Idee cristiane sulla guerra

Sorprende la presenza di una diffusa ignoranza sia tra i cattolici colti che tra quelli incolti del XXI secolo in materia di applicazione dei precetti biblici a questioni particolarmente delicate della storia degli uomini, come la guerra e la pace, l’amore per il prossimo, la sessualità legittima e la sessualità abnorme o perversa, la natura e il significato del matrimonio, l’aborto o le pratiche preposte ad impedire la procreazione, la liceità o illiceità del divorzio. Non che si abbia a che fare con tematiche per le quali esistano biblicamente soluzioni semplici o scontate, ma il fatto che, dopo oltre duemila anni di storia cristiana, di storia della Chiesa e di cultura cristiana, di civiltà cristiana, non si riesca troppo spesso a venirne a capo, a proporne letture o interpretazioni adeguate e almeno tendenzialmente univoche alla luce della sapienza biblico-evangelica, non può non costituire motivo di profondo rincrescimento all’interno di una comunità cattolica in cui ancora su troppe cose regnano contrasti e discordie francamente ingiustificate1.

Poi, però, ci si può anche sentire rincuorati nel ricordare che anche i primi discepoli di Gesù, gli apostoli, pur avendo cuore e mente aperti alla Parola di Dio, non sempre capivano le parole e i ragionamenti del Maestro, per cui evidentemente il destino dei veri soldati di Cristo, dei credenti militanti della sua Chiesa sono tenuti a fare uso non solo di intelligenza e capacità di discernimento critico ma anche e soprattutto di umiltà, pazienza, e di preghiera ininterrotta per sé e per gli altri. Qui ci si vuole soffermare sul tema della guerra, che in questo tempo è tornato ad essere particolarmente drammatico, e intanto occorre far presente, per spirito di obiettività, che la tesi del ripudio della guerra da parte delle prime generazioni di cristiani è stata possibile sostenerla, sulla base di una decontestualizzazione storica e di evidenti fraintendimenti teologici della problematica qui esaminata, da parte di una letteratura critica piuttosto corposa: si pensi agli studi di K. Deschner, Il gallo cantò ancora (ed. Massari 1998, 2006), di W. Peruzzi, Il cattolicesimo reale (ed. Odradek 2008) Parlando dei primi cristiani e del servizio militare, il teologo tedesco Peter Meinhold, Protestanti e cattolici. Principi evangelici e cattolici dell’azione sociale della Chiesa, Wiesbaden, Franz Steiner Verlag, 1978, aveva detto molti decenni or sono, sbagliando: «Essere cristiano e soldato era considerato inconciliabile». Molto sbrigativa, oggi, è anche la tesi di Jonathan Dymond che, nel suo saggio An Inquiry Into the Accordancy of War with the Principles of Christianity, Stockbridge (Massachusetts), HardPress, 2018, ha scritto che dopo la morte di Gesù per qualche tempo i suoi seguaci «rifiutarono di andare in guerra, quali che fossero le conseguenze, vuoi disonore, vuoi imprigionamento o morte», aggiungendo: «Questi fatti sono incontestabili. … Solo quando il cristianesimo si corruppe i cristiani diventarono soldati».

Ma, al di là del travisamento esegetico delle parole e degli insegnamenti del Cristo, in realtà il vangelo non si pronuncia direttamente sulla liceità o meno per il cristiano di portare le armi e partecipare alla guerra, e piuttosto, contrariamente a quel che teologi e ampi settori ecclesiali omettono di fare, va notato che i soldati sono personaggi che il vangelo tratta con rispetto e simpatia, mostrando di accettarne lo status e il ruolo senza trovare in essi alcunché di negativo, come appare evidente nella risposta del Battista: «Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi che dobbiamo fare?” Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”» (Lc 3, 14), cioè Giovanni non dice loro di buttare lance e spade e di non assolvere la loro funzione di garantire l’ordine pubblico o la difesa dei confini dell’impero ma semplicemente di non abusare del loro ruolo, maltrattando arbitrariamente la gente ed estorcendole denaro. Ma è lo stesso Gesù che vede un atteggiamento talmente straordinario di fede nelle parole di un centurione di Cafarnao, da dire apertamente: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!» (Mt 8, 10). E poi è di nuovo un centurione, quello che lo scorta sul Golgota, a riconoscerne esplicitamente la divinità e a pronunciare parole commoventi di fede: «Davvero costui era Figlio di Dio!» (Mt 27, 54).

