Immagini della fede e mitezza evangelica*

*In questo scritto è incluso il breve articolo del 7 marzo 2025, intitolato “La fede tra arte religiosa e arte tout court”, che pertanto non comparirà più come articolo a sé stante

Mosé e il roveto ardente

La fede medievale celebra la grandiosità del divino: basti pensare allo straordinario fervore artistico che si sarebbe manifestato tra l’XI e il XIV secolo, alle gloriose cattedrali, alle imponenti e solenne  chiese abbaziali e romaniche progettate e costruite dai monaci occidentali, e da essi concepite soprattutto per esprimere e rappresentare il tema più sentito di quelle epoche, vale a dire quello del Cristo come giudice universale, come sovrano onnipotente, giusto e misericordioso, circondato dai santi e dai beati dell’Apocalisse e pronto a dispensare eterna beatitudine o eterna dannazione. Alle cattedrali romaniche si sarebbero aggiunte, tra XII e XIII secolo, quelle gotiche, più slanciate verticalmente e più luminose, e la maggiore altezza dello spazio interno delle cattedrali veniva a fungere da sprone alla preghiera dei fedeli, essendo essa stessa espressione di composta ed estatica preghiera, e da traduzione architettonica di struggente anelito delle anime verso Dio. Di tutta questa grandiosa e suggestiva spiritualità partecipava l’intera comunità cristiana e civile, con i suoi potenti e i suoi umili popolani, con i suoi dotti e i suoi molti incolti, che però erano tutti indistintamente istruiti nella fede. Ma le cattedrali gotiche erano particolarmente ricche di un’arte figurativa dedita ad illustrare sapientemente e realisticamente gli episodi evangelici, dalla nascita alla glorificazione di Cristo risorto, tra cui in particolare quelli legati alla Passione di Cristo che favorivano e acuivano enormemente la percezione della sua umanità e della particolare vicinanza di Dio alla condizione di sofferenza delle sue creature. Molto ricorrenti erano anche le immagini della santissima vergine Maria, rappresentata come sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa, e privilegiata compartecipe della gloria di Dio.

Quell’arte, insomma, erano un modo e un mezzo oltremodo preziosi ed efficaci per rendere visibile l’invisibile e per veicolare plasticamente il senso inesprimibile del sacro. Non ci sarebbe mai stata, nella storia dell’uomo, arte più espressiva, più comunicativa e affascinante di quella che in quei tempi venne a cimentarsi con sorprendente e indimenticabile successo nella rappresentazione della bellezza eterna di Dio. Tutto questo veniva raccontato magistralmente da papa Benedetto XVI che, a chiusura dell’udienza generale di mercoledì 18 novembre 2009, citava un magnifico e toccante pensiero di sant’Agostino: «Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?» (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134)1.

Il mondo storico è sempre stato pieno di immagini idolatriche e non idolatriche. La lotta iconoclastica sotto il regno bizantino di Leone III, nell’VIII secolo, era stata diretta anche contro la costruzione e il possesso di immagini del Dio cristiano e dei santi, e successivamente sarebbero stati gli islamici a perseguitare violentemente tutti coloro che, specialmente nell’Occidente europeo, avessero coltivato il culto delle immagini che, nel caso dei cristiani, sarebbe stato praticamente impossibile non coltivare per il semplice fatto che, se anche ne fossero stati impediti fisicamente o materialmente, essi non avrebbero potuto fare a meno di adorare, sia pure solo spiritualmente, l’immagine vera e non idolatrica di Dio, per aver avuto concreta e innegabile esperienza della divinità nella persona e nella figura storica di Cristo. Dunque, per i cristiani, qualsiasi altra immagine religiosa si sarebbe potuta ritenere idolatrica e degna di essere avversata, tranne che quella relativa a Cristo e ai suoi santi apostoli, noti o meno noti che fossero. Pertanto, parlare delle immagini della fede cristiana, si sarebbe venuto imponendo, nella Chiesa e nell’intera comunità cristiana, come salutare abitudine di rendere onore al vero Dio non solo rispetto a false divinità perversamente adorate nel mondo, ma anche alle rappresentazioni arbitrarie o comunque erronee che avrebbero preso a circolare sempre più frequentemente tra tutti coloro che, sia pure a diverso titolo, rivendicavano la loro appartenenza alla Chiesa di Cristo. Difensore convinto del valore pedagogico e morale delle immagini in ordine alle credenze di fede, sarebbe stato Giovanni Damasceno, ultimo grande padre della Chiesa greca. Nelle sue orazioni contro i calunniatori delle immagini2, il grande teologo dell’oriente cristiano spiega che «ciò che è il libro per quanti sono esperti nelle lettere dell’alfabeto, è l’immagine per gli analfabeti; e ciò che è la parola per l’udito, è l’immagine per la vista»3. Peraltro, egli notava come, pur prive di importanza e non meritevoli di venerazione in se stesse, le cose materiali come le immagini per l’appunto, meritino di essere certamente venerate se esse esprimano un fedele riflesso della divinità e siano quindi partecipi della stessa grazia divina4.

Da quel momento storico in avanti si può comunque dire che l’immagine sarebbe venuta assumendo un significato ambiguo e molto problematico anche in sede filosofica, perché, a seconda che essa fosse riferita al vero Dio rivelatosi storicamente in Cristo oppure a divinità prive di inoppugnabili riscontri storici, ad essa si sarebbe riconosciuta la funzione di conoscere e glorificare ancor più profondamente Dio oppure di deformare l’identità divina e di renderne quindi più difficile la conoscenza. D’altra parte, già Platone e Aristotele avevano anticipato questa dicotomia di significati, quando il primo riteneva conoscitivamente fuorviante il ricorso ad immagini per rappresentare la verità, mentre il secondo lo riteneva idoneo a renderne più nitidi i contorni e a meglio focalizzarne il significato. Nel corso dei secoli non solo le immagini dell’arte figurativa ma le stesse immagini che il pensiero filosofico sarebbe venuto elaborando della fede nel Dio evangelico e cristiano, sarebbero venute di volta in volta assolvendo la funzione di inverare i contenuti della fede oppure di comprometterne l’originalità e la veridicità. Questo sarebbe sempre accaduto: nell’età più antica ovvero quella delle origini del cristianesimo, nel medioevo e nell’era moderna e contemporanea. Le immagini, aventi funzioni rappresentativa ed esplicativa, sarebbero state invece aprioristicamente respinte dalle altre due religioni monoteistiche, ebraismo e islamismo che, non potendo vantare il Dio rivelato del cristianesimo, avrebbero ritenuto impossibile addentrarsi speculativamente nello spazio conoscitivo riservato alla reale e misteriosa fisionomia dell’essere divino5.

