Molte sono le fandonie che si dicono nel nome della democrazia. Una delle più antiche e fuorvianti è connessa alla duplice e contrapposta pretesa per cui da una parte la democrazia dovrebbe porre al centro delle sue politiche soprattutto l’individuo con i suoi molteplici diritti ad esprimersi liberamente in ogni ambito della vita civile, ad affermarsi socialmente se produttivo nell’ambito della sua attività lavorativa e professionale, ad acquisire ricchezza senza eccessivi intralci fiscali, a veder bene rappresentati i suoi interessi in sede politico-parlamentare, dall’altra essa dovrebbe fare invece delle oggettive necessità materiali e morali dei ceti non abbienti, di improrogabili istanze di eguaglianza e giustizia sociali, di livellamento economico verso il basso anche a scapito di individualità particolarmente capaci e meritevoli, il vero perno della sua attività di governo.
Da una parte, il presupposto da cui si muove tendenzialmente è che l’individuo conti sempre più delle masse e dall’altra invece il presupposto implicitamente adottato è che in democrazia tutti debbano essere eguali in tutto. La democrazia, cosí, in ambedue i casi, assume connotati di unilateralità non certo disinteressata e spesso anche di accesa faziosità che, riflettendosi o proiettandosi senza adeguate mediazioni sul piano politico e/o governativo, non può che determinare poi, e periodicamente, reali e dannosi squilibri e anomalie piuttosto vistose nella vita economica ed etico-civile di una società. Il problema, dovendo ormai essere a tutti evidente che gli esseri umani, quali che sia la loro origine o estrazione sociale, sono al tempo stesso uguali e diversi, sarebbe in realtà quello di chiedersi come sia possibile coniugare il motivo individuale e libertario con quello comunitario ed egualitario nella prospettiva di una efficiente massimizzazione della complessiva tenuta economica e produttiva dell’intera società.
La democrazia, per quanto sgangherata possa essere sotto diversi aspetti, può considerarsi ancora accettabile e non irrimediabilmente fallimentare (e, d’altra parte, sarebbe forse illusorio chiedere di più!), se, di volta in volta, e a seconda delle mutevoli contingenze storiche, vengano messi in campo provvedimenti governativi talmente capaci di non sacrificare né l’istanza individualistica, né l’istanza collettivistica, ambedue essenziali ad un sano ed equilibrato mantenimento del sistema democratico, indipendentemente dai suoi specifici assetti istituzionali.
La democrazia continua ad aver senso solo dove in effetti essa non sia già diventata il secondo nome dell’esaltazione della mediocrità sociale o mediocrazia, del livellamento di massa e del ripiego in ciò che appaia il meno peggio, o, al contrario, dell’esaltazione del singolo “emergente” ma privo di vere capacità e meriti sociali ovvero utilizzabili anche socialmente oppure di referenze o titoli professionali in quanto tali e non in quanto indicativi di opere e meriti realmente significativi, del profitto senza limiti e senza ritorni socialmente utili né a breve né a medio termine, e infine di apparenti “ingegni” visibili sul piano mediatico piuttosto che di più reali “ingegni” mediaticamente marginali o addirittura invisibili.
Democrazia non c’è se si tenda a mortificare deliberatamente le spighe più alte di una società, che non potranno mai essere dedite né a retoriche populiste né a retoriche tecnocratiche né a retoriche nazionaliste né a retoriche internazionaliste, nella velleitaria speranza di far crescere sane e robuste, a colpi di soluzioni demagogiche, le innumerevoli spighe più basse. Ma democrazia non c’è anche ove, con la scusa di voler favorire le cosiddette “eccellenze” in tutti i campi della vita culturale e artistica, economica e sociale, si venga perseguendo un progetto iniquo e nient’affatto produttivo di azzeramento o di estremo contenimento della spesa sociale nel suo insieme.
Di certo vi è anche, in senso generale, che una democrazia sarebbe senza dubbio non solo ingiusta ma molto pericolosa se si basasse sulla pretesa che debba essere perseguita un’eguaglianza dei diseguali e che il potere emanato dal popolo possa essere gestito per mezzo del popolo senza alcuna mediazione istituzionale e parlamentare e in funzione degli stessi interessi popolari. Questa è la via che porterebbe, e che storicamente ha spesso portato, alla dittatura della maggioranza e di una maggioranza generalmente ben poco qualificata. Se il comando del popolo comincia ad essere inteso o percepito opzionalmente nella coscienza pubblica quale comando diretto e incontrollato della moltitudine (olocrazia), si può esser certi di trovarsi già sulla via che conduce sostanzialmente all’affermazione di quella volontà generale di fanatico stampo “giacobino” da cui non potrebbe derivare se non un periodo di dura e disastrosa tirannide, sebbene formalmente la democrazia sia proprio un metodo volto a limitare l’esercizio del potere e quindi la permanenza temporale al potere di qualunque gruppo politico.
Il liberaldemocratico Giovanni Sartori, già diversi decenni or sono, osservava che la democrazia contemporanea ha finito per significare tutto ed il contrario di tutto e non meno tagliente era il giudizio del filosofo marxista Antonio Banfi che, con amara ironia, precisava che la democrazia non è «quel cortile, in cui tutti gli asini sono autorizzati a ragliare» (citato in “Il Giornale”, 7 agosto 1987, p. 3). Che, purtroppo, è proprio quello che accade in modo sempre più disinvolto nell’odierna democrazia italiana. Più si abbassa il livello formativo, ideativo e critico-elaborativo, nonché di genuina cultura governativa degli attori politici, a prescindere dalle “fedi” genericamente strombazzate a destra e a manca dalla maggior parte di essi, più la democrazia si trasforma in quel chiassoso e caotico “cortile” banfiano, anticamera spesso inevitabile di ben più cupi e restrittivi recinti.