D’altra parte, Gesù non esita a dichiarare che, se la pace spirituale delle sue creature, è certamente uno degli scopi principali della sua missione salvifica,  tale scopo non è certo perseguibile nella sua ottica religiosa attraverso un modo quietistico, passivo, apatico, grettamente disimpegnato, di pensare e di vivere, ma attraverso una mentalità e un modo di agire predisposti alla lotta, al combattimento contro le falsità e le iniquità tanto del mondo esterno quanto del proprio mondo interiore. La pace di Cristo, non quella apparente, superficiale e ipocrita del mondo, si può conquistare solo con la consapevolezza della natura contraddittoria e dolorosamente conflittuale della vita, dei rapporti umani, delle relazioni interpersonali, e con la capacità morale di compiere scelte spesso difficili, rischiose e impopolari, svantaggiose e sconvenienti per se stessi, e al tempo stesso coraggiose e necessarie per restare fedeli ad uno spirito di verità, ad un principio non convenzionale di moralità, ad un modello esemplare di libertà spirituale.

Cristo insegna che non si può vivere pensando solo o prevalentemente al tornaconto personale, ai propri interessi o ai propri affari; che non si può accettare, condividere, tollerare, anche solo per quieto vivere, qualunque cosa, qualunque proposta o qualunque compromesso, perché si danno momenti o circostanze in cui, costi quel che costi, bisogna saper prendere posizione, affrontare i contrasti, e tagliare i viscidi lacci dell’ipocrisia e della complicità con pratiche illecite e immorali di vita privata e associata. In questo senso, Gesù dice di non essere «venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10, 34), cioè uno spirito di lotta, di combattimento, di divisione conflittuale in relazione alla necessità salvifica di distinguere tra il vero e il falso, di separare bene e male, di mettersi al servizio della giustizia divina e di smascherare gli inganni e le insufficienze di quella umana. La vera vocazione del cristiano è, pertanto, quella della milizia, l’abito interiore che deve indossare è una divisa militare, il suo metodo di vita devono essere la disciplina militare e un continuo esercizio nell’arte della guerra contro tutte le minacce terrene che incombono sul destino sovrannaturale dell’uomo.

La fede doveva essere vissuta come milizia, esattamente come i soldati romani vivevano la loro milizia al servizio dell’imperatore. La stessa escatologia messianica, ben presente nei più antichi testi cristiani e in particolare nell’Apocalisse giovanneo, descrive e simboleggia la guerra di Cristo contro un mondo di peccato e incapace di convertirsi, contro tutte quelle iniquità umane che rischiano di condannare chiunque non le rinneghi e non le sconfigga per tempo alla seconda e definitiva morte. Anche la terminologia militare non di rado ricorrente nel vangelo e soprattutto in san Paolo è abbastanza nota. Nei primi padri della Chiesa — si pensi a Clemente Romano, Ignazio di Antiochia o Giustino — il servizio militare non è oggetto né di critica, né di particolare apprezzamento, e viene trattato come una delle tante occupazioni della vita civile e da giudicare, al pari di esse, non in se stessa ma in base ai modi in cui fosse stata esercitata, con particolare riferimento ai pericoli di idolatria, immoralità, abuso nell’uso della forza. D’altra parte, san Paolo aveva dedicato gran parte delle sue riflessioni al chiarimento teologico del rapporto evangelico tra autorità e libertà, tra legge dello Stato e obbedienza alla legge di Dio, precisando che anche l’ordinamento civile dello Stato dovesse essere inteso, in conformità alla distinzione fatta dallo stesso Gesù tra il potere di Cesare e quello divino, come un’istituzione divina, alla quale i cristiani avrebbero dovuto obbedire come a Dio stesso, per il semplice motivo che divina era anche l’autorità civile (nulla potestas nisi a Deo), il cui fine consisteva nella repressione del male e nella difesa del bene: sin quando il sovrano non avesse perseguito fini manifestamente illeciti e non avesse preteso di essere adorato come un Dio, anche i cristiani erano tenuti ad ottemperare alle sue leggi.