Le immagini della fede rivelata muovono tutte dal presupposto che al vero volto di Dio possa accedersi non per via razionale ma fidando in modo esclusivamente intuitivo sui contenuti della rivelazione. Tuttavia, pur accomunate da tale presupposto, esse vengono differenziandosi per le diverse modalità interpretative di approccio a quest’ultima e per le differenti forme di pratica religiosa che ne conseguono. In tal modo, pur apparentemente unito in Cristo, il mondo cristiano è in realtà profondamente diviso a causa di Cristo e questo significa che alcuni suoi organismi o articolazioni confessionali non abbiano saputo leggere o cogliere con sufficiente attenzione le implicazioni contenute in quel presupposto né intendere correttamente il senso più profondo della narrazione evangelica e dello stesso insegnamento di Cristo. Sin dal suo sorgere, la definizione dogmatica della fede cristiana non nasce univocamente sulla base di un approccio razionale o fideistico ai dati costitutivi della fede ma consegue ad un processo storico, teologico ed ermeneutico molto più ampio e complesso della fede nascente, in modo tale che «la storia dei dogmi è fatta dall’incontro del dato evangelico e della regola della fede con l’incessante interrogazione che emerge, di epoca in epoca, dalla coscienza e dalla ragione umana»6. Sin dalle sue origini, la fede sarebbe stata così percepita in modi diversi, in contesti storico-sociali diversi e con sensibilità diverse, e del vissuto di Gesù e della fede trinitaria come dell’annuncio salvifico sarebbero stati evidenziati di volta in volta aspetti diversi o accentuati alcuni aspetti piuttosto che altri, senza che però la molteplicità di punti di vista e contributi implicasse, il più delle volte, la loro contraddittorietà o incompatibilità. E anzi, proprio al fine di raggiungere o stabilire princìpi unificanti e di eliminare errori inavvertitamente introdotti nelle diverse testimonianze di fede, si avviavano lunghi e laboriosi processi di rielaborazione della fede, noti come processi di transizione dall’annuncio o kerygma al dogma, al termine dei quali fosse possibile risolvere una volta per tutte, in via appunto dogmatica, tutte le questioni sollevate su un determinato tema. In tal senso, dunque, il dogma, lungi dal corrispondere ad una decisione teologica definitoria, presa in modo estemporaneo o solo per ragioni di opportunità temporale, veniva a configurarsi come esito di un accurato e rigoroso lavoro comunitario di lavoro, di ricerca e di confronto, talvolta anche molto animato e persino esasperato ma in ogni caso svolto secondo princìpi riconosciuti di autorevolezza, integrità, equanimità.

Se tali iniziative comunitarie risultarono particolarmente vivaci e significative soprattutto nei primi secoli di storia cristiana, quando ancora molto viva e avvertita era la memoria di Cristo, esse avrebbero continuato a caratterizzare anche in seguito la prassi della Chiesa e lo specifico iter dei suoi più impegnativi pronunciamenti, anche se, nel tempo, il principio di collegialità, nell’ambito delle più vincolanti decisioni dogmatiche, sarebbe venuto gradualmente attenuandosi a tutto vantaggio dell’autorità spirituale pontificia e del relativo primato decisionale. E, poiché la Chiesa non crea la verità pur avendo il solenne compito di custodirla e approfondirla incessantemente, l’istinto soggettivo della fede deve interagire con l’insieme oggettivo di verità, costumi, riti e comportamenti su cui la Chiesa viene accordandosi: ecco perché la tradizione riveste una fondamentale importanza nella storia della Chiesa e non può che essere vincolante soprattutto per il papa di turno. E’ la tradizione sempre viva della Chiesa, non i singoli papi, a consentire di accedere al senso più veritiero del vangelo e alle implicite e ancora inespresse potenzialità esplicative del suo messaggio salvifico, come attestano antichi e autorevoli della Chiesa antica quali Ireneo di Lione, Tertulliano, Cirillo di Gerusalemme, Giustino e Agostino7. La missione della Chiesa consiste nel custodire e trasmettere fedelmente il buon deposito nel quale trova fondamento la sana dottrina della fede.

Questa immagine della fede come depositum non è casuale ma presa deliberatamente in prestito dal diritto romano e quindi rappresentativa di una forma di contratto oltremodo vincolante, perché conformemente ad esso il depositario assumeva l’impegno di conservare integro l’oggetto a lui affidato e di riconsegnarlo al proprietario in qualunque momento questi l’avesse richiesto. Da notare che, in caso di depositario disonesto o infedele, che avesse usato arbitrariamente il deposito, il contratto prevedeva che egli fosse considerato come un ladro meritevole di essere severamente punito. Ma pare che la memoria di questa antica clausola del contratto in parola non sempre sia stata rispettata integralmente nel corso della storia della Chiesa sulla quale lo Spirito è sempre presente e non fa mancare le sue sollecitazioni e i suoi suggerimenti, che però non sempre vengono accolti o posti fedelmente in essere in particolare da parte dei suoi più autorevoli rappresentanti. La fede agisce nel mondo storico-sociale ma, se da una parte, interagisce con le realtà virtualmente positive da esso o in esso prodotte, dall’altra resiste, in virtù delle sue origini sovrannaturali e del suo immutabile valore veritativo, ai suoi condizionamenti fallaci e corruttivi. I linguaggi culturali del tempo con cui viene a contatto fanno sì che la fede venga costantemente ripensata con la conseguente ricerca di nuove categorie di pensiero e di forme linguistiche e comunicative sempre più idonee a trasmettere antiche e immutabili verità agli interlocutori di generazioni storicamente e culturalmente sempre diverse8.  

Peraltro, non c’è una fede appannaggio delle persone istruite e colte piuttosto che dei semplici o degli incolti, ma un’unica fede universale che si presta, di volta in volta, ad essere trasmessa attraverso diverse modalità comunicative e che tuttavia può essere intesa correttamente solo dai semplici, cioè da quanti, indipendentemente dal proprio particolare stato culturale, si pongano in umile e attento ascolto della Parola di Dio. Né si danno idee e valori, orientamenti mentali e stili di vita talmente lontani da quelli evangelici, da risultare preclusivi alla possibilità di acquisire le verità cristiane e convertirsi ad esse. In tal senso, benché la verità della fede sia intrinsecamente divisiva in rapporto al problema degli atteggiamenti teorico-pratici che vengono assumendosi di fronte al mondo, essa non discrimina le culture e le tradizioni religiose in buone e cattive, per il semplice fatto che il Cristo e la sua verità possono essere raggiunti da chiunque, pur muovendo da determinati presupposti e punti di vista, si mostri sinceramente interessato al problema della verità e ne cerchi continuamente la via più solida e sicura. Questo diceva il filosofo Giustino del II secolo che precisava essere presente il Logos divino in ogni uomo. E Clemente, altro padre della prima Patristica, nel farsi fautore d’incontro e di dialogo tra cristianesimo e le diverse culture, pensava non si dovesse ostentare la superiorità della rivelazione cristiana rispetto ad altre fedi filosofiche o religiose, e in particolare sulla cultura greca, ma semplicemente proporla all’ascolto e all’attenzione di tutte le culture altre come termine di paragone e di confronto ai fini di un cammino filosoficamente consapevole e quanto più possibile sicuro e illuminato verso la verità del mondo e della vita9. E quello espresso da Clemente avrebbe poi costituito sostanzialmente, sia pure tra formulazioni diverse, il principio filosofico e teologico portante della Chiesa di tutti i tempi e in mezzo a tutti i popoli e le culture del mondo.

