovo” di Togliatti avrebbe imboccato stabilmente una via nazionale al socialismo, contribuendo in modo sostanziale alla costruzione della democrazia nel nostro Paese e restando in linea con i modelli di vita civile delle grandi democrazie occidentali.
Tutto ciò è vero, ma solo nel senso che Stalin e Togliatti capirono per tempo che nella situazione storico-politica italiana il partito comunista non avrebbe mai potuto conquistare il potere in modo violento bensì in modo graduale attraverso una preventiva alleanza con le forze politiche moderate e conservatrici che avevano partecipato alla liberazione dell’Italia dal fascismo e senza alterare i rapporti con il fronte anglo-americano, che era stato anch’esso decisivo, ai fini della vittoria contro il nazifascismo. Fu una fortuna, pertanto, per l’Italia e per lo stesso partito comunista italiano, che le cose andassero in un determinato modo, ma questo non deve far dimenticare che la patria d’elezione e di formazione politica di Togliatti era sempre stata, in modo stabile e consensuale, l’Unione Sovietica violenta, oppressiva e sanguinaria di Stalin, la quale avrebbe certo concorso alla sconfitta del nazifascismo ma solo per necessità, solo per difendersi dalla proditoria invasione-occupazione del suo territorio posta in essere dalle armate hitleriane e, in parte, mussoliniane. Non si dimentichi, infatti, che Stalin non aveva esitato a sottoscrivere cinicamente con Hitler, a Mosca il 23 agosto 1939, un patto di non aggressione, con tanto di reciproci accordi commerciali, e che solo la successiva, unilaterale e irrazionale violazione germanica di tale patto, avrebbe costretto poi i sovietici a reagire militarmente all’attacco nazista e a trovarsi, di fatto, alleati delle potenze occidentali.
Ma, per il resto, Togliatti aveva sempre condiviso, a differenza di Gramsci, tutti gli atti politici, ivi compresi quelli più perversi, oppressivi e crudeli verso oppositori reali o presunti, del gruppo dirigente e dittatoriale sovietico e, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel corso degli anni cinquanta, i comunisti italiani, in linea con le direttive di Togliatti e solo con qualche dignitosa eccezione, non avrebbero battuto ciglio in occasione della sanguinosa repressione sovietica della rivolta ungherese. Questi sono i duri fatti della storia che non consentono certo di sostenere che, al di là di un’apparente diversità dei programmi teorici e politici, nella struttura genetica del comunismo e del fascismo sussistano sostanziali differenze: uguale è la centralità riconosciuta alla violenza anche più spietata nella lotta politica, uguali sono i campi di concentramento, gli eccidi, le torture, gli stupri, le persecuzioni e le efferatezze di ogni genere che non possono non accomunare comunismo, nazismo e fascismo in un medesimo destino di distruzione, di inciviltà e di morte.
A questo bisogna aggiungere un’annotazione statistica particolarmente significativa: come ha ben dimostrato Gianluca Falanga nel suo libro Non si parla mai dei crimini del comunismo, Bari-Roma, Laterza, 2022, «il comunismo detiene … uno sconcertante primato tra le ideologie: è quella che ha fatto più vittime fra i propri sostenitori, che ne ha assassinati di più di quanto siano riusciti a fare i suoi avversari. Probabilmente è stato l’anarchico Michail Bakunin a intuire per primo che l’amministrazione del nuovo Stato avrebbe inevitabilmente comportato la creazione di una classe burocratica invadente e oppressiva ma anche i comunisti Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg avversarono il culto sovietico dello Stato e contestarono il potere assoluto del partito». E Rossana Rossanda, nel partecipare nel 1998 al dibattito scaturito dalla pubblicazione del Libro nero del comunismo edito a Parigi nel 1997 dall’editore francese Robert Laffont e curato dallo storico Stéphane Courtois, così scriveva ( I comunisti e l’Urss, in Sul libro nero del comunismo. Una discussione nella sinistra, Roma, Manifestolibri, 1998, pp. 15-16): «Sarebbe assai utile se da una parte si smettesse di appiattire il movimento comunista sui socialismi reali, e questi sulla repressione pura e semplice, ma dall’altra, la nostra, si ammettesse che non è possibile una separazione drastica. In altri termini, alla domanda: ma siete certi che da quell’idea non derivi necessariamente un totalitarismo, risponderei sicuramente di no. Ma alla luce della storia non posso dichiararla irricevibile». Come dire: tra il pensare e la pratica c’è quasi sempre un immenso divario. E il su citato Falanga osserva che quanto più nobili ed elevati sono gli intenti e gli orizzonti ideali di una determinata fede politica o religiosa tanto più inaccettabili e imperdonabili sono gli eventuali misfatti compiuti nel loro nome.