Quella usata da Gesù era un’espressione, una formula precisa ma anche abbastanza elastica, nel senso che i cristiani, di volta in volta, a seconda delle situazioni o dei casi storico-sociali specifici in cui fossero venuti a trovarsi, avrebbero saputo intendere se e fino a che punto potessero o dovessero prestare obbedienza a Cesare. E’ appunto per questo motivo che il problema degli obblighi militari, almeno fino a Costantino, pur essendo percepito con una certa diffidenza dalle masse cristiane non sarebbe stato vissuto da esse con particolare inquietudine, se non in quei frangenti in cui la vita militare, inevitabilmente esposta a un linguaggio scurrile e ad abitudini di comportamento immorali o a pratiche previste dai regolamenti militari non di rado idolatriche (come, per esempio, l’uso di corone militari di alloro, che avevano una chiara origine pagana e con cui i soldati dovevano cingersi il capo in occasione di particolari festeggiamenti e in onore  dell’imperatore), oppure anche finalizzata a spedizioni militari di conquista a danno di innocue o inoffensive popolazioni residenti ai confini dell’impero, imponesse ai militari cristiani di disobbedire agli ordini dei superiori e di andare così incontro al martirio. Peraltro, non bisogna trascurare che i primi tre secoli dell’era cristiana sarebbero stati caratterizzati da periodi di violenta persecuzione anticristiana, in particolare dalla persecuzione dioclezianea poco prima che Costantino prendesse il potere, per cui i cristiani non avevano proprio motivo di poter optare per la vita militare.

Quindi, se è vero che, specialmente nei primi secoli di storia cristiana, nella Chiesa sembra prodursi sul tema della guerra «una profonda spaccatura» tra fazioni contrapposte, tra una fazione che la ripudia completamente e l’altra che tende a giustificarla e prenderà nel tempo il sopravvento2, non è sufficiente fornire un semplice giudizio descrittivo, constatativo, per cogliere il nocciolo del problema, vale a dire per capire quali siano le specifiche motivazioni storiche che possano rendere ragione dell’apparente divaricazione interpretativa esistente sulla questione della guerra nella Chiesa in un arco di tempo che abbraccia i primi quattro secoli di storia cristiana. Ed è proprio a causa di precise congiunture storico-politiche che gli stessi padri della Chiesa del II e III secolo non avrebbero potuto fare altro che considerare il servizio militare e la guerra come esperienze da cui rifuggire cristianamente. Origene, per esempio, avrebbe scritto: «Noi non brandiamo la spada contro nessun popolo, né impariamo a fare la guerra, perché siamo divenuti figli della pace per mezzo di Gesù Cristo, che seguiamo come nostro condottiero” (Contra Celsum, V, 33); e, ancora, attraverso una sapiente e astuta razionalizzazione dell’opposizione cristiana alle armi distruttive della guerra, avrebbe affermato che «Noi combattiamo per l’Imperatore più degli altri. Non militiamo ai suoi ordini, anche se ci costringe a farlo; ma militiamo per lui, perché pregando lo aiutiamo con l’arma della pietà» (Ibidem, VIII, 74). Non mancano, d’altra parte, posizioni intransigenti ancora più esplicite come quelle di Ippolito di Roma, che però, essendo stato un “antipapa” sia pure per un certo periodo di tempo, si mostra propenso, anche sul piano teologico e pastorale, ad un’interpretazione piuttosto impulsiva, focosa del suo apostolato, tanto che per lui doveva essere scomunicato il fedele o il catecumeno che intendesse farsi soldato, manifestando in tal modo il suo disprezzo di Dio. Motivi del tutto contingenti e non di principio avrebbero spinto anche Tertulliano, ad essere sempre più severo circa la compatibilità della milizia cristiana di fede con la milizia della vita militare e con la stessa milizia politica ovvero con l’obbedienza assoluta allo Stato e all’imperatore3.