Va altresì, e per converso, specificato che tutte le eresie e le forme piccole o grandi di eterodossia cristiana che avrebbero preso corpo nel corso dei due successivi millenni e, più specificamente, nell’età moderna e contemporanea, sono già virtualmente presenti nelle divergenze dottrinarie che ruotano attorno al magistero centrale della Chiesa dei primi secoli: si pensi ad ebioniti e doceti, adozionisti e gnostici, monarchiani radicali e apollinaristi, subordinazionisti e modalisti, sabelliani e patripassiani, pneumatomachi e ariani, monofisiti e monoteliti, montanisti, nestoriani e pelagiani. Nell’ipertrofica proliferazione di tutte queste dottrine eterodosse intorno a temi centrali e costitutivi della fede cristiana, già nei primi secoli della sua storia, sono da ritrovare tanto le motivazioni storico-teologiche di quella lunga e spesso drammatica e convulsa serie di incontri, confronti, scontri, da cui sarebbero spesso scaturite fondamentali definizioni dogmatiche di fede, quanto le radici di tutti i movimenti ereticali e gli orientamenti eterodossi che avrebbero visto la luce nei secoli successivi accanto agli sviluppi dogmatici del credo ufficiale e in competizione con l’esegesi dottrinaria e teologica del magistero riconosciuto della Chiesa. Ancora oggi, o oggi più che mai, si può assistere, soprattutto nel quadro della cultura religiosa e dello stesso sapere laico occidentale, ad un pullulare di elaborazioni filosofiche e teologiche che, sebbene formalmente ammodernate e sofisticate, sembrano spesso ricalcare gli schemi interpretativi di quelle antiche eresie o porsi rispetto ad essi in un rapporto di sostanziale continuità10.

Da una parte, la persistente esistenza di un panorama così ampio e variegato di posizioni teologiche sul significato di questioni nodali della religione cristiana si può spiegare col fatto che il Logos divino nella storia si presta indubbiamente ad essere percepito in modi soggettivi e da punti di vista diversi e anche in relazione a diversi ambiti o aree disciplinari di interesse; dall’altra, la natura simbolica di Dio e il rapporto oltremodo complesso ed eccedente le possibilità di comprensione razionale tra un Dio unico e unitario che venga però articolandosi in senso trinitario e la struttura trinitaria di Dio che però sia interna e costitutiva di un solo e vero Dio, lo stesso principio di un Logos divino incarnato che venga rivelandosi storicamente, sembrano per un verso giustificare il pluralismo teologico ma per un altro verso giustificare il tentativo dogmatico-ecclesiale di rilevarne oggettivi sconfinamenti esegetici e palesi incongruenze teologico-dottrinarie. Specialmente nell’odierno mondo globalizzato sarebbe strano che dalla comunità cristiana, per quanto ormai tendenzialmente minoritaria da un punto di vista egemonico, non si levassero voci di accorata e competente denuncia di un supermercato delle credenze e di un bricolage religioso abbastanza effimero, insignificante ed esistenzialmente irrilevante. Quando le voci sul religioso e sul divino sono troppe e discordanti, vuol dire che il divino rimane senza una voce sicura e autorevole che ne definisca i veri e originali tratti costitutivi. Di qui la necessità storico-teologica che la Chiesa si faccia ogni volta voce sicura e autorevole e capace di evitare o arginare gli estremi dell’esclusivismo o del pluralismo11.

Le diverse immagini che storicamente si vengono proponendo di Dio possono certo amplificarne la potenza e la volontà salvifiche ma possono anche compromettere e offuscare il senso soteriologico-escatologico della sua incarnazione e del suo sacrificio terreno. Il finalismo teleologico del divino può essere utile solo nella misura in cui esso converga sulla speranza di poter accedere ad un mondo radicalmente altro da quello storico-mondano in cui pure si tratti di operare virtuosamente e anzi caritatevolmente per raggiungerlo. In tal senso, non è sufficiente che le religioni siano, ognuno a suo modo, segno della pienezza o della totalità divine, ma è necessario che esse evolvano rapidamente verso l’umile riconoscimento di quella pienezza e di quella totalità facendone esplicita professione di fede. Che poi l’esclusivismo magisteriale della Chiesa possa degenerare in manifestazioni di chiusura non tanto dogmatica quanto fanatica e in eccessi di violento e superstizioso autoritarismo, è di certo vero, e non si può negare che ciò sia talvolta accaduto nella sua storia12. La Chiesa cattolica non può né ignorare, né evitare una realtà spirituale e religiosa sempre più complessa, articolata e non di rado anche sfuggente, ma proprio in questa realtà essa ha il compito di riscoprire coraggiosamente la sua identità missionaria e rinnovare o radicalizzare la sua specifica attività evangelizzatrice13.

D’altra parte, al di là del perimetro religioso-teologico strettamente cristiano e di quello più ampiamente monoteistico,  immagini distorte del cristianesimo ne sono state sempre date più o meno deliberatamente: c’è chi lo ha ridotto ad una religione consolatoria ed assistenziale, all’oppio per i poveri molto prima che lo dicesse Marx, ad una ghiotta opportunità di fare una comoda e agiata carriera ecclesiastica, ad una religione invidiosa e oppressiva nei confronti di ricchi e potenti e di gente molto fortunata, ad una amplificazione patologica dei desideri repressi degli uomini. C’è chi ha sostenuto che i fondatori del Cristianesimo (semplici esseri umani come tutti) avrebbero creato un’immagine di Dio corrispondente ai bisogni e alla mentalità del loro tempo, quindi una fede senza reale trascendenza e al cui centro, al posto di Dio, veniva ad essere collocato in realtà l’io umano. Ma resta pur vero che un Dio disposto a farsi mangiare e stritolare, prima esistenzialmente poi eucaristicamente, non può che liberare dalle false immagini di Dio14. Sì, ma in che modo esattamente noi possiamo declinare questa figura divina di servo sofferente che si offre in pasto, è il caso di dire, ad esseri umani affamati di amore, di giustizia e di pace, in rappresentazioni filosofiche e teologiche coincidenti esattamente con l’immagine stessa di Dio data dal Cristo?