La storia del nazismo, del fascismo, del comunismo, è una storia impregnata del sangue innocente di molti milioni di esseri umani, costellata da crimini orribili e ingiustificabili e da oscene e delittuose menzogne, una storia in cui ogni tentativo di distinguere tra le ragioni dei neri e le ragioni dei rossi non può, a distanza di molti decenni, che apparire risibile e disonesto, ma è una storia che al suo interno contiene le storie di tanti uomini e donne dotati di esemplare integrità morale oppure di persone che, non sempre mossi da sentimenti di odio e di crudeltà, avrebbero fatto, per debolezza o per convinzione, scelte diverse o opposte, commettendo, su contrapposti versanti, non trascurabili errori e rendendosi in diversa misura complici di orribili misfatti. Anche la storia dei cristiani ha le sue ombre e, insieme, luminosi esempi di indefettibile coerenza morale e di ispirata azione politica.
Non si tratta di dimenticare o di razionalizzare colpe o manchevolezze del passato, tuttavia equamente presenti in tutte le aree ideologiche, politiche e religiose della storia della civiltà, e ancor meno si tratta di disconoscere differenze e specificità culturali e ideali sempre in vario modo utilizzabili nelle diverse stagioni del processo storico di sviluppo, ma solo di sottolineare come l’umano storico, per quanto coniugabile con forme anche molto divergenti di pensiero e con esperienze difformi di vita morale, sia sempre e comunque soggetto all’errore che costringe a pensare, a rimettersi in discussione, ad essere più tolleranti verso gli sbagli e le colpe altrui, al fine di rifondare di continuo, non solo istituzionalmente, ma culturalmente, moralmente e spiritualmente, la vita civile e preferibilmente democratica del genere umano. Chiunque può essere un fascista sotto mentite spoglie, ivi compreso l’antifascista dichiarato, e, per converso, il più rigido fascista, se dotato di capacità di discernimento e di sensibilità morale, può essere ancora capace di evolvere verso idealità effettivamente democratiche di vita e di governo.
Anch’io, come il rettore fiorentino dell’Università di Siena Tomaso Montanari, ritengo di esere un “cattolico radicale”, non lontano dal pensiero di don Lorenzo Milani, ma proprio per questo devo dire, con la parresìa che deve contraddistinguere il dire e l’agire dei cristiani, che spesso i giudizi politici di questo fratello di fede non mi sembrano condivisibili, soprattutto per il modo preconcetto, unilaterale e categorico, in cui vengono espressi, specialmente quando, avendo a che fare con questioni storiche e teoriche oggettivamente complesse e problematiche come sono il fascismo, la resistenza e il comunismo, egli, al di là delle sue personali e legittime opzioni politiche, tende a trattare tali questioni con una tale nettezza teorico-argomentativa, con una tale rigidità morale (che è altra cosa dal rigore o rigorismo etico), e in sostanza con un approccio spirituale così univoco e manicheo da perdere di vista che l’unica verità veramente indiscutibile e incontrovertibile è quella di Cristo, è Cristo stesso, che, com’è noto esorta i suoi seguaci ad amare anche i propri nemici, non solo soccorrendoli eventualmente anche sul piano materiale e morale ove possibile, ma riconoscendone, al di là di momenti troppo accesi di ravvicinata conflittualità personale, anche qualità, virtù, meriti, potenzialità umane ed etico-intellettuali insomma pur sempre suscettibili di essere finalizzate al perseguimento del bene comune.
In questo senso, Giorgia Meloni può essere percepita come nemico, come avversario che, dotato di un suo bagaglio culturale e politico, di un suo modo schietto ma equilibrato di agire nell’arena politica, dispone ancora di un largo riconoscimento e consenso popolari, ottenuti per via di una libera e democratica competizione elettorale, ma come avversario che, anche o proprio per questo, va rispettato e legittimato per le cose che dice e che fa e non anche per cose inconfessabili che sarebbero nel suo inconscio, dal momento che cose inconfessabili sono nell’inconscio di tutti. Don Milani scriveva che il cristiano deve «stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso ma chi mira basso» (Lettere del priore di Barbiana, Milano, Mondadori, 1970, p. 38) e, con tutti gli sforzi di sadismo che io riesca a fare, non mi pare proprio che Meloni, solo perché di destra, e non fascista come si continua in malafede a ripetere, stia mirando basso e meriti perciò di essere crudelmente sfottuta. Né ella è tenuta ad obbedire alle oltraggiose e ricattatorie ingiunzioni psicologiche di tanta stampa e di tanto diffuso fariseismo ideologico, perché a lei, come ad ogni essere umano, si deve cristianamente riconoscere, come direbbe ancora don Milani, la sovranità delle proprie idee, convinzioni e azioni, donde la necessità morale che ella non abbia a cedere alla «più subdola delle tentazioni» (L’obbedienza non è più una virtù, Firenze, LEF, 1969, pag. 51), che è quella di obbedire alle false ed ipocrite esigenze del mondo.
Francesco di Maria