Quindi, il tema della contestazione di Tertulliano, a differenza di quanto spesso si viene sostenendo, non è la partecipazione del soldato cristiano alla guerra oppure un certo uso della violenza, ma è, in un determinato periodo storico, il contesto ideologico e comportamentale della vita militare, in quanto ufficio da adempiere in mezzo ad una massa di altri uomini non cristiani che avrebbe potuto costituire appunto causa di contaminazione morale e corruzione spirituale. E l’esito conclusivo del suo ragionamento è dato dalla categorica esclusione che il soldato possa o debba entrare nell’esercito, che era in sostanza «una vera e propria dichiarazione di guerra ad un mondo intimamente compenetrato di idolatria, di quell’idolatria che si rivela in ogni sua manifestazione, anche nella più innocua»4. Rimane fondamentale lo studio appena citato di Anna Morisi, una storica del pensiero cristiano sul tema della guerra, che, contestualizzando saggiamente una ricorrente avversione cristiana delle origini alle armi e alla guerra,  osservava sull’uso dei soldati di indossare talvolta corone di alloro che esse avevano «la loro origine nel culto di Apollo e di Bacco, i quali vengono incoronati, l’uno come Dio delle armi, l’altro come dio dei trionfi; se poi questa è di mirto si ricollega al culto di Venere, che a sua volta è connesso a quello di Marte: se è di ulivo, ricorda la corona che Nettuno diede a Minerva, dea della guerra»5. Più in generale, questa studiosa non aveva dubbi nell’affermare: «Non c’è quindi una precisa ostilità del cristianesimo verso lo stato, e se anche molti fedeli si erano incamminati sulla via della carriera civile o militare (non mancano esempi di soldati cristiani nell’esercito romano e basterebbe l’episodio della Legio fulminata Melitensis a dimostrarlo), non viene posto alcun ostacolo, né vengono approfonditi i possibili elementi di dissidio, mentre si sottolineano, spesso in modo del tutto ideale, le possibilità di accordo e di pacifica collaborazione»6.

Va, pertanto, ribadito che la tradizione antimilitarista del cristianesimo sarebbe stata abbastanza limitata e le sporadiche proteste che i cristiani avrebbero mosso nei confronti della vita militare sarebbero state dovute ai costumi e ai culti pagani, idolatrici o immorali, ancora prevalenti negli eserciti imperiali dei primi due secoli dell’era cristiana. Non si può negare che giudizi così nettamente negativi verso l’esercito e la guerra avrebbero trovato talvolta autorevoli seguaci determinati a svolgere un’opera di persuasione circa il fatto che l’istituzione militare non potesse non essere ritenuta in contrasto con il comandamento “non uccidere”, con connessa precisazione che i battezzati non dovessero arruolarsi, mentre coloro che si fossero battezzati essendo già sotto le armi, avrebbero potuto continuare a prestare servizio nell’esercito per non privare se stessi e i propri familiari di mezzi necessari alla loro propria sussistenza, anche se a condizione di non versare sangue di alcun essere umano. Ma di nuovo Anna Morisi getta luce sulle reali dinamiche di tale questione storica: «lo scrittore più antimilitarista dei primi secoli fu Lattanzio che, contemporaneo a Diocleziano, vide le più gravi repressioni compiute contro i cristiani, ma non si può ignorare che una analoga concezione della guerra ebbero anche Martino di Tours, Basilio Magno, san Gerolamo, san Giovanni Crisostomo, Paolino di Nola, Isidoro di Pelusio, personaggi che vissero in un’epoca in cui, se il cristianesimo non era ancora religione di stato, non si sentiva più parlare di persecuzione … Lattanzio, e Cipriano in un certo senso lo anticipa, vive in un’epoca che, sia pur di poco, è posteriore a quella di Tertulliano e di Origene. In questi anni, la posizione rigorista di Tertulliano è superata dallo sviluppo stesso delle cose, perché la grande diffusione del cristianesimo che contava ormai i suoi fedeli in tutte le classi sociali ed in tutti gli ambienti politici ed amministrativi dello stato, imponeva di considerare il problema della conciliazione con lo stato, non più come una semplice eventualità, ma come una meta che era assolutamente necessario raggiungere»7.