Il problema riguarda sia il credente e il cristiano, sia il non credente o l’ateo, nel senso che la domanda provocatoria che spesso viene spontaneo rivolgere ai primi, ovvero: sei sicuro che Dio corrisponda a quel che credi e al tuo modo di credere?, vale anche per i secondi, vale a dire: sei sicuro che il Dio da te negato corrisponda a quello cui dici di non credere e alla tua condotta pratica? Anche i cristiani più ortodossi possono coltivare immagini distorte di Dio, non meno di tanti convinti non credenti capaci talvolta di pensieri e atti nobilissimi che potrebbero risultare graditi al Dio paterno, misericordioso e giusto descritto nei vangeli. Chi ne ha più facoltà di altri, presbiteri, monaci, teologi, cultori delle Sacre Scritture, operatori di pace e missionari dediti a particolari opere umanitarie e assistenziali, ma poi anche quei semplici credenti in Cristo che cercano di testimoniarne la presenza nella vita di tutti i giorni e nei propri ambiti di vita, sia pure non senza sbavature comportamentali e insufficienze morali, dovrebbero aiutare, con discrezione e senza atteggiamenti o toni predicatori, il loro prossimo, credente o non credente che possa essere, a percorrere una via di liberazione da immagini negative e malsane che abbiano potuto incidere negativamente sulla loro vita15. Bisogna altresì stare attenti a non confondere l’immagine in quanto icona, che evoca mentalmente una realtà sovrannaturale riconosciuta come tale nei sacri testi, con l’immagine in quanto idolo, che rappresenta in modo errato o addirittura sacrilego la gloria divina16. Altro è l’immagine come sacramento del Regno sovrastorico di Dio, altro l’immagine come rappresentazione adorante di questo mondo o di pseudovalori storico-mondani; altro le immagini come riflesso della verità, della sacralità, del mistero che avvolge il mondo e la vita, altro le immagini che celebrano o tendono a divinizzare la realtà esistente. Oggi, mentre la vita cristiana finisce ai margini del mondo faticando molto a capire quel che vi accade, subisce l’impero di immagini quasi esclusivamente pagane e molto più difficilmente che in passato si mostra capace di procurarsi l’aiuto delle arti17.

Si vive in un mondo in cui vero e falso, onestà e corruzione, bello e brutto, sacro e profano, tendono a confondersi e ad apparire sovrapponibili o equivalenti, e in cui tra il vedere e il sentire che fa pensare e la contemplazione e l’ascolto di scene e suoni indistinti e disarticolati sembra non sussistere più alcuna differenza di valore, indipendentemente dal fatto che l’immaginario cristiano ortodosso orientale sia rimasto teologicamente più pregnante dell’immaginario cristiano occidentale18. Si vive in un’epoca in cui appaiono in forte declino antiche virtù, anche se mai maggioritarie nel mondo, quali il discernimento, il senso dell’universalità, la forza imperativa dell’interiorità, direi la mitezza del pensare e del vivere. Ecco, la mitezza, che nella società contemporanea viene spesso concepita come sintomo o indizio di passività, debolezza e mancanza di coraggio. In realtà, il mite, specialmente da un punto di vista evangelico, è il giusto, è colui che ha ricevuto in dono uno spirito di giustizia, e dunque è anche colui che è paziente in quanto non chiede o non pretende nulla per sé perché sempre si dispone ad esser soggetto alla volontà di Dio, colui che non mormora e non si ribella al Signore ma si mette umilmente nelle sue mani. Se il mite è il giusto, è evidente che egli, nonostante le letture distorte o banali che spesso se ne danno, non possa né compiacersi del male né essere indifferente alle tante iniquità del mondo. Al contrario di come spesso viene rappresentato, il mite-giusto, sempre caritatevolmente dalla parte dei deboli e degli oppressi, non mancherà di stigmatizzare profeticamente comportamenti personali e sociali di peccato e strutture arbitrarie o violente di potere politico ed economico, talvolta ricorrendo anche ad una “giusta ira”, che è poi quella cui ricorse Gesù in modo clamoroso per cacciare i mercanti dal tempio e quindi per preservare la purezza della fede, l’immagine pulita della fede, da vili interessi economici o finanziari. La mitezza dunque, secondo il vangelo su questo punto in linea con l’Etica nicomachea di Aristotele, non va disgiunta dal coraggio ma fa tutt’uno con esso.

Questo è quanto veniva felicemente chiarendo e precisando lo storico della filosofia Remo Bodei in un suo volume scritto insieme a Sergio Givone19. La mitezza in senso proprio, argomenta Bodei, va intesa, per l’appunto in termini aristotelici, come giusto mezzo tra l’iracondia – ovvero la tendenza sistematica o l’inclinazione priva di contrappesi a lasciarsi prendere o travolgere dall’ira, dalla collera o dalla rabbia, sino a trasformarsi ogni volta in incontrollato desiderio di vendetta anche violenta per un torto o un danno ricevuto o subíto – e l’eccessiva calma o flemma, ovvero una pazienza o un distacco psicologico e spirituale talmente accentuato dalle cose o dai fatti della vita da poter sfociare persino nell’indifferenza e nell’ignavia. I cristiani, pertanto, quando parlano di mitezza, di misericordia, di non violenza, devono stare per primi molto attenti a non equivocare il senso di questi fondamentali concetti evangelici. L’ira, se diretta verso un male da contrastare o una tentazione da respingere, sia per ciò che riguarda la propria persona sia per ciò che si riferisce alla comunità di cui si fa parte, è uno strumento di Dio. Il mite non è cristianamente colui che si lascia sopraffare, che accetta l’ingiustizia o la violenza altrui senza reagire: ancora una volta è proprio Gesù a darne conferma allorché al soldato che lo schiaffeggia chiede non certo con il sorriso sulle labbra: “perché mi percuoti”? Essere miti è ben altra cosa dal sottostare vigliaccamente o pavidamente a qualsiasi tipo di sopruso e quindi dall’aver paura di reagire: è infatti la capacità spirituale di stringere i denti, di difendersi quanto più possibile in modo non violento o non vendicativo, anche quando il desiderio istintivo di dare un pugno in faccia a chi sta offendendo la nostra incolumità o la nostra dignità rischia di diventare incontrollabile20.

Il mite è colui che sa rispettare come un fratello anche chi sbaglia ma questo non implica che egli debba giustificare l’errore in quanto tale o essere permissivo verso condotte peccaminose proprie o altrui. Il mite è soprattutto colui che, pur disponendo della opportunità o della forza di annientare un avversario malvagio o in malafede, non infierisce su di lui; è colui che, pur potendo colpire non colpisce ma cerca altre soluzioni; è colui che nei rapporti interpersonali si sforza sempre di perdonare chi attenta alla sua vita o alla sua onorabilità ed affida la sua causa al Signore, o che nei rapporti politici ed internazionali non si stanca di fare uso del dialogo e della diplomazia; è anche colui che combatte contro le immagini inequivocabilmente false di Dio, contro le immagini oscene e blasfeme del mondo con la forza di chi confida solo nel benevolo sguardo di Dio e nella invisibile e carismatica potenza trasformatrice dei suoi doni. Ecco: è questo l’uomo mite che “erediterà la terra”, non che conquisterà ma che riceverà la terra in eredità come dono di Dio 21.      

Benché possa essere caratterialmente collerico, l’uomo mite è colui che si sforza incessantemente di moderare i suoi impulsi, i suoi scatti di nervi, i suoi sfoghi, per amore del prossimo e di Dio. San Paolo, cui avvenne di essere collerico in più di un’occasione (At 15, 39) riconosce e consiglia saggiamente che, persino nei casi in cui si è deliberatamente presi di mira, non bisogna farsi giustizia da soli, che l’ira è di Dio e non dell’uomo e che l’uomo è tenuto a rintuzzarla in sé continuamente perché sta scritto: “a me la vendetta, io darò la giusta paga, dice il Signore” (Rm 12,19). Anche quando in prima persona, come testimoni sia pure indegni della fede in Dio, si è presi di mira da rappresentazioni fallaci e mistificanti della natura umana e dei suoi più stringenti bisogni esistenziali, bisogna essere sempre pronti a raffreddare l’ira per gli effetti che esse possano produrre sul proprio io, mentre per i danni che possano derivarne per l’altrui privato o per il pubblico, è del tutto legittimo e in taluni casi necessario partecipare alla “santa ira” di Dio: si pensi all’ira di Mosé contro il suo popolo per essersi costruito il vitello d’oro sul monte Oreb (Es 32, 19-22) o ai fremiti di sdegno provati da san Paolo ad Atene nel vedere “la città piena di idoli” (At 17,16). Al cospetto di tali e simili forme di peccato e di idolatria, come recita Geremia, gli uomini di Dio devono essere “ripieni dell’ira di Jahvé” (Ger 6, 11 e 15, 17).

Il Vangelo recepisce il ragionamento aristotelico dell’Etica a Nicomaco: quello per cui, di contro alla facilità con cui ci si può arrabbiare, bisogna impegnarsi spiritualmente perché ci si arrabbi innanzitutto con la persona giusta, nella giusta misura, al momento giusto e per una giusta causa. E se è vero che la tradizione della Chiesa considera l’ira come il quarto dei sette vizi capitali, è altresì vero che san Gregorio Magno tende ad essere molto più comprensivo verso l’ira per zelo che non verso l’ira per vizio22. L’ira è un peccato grave quando scade nell’animalità con la violenza inarginabile delle parole e dei fatti e con una condotta cosí reiteratamente risentita e offensiva da non poter comportare alcuna forma di riconciliazione con il suo destinatario, sebbene alcuni moralisti biblici considerino lecita l’ira giusta, ovvero l’ira di chi si adira ragionevolmente per colpe gravi postulandone anche il relativo e immancabile castigo dal punto di vista religioso oltre e più che giuridico. La mitezza evangelica non è un dato caratteriale ma una faticosa e continua conquista spirituale, non è una forma di quietismo o di indifferentismo psicologico ed esistenziale ma la ricerca volontaria di un modo di essere di fronte alle costanti provocazioni e prevaricazioni di cui è lastricata la quotidianità e la civiltà del mondo in generale. Il mite non è un ingenuo o uno sprovveduto ma un soggetto ben consapevole di come sia arduo vivere con mitezza evangelica in un mondo sovraccarico di abusi e di soprusi, è il giusto-innocente, nel senso etimologico del latino in-nocentia ovvero del non nuocere praticamente e spiritualmente né a sé né agli altri; è colui che, nonostante la sua notevole capacità di discernimento e la sua lodevole integrità morale, si sente sempre sommamente imperfetto e peccatore agli occhi di Dio non per puro scrupolo ma per la conoscenza oggettiva dei suoi limiti reali e possibili che lo sprona appunto a compiere opere utili a sé e agli altri sotto un profilo eminentemente spirituale. E’ anche colui che attraversa momenti di particolare sofferenza e crisi depressiva che si sforza tuttavia di trasformare in opportunità di crescita interiore e maturità spirituale23.

Il mite è la persona umile e inoffensiva che comincia a perdere santamente la pazienza solo in presenza di atteggiamenti manifestamente irragionevoli ed ostili verso la propria persona e soprattutto verso il proprio prossimo più indifeso; è la persona che non si agita freneticamente per affermarsi e occupare posti di potere o di particolare visibilità sociale, che non opprime e non sfrutta alcuno, che sopporta serenamente ogni avversità e non fa mai uso della forza se non per motivi di legittima difesa non tanto personale quanto comunitaria, che infine è disposto in particolari situazioni-limite ad immolarsi per il bene altrui o comune; è la persona che non può far altro che dare testimonianza di vita contro ricorrenti forme di pensiero e pratiche di vita che attentano alla limpida e immarcescibile immagine della santità cristiana. Ed è anche per questo che il mite evangelico non vuole la pace a tutti i costi, sapendo che la vera pace è quella di Cristo, e dunque anche una pace strettamente connessa alla verità e alla giustizia. Una pace o una pacificazione contrarie a spirito di verità e di giustizia sono semplicemente false, fasulle, e il mite, che confida sempre in un Dio di verità di misericordia e di giustizia, preferisce una fiera resistenza pacifica o puramente difensiva anche se votata alla sconfitta piuttosto che una resa comoda e vantaggiosa ma assolutamente ingiusta e disonorevole. Tuttavia, il mite evangelico, che eccelle anche per saggezza, è disposto ad accettare e a subire qualunque torto, qualunque giogo, qualunque violenza se, al fine di preservare almeno vite umane o interessi vitali dei suoi congiunti e in generale dei suoi simili, non gli si dia altra alternativa che la capitolazione e la resa.

Come è stato giustamente osservato in una recensione sul bel libro di Norberto Bobbio “Elogio della mitezza”24, «il mite “non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere, e alla fine di vincere”. Ma la mitezza non è remissività: mentre il remissivo “rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione”, il mite invece “rifiuta la distruttiva gara della vita” per un profondo “distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più”, per mancanza di quella vanagloria che spinge gli uomini nella guerra di tutti contro tutti, “per una totale assenza della puntigliosità (…) che perpetua le liti anche per un nonnulla”. Il mite non è neppure cedevole, come chi ha accettato “la regola di un gioco in cui alla fine c’è uno che vince e uno che perde”»25. Non si può d’altra parte non sottolineare significativamente che la mitezza «oggi è anche “una scelta storica: consideratela come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere”», per cui Bobbio conclude: «”identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia”»26. Donde anche la conseguenza pessimistica che egli ne viene traendo in relazione alla prassi politica. Bobbio infatti afferma perentoriamente: «Virtù non politica, dunque, la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odii di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della politica», il che poi lo porta a rovesciare provocatoriamente e significativamente la beatitudine evangelica: «Guai ai miti: non sarà dato loro il regno della Terra», per il semplice fatto che «la mitezza non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù»27. Però, se la conclusione bobbiana fosse fondata e si accettasse quindi che la mitezza si ponga o debba porsi fuori della politica o in antitesi ad essa, non si abbandonerebbe forse la politica stessa alla menzogna, all’inganno e alla violenza? Che senso avrebbe essere miti dal punto di vista morale e spirituale se non si avesse la concreta speranza di poter fare avanzare la mitezza nello stesso mondo politico, di poterlo migliorare modificandone i meccanismi perversi a tutto vantaggio di modalità più umane, più civili, più fraterne di azione politica? Certo, il cristiano sa bene che questo mondo sarà sempre pieno di negatività ma questo non è per lui motivo di desistenza e di fuga dal mondo politico bensí motivo di resistenza e di lotta per evangelizzare ed umanizzare nel miglior modo possibile tutti gli ambiti della vita storico-mondana, a cominciare proprio da quello politico.