Ma, già dopo la pace di Costantino, quando ormai l’impero è avviato a fare esplicita professione di fede cristiana e ai suoi confini vengono profilandosi le minacce dei barbari, la Chiesa cambia sensibilmente atteggiamento nei confronti dell’esercito e del servizio militare, perché a quel punto questi ultimi non erano più funzionali alla difesa di un potere imperiale pagano ma alla difesa di un’intera comunità religiosa e della sua stessa Chiesa.  Il Concilio di Arles (314 d. C.) scomunica  coloro che “in pace, abbandonano le armi” (can. 3), ovvero che avessero disertato dall’esercito imperiale. Da quel momento in poi, l’approccio cristiano alla guerra sarebbe stato facilitato e reso meno tormentato dall’oggettiva necessità di custodire con diligenza spirituale e ferma determinazione organizzativa e operativa una nuova civiltà nel segno della fede in Cristo. Il celebre motto costantiniano “in hoc signo vinces” non avrebbe simboleggiato semplicemente la vittoria di una sola battaglia ma il vittorioso avvento di una rivoluzionaria e durevole civiltà fondata su una radicale ristrutturazione storico-politica dei rapporti tra impero e Chiesa, tra potere temporale e potere spirituale: non più virtualmente conflittuali ma tendenzialmente distesi, collaborativi, e non di rado reciprocamente convergenti. Il che non toglie che tali rapporti conoscessero nel corso dei secoli momenti di incomprensione e di scontro abbastanza significativi fino all’inizio del XVI secolo, quando, con la rottura dell’unità della Chiesa, e sia pur sempre in un contesto ormai stabilmente cristiano, gli Stati moderni sarebbero venuti gradualmente autonomizzandosi e laicizzandosi dall’autorità della Chiesa cattolica, pur continuando ad avere in essa un imprescindibile punto di riferimento e di confronto.

A partire dal concilio di Arles la teologia cristiano-cattolica anche sul tema spinoso della guerra e del suo rapporto con la fede sarebbe venuta evolvendosi verso una più chiara e serena interpretazione del passo evangelico relativo al modo in cui si dovesse religiosamente intendere il rapporto tra Cesare e Dio, tra impero e Chiesa, tra potere di governo e potere spirituale, e dei passi paolini incentrati sul senso di tale rapporto. Ambrogio già nel IV secolo e Agostino tra IV e V secolo, Bernardo da Chiaravalle nel XII secolo e Tommaso nel XIII8, de Vitoria e de Molina nel XVI secolo, Suarez tra XVI e XVII secolo, sono momenti emblematici ed altamente significativi di un pensiero teologico e anche giuridico molto articolato ma sempre più sicuro di poter legittimare, sul piano biblico-evangelico e alla luce di argomentazioni complesse e articolate ma chiare, la guerra difensiva (che tale può essere anche quando, per motivi tattici, assuma carattere apparente di guerra offensiva), il dovere-diritto di intraprenderla o di affrontarla in tutti quei casi in cui non risulti oggettivamente possibile evitarla o rinunciarvi a mezzo del dialogo, del confronto e di pur efficaci canali diplomatici, e resti d’altra parte primario e inderogabile dovere dello Stato quello di tutelare i legittimi interessi e lo stesso diritto del proprio popolo alla vita e ad una esistenza libera e dignitosa.