Ma il laico Bobbio regala altri spunti di riflessione davvero pregevoli e preziosi anche o proprio per il cristiano. La mitezza, egli rileva, è il contrario dell’arroganza ovvero “dell’opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione”, e quindi il mite non ostenta nulla, neppure la propria mitezza di cui anzi dubita talvolta sinceramente. Infatti, la virtù ostentata, la virtù mostrata vistosamente o sfacciatamente, si converte inevitabilmente nel suo contrario: ostentare la carità vuol dire mancare di carità, ostentare la propria intelligenza vuol dire dimostrare la propria stupidità, a meno che ad una certa misurata ostentazione di sé non si ricorra volutamente a titolo provocatorio solo per contrastare e ridimensionare efficacemente, sotto il profilo etico-civile, la perversa e tracimante ostentazione di chi ha più l’abitudine di parlare e sentenziare che non di riflettere e argomentare.

Un’ultima osservazione, che riflette perfettamente lo spirito evangelico e che i cristiani non possono non sottoscrivere, è che «il mite non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio contro chicchessia. Non continua a rimuginare sulle offese ricevute, a rinfocolare gli odii, a riaprire le ferite. Per essere in pace con se stesso deve essere prima di tutto in pace con gli altri. Non apre mai, lui, il fuoco; e quando lo aprono gli altri, non si lascia bruciare, anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità»28. Forse è un po’ eccessiva, un po’ troppo idilliaca quest’ultima definizione della mitezza evangelica, perché il mite patisce l’avversione e la cattiveria reiterate dei suoi nemici, che non cessano di essere tali anche quando ci si sforzi santamente di perdonarli, pur tuttavia sapendo che le ragioni del loro odio risiedono negli effetti destabilizzanti della sua parola di verità e della sua opera moralizzatrice.  La mitezza evangelica è propria di coloro che, dopo aver avversato tutte le fraudolente rappresentazioni di Dio e dell’umano destino ricavandone solo incomprensioni e sconfitte personali, sanno che oggi potrebbe essere l’ultimo giorno della loro vita terrena, l’ultimo giorno prima di trovarsi sottoposti al giudizio di Dio.

Non tutte le immagini profane di Dio e della fede, naturalmente, sono necessariamente ripugnanti sotto il profilo spirituale, perché ciò che esprime estraneità o contrarietà al sacro, non è in se stesso indicativo di uno spirito dissacratorio ma può avere più semplicemente una funzione demistificante in relazione a possibili rappresentazioni strumentali e ideologiche del sacro stesso. D’altra parte, anche le immagini sacre non sempre e non tutte sono realmente rispettose del senso più veritiero e profondo del divino, donde la necessità di tenere costantemente esercitata la propria capacità di lettura e di giudizio. Abusi, in sostanza, possono rinvenirsi tanto nelle immagini sacre quanto in quelle profane29. Ma, fatta salva la buona fede nella elaborazione delle une e delle altre, non c’è dubbio che, in un’ottica di fede, sia l’autentica immagine sacra a suscitare maggiore commozione e partecipazione spirituale e, in talune epoche in cui la fede si trovi a subire un martellante accerchiamento culturale di forze atee, ci si può sentire spinti a condividere lo stesso stato d’animo spesso avvertito nel cristianesimo bizantino, «lacerato dalla disputa iconoclasta del primo millennio»,  e, soprattutto a causa del divieto di produrre pubbliche immagini della divinità, oltremodo segnato della convinzione «dell’importanza dell’icona sacra, come suggeriscono le numerose raffigurazioni del trionfo dell’iconodulia nella vita della Chiesa in cui regnanti, prelati e monaci venerano l’icona di Maria odegìtria. Maria odegìtria: colei che, indicando Cristo fisicamente presente nel mondo come “la via”, in qualche modo riassume la funzione dell’arte, che indica in termini analogamente fisici Colui che, incarnandosi, è diventato “icona del Dio invisibile”, come la lettera ai Colossesi chiama Cristo (Colossesi, 1, 15)»30.

Non saprei dire se, nella rappresentazione e celebrazione del sacro, le immagini artistiche, pittoriche o scultoree, siano, come molti sostengono, più eloquenti e più immediatamente partecipative delle immagini filosofiche o teologiche31, anche perché Gesù incantava molti suoi uditori e interlocutori con la parola e con le immagini del pensiero e dal pensiero tratte direttamente dalla realtà, senza avvalersi di una qualche sia pure rudimentale arte figurativa o visiva, ma, in ogni caso, non c’è immagine veramente illuminante ed esaltante di Dio e della fede in Dio che possa prescindere da una profonda e permanente meditazione della Parola di Dio.

E’ ciò che i cristiani hanno appreso dalla scuola di Israele: «meditare la parola di Dio, lasciarla scendere nel cuore, legare se stessi alla parola di Dio, perché plasmi il comportamento, pervada il pensiero e infine determini anche i sentimenti … La parola di Dio, che pronunciamo, che cantiamo, è qualcosa di sacramentale, in cui Dio stesso ci tocca e apre il nostro cuore al suo mistero. Nella parola si apre per noi il cuore di Dio. E la parola esige una risposta … Il cristianesimo, tuttavia, non ama solo la parola, ma anche le immagini, che la Bibbia e la liturgia ci mettono davanti agli occhi. Le immagini aprono le porte a Dio. Spalancano il nostro cuore a Dio. Le immagini toccano le nostre emozioni. E giungono fino al nostro inconscio. Le immagini aprono il nostro inconscio a Dio, così Dio può permeare ogni cosa in noi. E le immagini hanno una funzione terapeutica su di noi. Il cristianesimo ha sempre espresso la sua fede per immagini. Gesù stesso ci parla per immagini. Nell’immagine riconosciamo quello che siamo veramente. Ogni uomo porta con sé immagini interiori. Dalle immagini dipende il modo in cui si sente»32