Tra le prerogative costitutive di Cesare, dello Stato, dell’autorità civile o di governo, è compresa naturalmente l’uso legittimo della forza, per cui, sempre alla luce delle già citate parole di Gesù sul rapporto tra Cesare e Dio, sarà doveroso compito dello Stato esercitare la facoltà di ricorrere alla guerra in quanto extrema ratio, dopo aver esperito ogni altro ragionevole e pacifico tentativo di ricomporre una determinata controversia tra parti contrapposte. In questo senso, giustamente, la teologia cattolica, tutta la tradizione patristica, lo stesso magistero pontificio ed ecclesiale, avrebbero sempre teorizzato l’idea di guerra giusta, ovvero di guerra come assoluta e inevitabile necessità morale e religiosa, oltre che politica e militare. Questo è il genuino, attento ed equilibrato, riflessivo e canonico pensiero della Chiesa di Cristo, e che il pontefice oggi in carica dichiari che la guerra non è mai giusta è un fatto spiacevole perché evangelicamente non veritiero o non ben ponderato, fuorviante perché non indirizza le coscienze verso un giudizio corretto e responsabile, ambiguo anche perché può essere facilmente inteso come implicito invito al comodo disimpegno morale e spirituale rispetto a situazioni in cui un intero popolo potrebbe essere sterminato o radicalmente decimato dalla violenza prevaricatrice e sanguinaria di una potenza non solo tirannica ma persino abitata da demoniaca esaltazione.

Il popolo di Dio oggi appare profondamente diviso e disorientato su una guerra che, anche in questo secolo, dopo le tragiche esperienze belliche del secolo scorso, ha ripreso ad imperversare quasi nel centro dell’Europa e in Medio Oriente. In entrambi i casi, chiunque fosse capace di giudicare i fatti in buona fede, non potrebbe negarsi il coraggio di auspicare il rinsavimento pure improbabile di Putin o l’insperabile e insperata vittoria militare dell’esercito e del popolo ucraini e, sul fronte mediorientale, la cessazione delle animalesche e sterminatrici operazioni belliche da parte dell’esercito di Netanyahu ai danni del più volte perseguitato popolo palestinese.

Ma le cose non procedono in questa direzione, non almeno in un modo significativamente univoco o maggioritario, e allora chi può si sente costretto a dare una testimonianza personale di fede quanto più possibile attendibile e onesta. E’ una fortuna di questi tempi che, con tanti meschini ma agguerriti pacifisti alla Tarquinio in libera circolazione, un giornalista cattolico venga osservando quanto segue: «il pacifismo ideologico, senza se e senza ma, non fa parte, e non lo ha mai fatto, della dottrina della Chiesa, la quale riconosce il sacrosanto diritto alla difesa – personale e della patria – e il dovere di difendere chi è ingiustamente aggredito. In secondo luogo, nel mondo attuale e a maggior ragione in quello che si sta delineando in seguito agli eventi innescati dalla guerra russo-ucraina, non sarà il pacifismo ad evitare i conflitti ma il disporre di uno strumento militare efficiente, credibile, numericamente adeguato e soprattutto la volontà di usarlo, se necessario.

Se gli ucraini avessero avuto delle forze armate con mezzi migliori di quelli ex sovietici di cui erano dotate e ben addestrate, la guerra in Dombas probabilmente si sarebbe conclusa, anziché trascinarsi per anni e soprattutto la Russia ci avrebbe pensato due volte prima di invadere il Paese, o quantomeno gli ucraini avrebbero potuto approfittare degli iniziali errori di Mosca per condurre una controffensiva risolutiva capace di chiudere in breve tempo un conflitto che invece si sta trascinando da un anno, causando la morte di centinaia di migliaia di soldati e innumerevoli civili, distruggendo intere città, devastando campagne una volta coltivate»9.

Almeno nel cattolicesimo italiano non si comprende oggi che altro è il doveroso impegno per rimuovere tutti i possibili fattori di conflitto nel mondo e per prevenire ogni possibile causa di guerra non solo con politiche serie e responsabili ma innanzitutto con movimenti quanto più ampi e rigorosi possibile di pensiero finalizzati alla reale promozione della causa della pace nel mondo, altro è invece l’astensione dalla compartecipazione ad ogni reazione bellica nei confronti di quanti intendano sopprimere violentemente i diritti dei popoli alla propria indipendenza e alla propria libertà. Già Gramsci criticava severamente forme esasperate e miopi di pacifismo ritenendo però erroneamente che esse potessero attribuirsi principalmente all’originario messaggio evangelico di pace e non invece ad una sua distorta interpretazione, ma lo stesso Giorgio La Pira, considerato da molti pacifisti cattolici come campione di un pacifismo assoluto, in realtà sarebbe stato molto attento ad aderire in modo dogmatico, unilaterale e addirittura preconcetto a determinati ideali di pace. In un Post Scriptum epistolare del 29 settembre 1972, S. Michele Arcangelo! (Defende nos!), egli scriveva ad Andreotti: «De Gaulle fu un grande perché ebbe, rispetto ai “generali” del “Pentagono” (povera gente – che tu bene conosci! – incapace di una visione storica e di una strategia storica autentica: essi sono ancora alla strategia di Clausewitz!), indipendenza e fierezza: seppe dire di no alle loro incommensurabili “stupidità” asiatiche e mediterranee!».