Francesco di Maria

NOTE  

1 Sulla simbologia dell’arte medievale si possono vedere: L. Pappalardo, Lineamenti di storia dell’arte medievale. (Dall’età tardo-antica al primo Quattrocento), Milano, LED Edizioni Universitarie, 2025; M. Collareta, Le radici dell’arte medievale. Dal paleocristiano al romanico, Torino, Einaudi, 2024; G. Germanà Bozza, Oltre il visibile. Introduzione allo studio della pittura altomedievale, Acireale, Bonanno, 2023; G. B. Ladner, Il simbolismo paleocristiano. Dio, cosmo, uomo, Milano, Rusconi, 2021; J. Baschet, L’iconografia medievale, Milano, Jaca Book, 2021; C. Corti, Alfa e omega. Il giudizio universale tra oriente e occidente, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2014; J. Dresken-Weiland, Immagine e parola. Alle origini dell’iconografia, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2012; O. Von Simson, La cattedrale gotica. Il concetto medievale di ordine, Bologna, Il Mulino, 2008; M. Chelli, Manuale dei simboli nell’arte. Il Medioevo, Roma, Edup, 2005; M. Gout, Il simbolismo nelle cattedrali medievali, Roma, Edizioni Arkeios, 2003; J. Baltrusaitis, Il medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Milano, Adelphi, 1993.

2 G. Damasceno, Difesa delle immagini sacre. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sante immagini, Roma, Città Nuova, 1983; A. Grabar, Le vie dell’iconografia cristiana – Antichità e Medioevo, Milano, Jaca Book, 2021: G. Lingua, L’icona, l’idolo e la guerra delle immagini. Questioni di teoria ed etica dell’immagine nel cristianesimo, San Giorgio a Cremano, Medusa Edizioni, 2009.

3 G. Damasceno, Difesa delle immagini sacre …, cit., (1, 17).

4 M. Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. VII e pp. 92-94; Leslie Brubaker, L’invenzione dell’iconoclasmo bizantino, Roma, Viella, 2016, che è un libro in cui si fa giustizia di tanti luoghi comuni sulla lotta iconoclasta; ma molto acuto è anche lo studio di A. Besançon, L’immagine proibita. Una storia intellettuale dell’iconoclastia, Bologna, Marietti 1820, 2009.

5 E. Limentani, L’iconoclastia ebraica, tra mito e realtà, in Rivista trimestrale europea “Lettera Internazionale”, 2003, 76, 2, pp. 38-40; R. Paret, Das islamische Bilderverbot und die Schia [The Islamic prohibition of images and the Shi’a], a cura di Erwin Gräf, Leiden, Festschrift Werner Caskel, 1968, pp. 224-232.

6 B. Sesboüé-J. Wolinski, Il punto di partenza, in Storia dei dogmi. Il Dio della salvezza I-VIII secolo: Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia della salvezza, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria), 1996, p. 19.

7 Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 33; Tertulliano, Adversus Praxean II,1; Ireneo, Dimostrazione della predicazione apostolica VI; Pseudo-Ippolito, Tradizione apostolica, XXI; Cirillo di Gerusalemme, Catechesi XIX, 2-9; 20, 2-4; Agostino d’Ippona, De baptismo XIII; Didachè VII,1; Giustino, Apologia I, 61, 8.

8 Tutto ciò veniva verificandosi già nei primi tre o quattro secoli di vita cristiana: Cf. J. Gnilka, I primi cristiani. Origini e inizio della chiesa, Brescia, Paideia Editrice, 2000, pp. 273-382.

9 Clemente d’Alessandria, Gli stromati. Note di vera filosofia, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo Edizioni, 2006, scrive: «Prima della venuta del Signore la filosofia era necessaria ai Greci per giungere alla giustizia; ora diviene utile per giungere alla religione: essa è in certo modo una propedeutica per coloro che intendono conquistarsi la fede per via di dimostrazione razionale» (I, 5, 28, 1).

10 Uno studio agile e attento sull’eresia dei primi cinque secoli dell’era cristiana è quello di Justo L. González e Chaterine Gunsalus González, Eretici… per chi non ha tempo, Torino, Claudiana, 2013; D. C. Murray, I percorsi delle eresie. Viaggio nel dissenso religioso dalle origini all’età contemporanea, Milano, Rusconi, 1998; A cura di M. Benedetti, Eretiche ed eretici medievali, Roma, Carocci, 2023; G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Torino, Einaudi, 2010.

11 R. Chéno, Dio al plurale. Ripensare la teologia delle religioni, Brescia, Queriniana, 2019; più fiducioso verso le potenzialità teologicamente emancipative del pluralismo religioso era apparso il libro di J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Brescia, Queriniana, 2003 e, ancor più sbilanciato a favore di una teologia pluralistica e antiesclusivistica, che in vero va a minare il riconoscimento dell’assoluta originalità e della specifica forza di emancipazione spirituale della religione cristiano-cattolica rispetto a tutte le altre religioni, è quello di J. M. Vigil, Teologia del pluralismo religioso. Verso una lettura pluralista del cristianesimo, Roma, Borla Edizioni, 2008. Ancora generica e ambigua appare pure la difesa del pluralismo fatta da C. Molari, Teologia del pluralismo religioso, Villa Verucchio (Rimini), Pazzini, 2022.

12 P. Banna, L’ambigua religiosità dei primi cristiani. Una rilettura critica della teologia delle religioni alla luce delle fonti cristiane dei primi secoli, Milano, Vita&Pensiero Edizioni, 2021.

13 F. Zaccaria, Chiesa senza paura. Bussola teologico-pastorale per l’annuncio del Vangelo nella città plurale, Padova, Edizioni Messaggero, 2021.

14 J.-P. Hernàndez, Ciò che rende la fede difficile. Vademecum per pellegrini che si stancano spesso, Roma, Apostolato della preghiera, 2015, pp. 12-13.

15 F. Cosentino, Non è quel che credi. Liberarsi dalle false immagini di Dio, Bologna, EDB, 2019.

16 Una mescolanza di iconico e idolatrico sembrerebbe ricorrere anche nell’immaginario artistico-religioso del tempo di Costantino: cfr. L. Canetti, Costantino e l’immagine del Salvatore. Una prospettiva mnemostorica sull’aniconismo cristiano antico, in Giornale di cristianità antica “Zeitschrift für Antikes Christentum”, Berlino, De Gruyter Edizioni, 2009, 13 (2), pp. 233-262.

17 G. Zanchi, Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana, Bologna, EDB, 2020.

18 Yvonne Dohna Schlobitten e Giorgio Monari, L’esperienza religiosa cristiana del vedere e dell’udire, in Rivista di Teologia “Gregoriana”, 2016, n. 49, pp. 16-21), e, a cura di E. Benedetti, Lo sviluppo dell’immagine nel cristianesimo, in Giornale on line dell’Ordine Francescano Secolare – Fraternità “Santa Maria Nascente” di Sabbioncello, 4 giugno 2023.

19 R. Bodei-S. Givone, Beati i miti, perché avranno in eredità la terra, Torino, Lindau, 2013.

20 La mitezza evangelica può essere declinata in diverse forme di pensiero e di comportamento che riflettano le diverse circostanze e i diversi piani di azione su cui venga richiesto o sia necessario esercitarla, ma, in senso generale, si può dire che essa non si discosti molto da «una “mitezza militante” che rifiuti l’indifferenza e si riappropri del conflitto come strumento generativo, coniugando la bontà con l’indignazione, il disegno dell’amore con quello della lotta»: come quella che viene proposta in (A cura di S. Sambiati-B. Saraceno), Souq 2019. Istituzioni e conflitti, Milano, Il Saggiatore, 2019.

21 Tuttavia, non è sempre agevole distinguere tra immagini legittime e immagini fraudolente di Dio, sia in sede filosofico-teologica, sia anche, come si viene dimostrando nell’opera di F. Boespflug, Le immagini di Dio, Torino, Einaudi, 2012, in sede di arte figurativa. Il mite per eccellenza è certamente il Cristo, ma la sua mitezza è molto meno eterea di quanto ancora si pensi: cfr. Hanna Wolff, Gesù, la maschilità esemplare. La figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, Brescia, Queriniana, 1979; E. Durand, Le emozioni di Dio. Tracce di un profondo coinvolgimento, Brescia, Queriniana, 2023. Il mite è «l’uomo di passione, l’appassionato. E l’appassionato non è arrivato, perché quando l’appassionato è arrivato non prova più passione, s’addormenta, è finito. L’appassionato è colui che rimane in cammino, è l’uomo nostalgico, è preso da una nostalgia per una terra che è diversa da quella in cui lui si trova, ma cerca di arrivare a quella terra perché sa che è la sua. È l’uomo aperto alla meraviglia, quindi è la persona dinamica, è la persona viva», E. Valzania, Intervista ad A. Manenti, La dialettica della mitezza: tra aggressività e amore, in Rivista “Tredimensioni”, 2019, 16, pp. 193-203. Alberto Mello, La passione dei profeti. Temi di spiritualità profetica, Comunità di Bose, Qiqajon, 2000. La vera mitezza è quella dei profeti: «Il profeta … non ha la vocazione di parlare a Dio del popolo, ma quella di parlare di Dio al popolo. La sua voce è il vertice di un’altra piramide che ha la base in cielo e si affaccia sulla terra. Deve intercedere presso il popolo perché salvi Dio: è questo il senso profondo della sua polemica anti-idolatrica. Ogni profeta è questo: una voce che dal “cielo” si affaccia sulla terra. Il suo corpo è tutto terra, come ogni uomo e ogni donna, ma la sua voce non gli appartiene. È il suo corpo, le sue carni, il luogo dove si incontrano cielo e terra, dove si spiega e si consumano la sua vocazione, le sue sofferenze, le sue persecuzioni … Un profeta è disprezzato proprio nella sua patria, dentro casa, tra i suoi fratelli. Dentro la sua comunità. È lì il luogo da cui partono quasi sempre le congiure per eliminarlo. Geremia sente da Dio di non fidarsi neanche dei parenti più intimi, di non ascoltare le loro parole (che sembrano) buone. … Non dimentichiamo mai che i profeti ricevono la loro autorità direttamente, che non viene mediata e ratificata da nessuna istituzione gerarchica. La loro legittimità morale e spirituale è quindi sempre controversa, parziale e imperfetta, e la loro casa è sempre in terreni che le autorità considerano abusivi, per poi poterla demolire … È questo il destino di quei profeti che sono chiamati a profetizzare all’interno della comunità-fede nella quale sono cresciuti e vivono, che devono – per compito – criticare pubblicamente e duramente l’ideologia generata giorno dopo giorno dagli ideali e dalla fede della propria comunità … Molte comunità muoiono perché uccidono quei profeti ingenui e mansueti che avrebbero potuto salvarle se fossero giunti a una mitezza diversa», L. Bruni, È la mitezza diversa che salva, in “Avvenire” del 10 giugno 2017. Esempio paradigmatico di mitezza è la figura di Mosè, che, prima di essere prescelto da Dio alla guida del popolo di Israele, aveva ucciso un egiziano e, anche successivamente, non sarebbe stato certo esente da attacchi di collera. Di lui si legge nel libro dei Numeri: «Mosè era un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra … Il Signore disse: … Mosè .. è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione e non per enigmi, ed egli contempla l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?» (Nm 12, 3-8). Validi elementi di riflessione per intendere la mitezza evangelica in senso forte e non debole, in senso consapevole e non ingenuo, militante e non meramente caratteriale, sono contenuti anche nel libro di battaglia etico-religiosa di E. Fumaneri, Una spada per la vita – Alla riscoperta della virilità cristiana, Milano, Chorabooks, 2017).

22 Ha spiegato in modo molto significativo E. Bianchi, Il volto ambivalente della collera, in “Avvenire” del 7 luglio 2012, che «al di là della dinamica che unisce tra loro le diverse forme di collera e ira, tra queste forme vi sono differenze tali che si può anche parlare di “santa” collera, di giusta collera e, al contrario, di ira funesta; di “collera di Dio” e, al contrario, di collera omicida degli uomini».

23 G. Cucci, La forza della debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, Apostolato della Preghiera, 2014. Al contrario, il libro di G. Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose, Milano, Feltrinelli, 2022, definisce, classifica, sentenzia sussiegosamente, alla luce di una netta, astratta e presuntuosa linea di demarcazione tra la figura del competente e quella dell’incompetente, e sia pure all’interno di un discorso apparentemente problematico e informato a princìpi di modestia e autocritica.

24 N. Bobbio, Elogio della mitezza, Milano, Linea d’Ombra Edizioni, 1994, poi anche in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore 2010.

25 Dall’edizione del 1994: ivi, p. 15 e sgg.

26 Ivi.

27 Ivi.

28 Ivi, p. 17. Il mite, però, è anche un irregolare, capace talvolta, per amore, di atti persino temerari e senza misura, come in parte può forse evincersi da (A cura di C. Saita-L. Malandrino), La forza della mitezza. Riflessioni e testimonianze, Leonforte (Enna), Euno Edizioni, 2020.

29 Quest’avvertenza era esplicitamente contenuta ed espressa in un antico ma autorevole trattato del ‘500: quello scritto dal cardinale bolognese Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582), Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2002.

30 T. Verdon, Come si diffonde il messaggio biblico. La parola comunica, ma l’immagine corre, in “L’Osservatore Romano” del 18-19 maggio 2009.

31 R. Mastacchi, «Il Credo nell’arte cristiana italiana», Siena, Cantagalli, 2007.

32 A. Grün, La fede dei cristiani spiegata ai non cristiani (2006), Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo, 2012, pp. 131-150.

 

 

 

 

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