Che De Gaulle fosse disallineato rispetto all’egemonia imperialistica degli USA e molto critico verso la NATO e lo stesso Patto Atlantico, è ben noto, ma egli fu notoriamente uno dei protagonisti principali della guerra di liberazione in Francia e nell’Europa occidentale dall’occupazione nazista, nonché fautore di un forte potere esecutivo nella Francia postbellica di cui sarebbe stato grande protagonista fino alla morte. Fu altresì, come sapeva bene La Pira, un acceso nazionalista e apostolo della grandeur francese, come tenne a scrivere nelle sue Mémoires de guerre: «la Francia non può essere la Francia senza grandezza»10. Ecco, fu questo De Gaulle ad essere considerato “un grande” da La Pira, un amante della pace in Cristo, un acerrimo nemico della guerra! L’uomo, diceva Kant, è un «legno storto»: potrà compiere anche opere nobili e degne di essere ricordate in eterno, ma non si potrà mai raddrizzare, mai emancipare perfettamente o significativamente dai suoi limiti e dalle sue tendenze aggressive e distruttive. Nel migliore dei casi, con l’aiuto di Dio, potrà combattere a suo rischio e pericolo, sublimando cristianamente il suo altruismo e il suo spirito di carità, contro permanenti logiche di iniquità, di odio, di conflitto e di guerra, ma non potrà mai debellare definitivamente la guerra nella storia futura dell’umanità11.

Tuttavia, quando fratelli e sorelle, vecchi e bambini, persone sane e persone malate, di qualunque parte del mondo, rischiano di perdere la vita, la dignità e la libertà di singoli e di popolo, per l’aggressione totalmente sconsiderata e ingiustificata di qualche tiranno, almeno il cristiano, per effetto del comandamento evangelico del non uccidere e quindi anche del prodigarsi al fine di impedire a qualcuno di uccidere, non può far finta di non vedere, non può tirarsi indietro e mettere a tacere la sua coscienza, che gli impone in modo imperioso di partecipare, nei limiti delle sue forze e delle sue possibilità, alla resistenza armata contro ogni tentativo omicida e genocida di sopprimere chicchessia in nome della mera e brutale volontà di potenza. Per questo motivo, lo si voglia o no, la Chiesa non potrà mai essere pacifista, pur avendo sempre l’obbligo carismatico di essere sempre pacificatrice12.

 

NOTE

1 Per una prima, precisa ricognizione storico-esegetica del significato dei brani neotestamentari relativi all’uso della violenza e al ricorso alla guerra in particolari situazioni della vita e della storia, può essere utile vedere: G. Rucco, Guerra e pace nel Nuovo Testamento e nel primo cristianesimo, in “L’Altro”, settimanale di approfondimento culturale, seconda parte, 18 settembre 2023.

2 A. Mori e A. Senneca, Guerra giusta, giusta guerra? Riflessioni sull’evoluzione del concetto bellum iustum, a cura di Casus Belli – Arma Mater Studiorum, Università degli Studi di Bologna, anche se la relazione sembra essere stata tenuta presso l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli, il 20 novembre 2020, p. 4. Si veda anche A. Andrea Cassi, Santa giusta umanitaria. La guerra nella civiltà occidentale, Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 37-38 e S. Pietropaoli, «Bellum justum: dal diritto bellico romano alla guerra giusta del medioevo cristiano», in Abolire o limitare la guerra? Una ricerca di filosofia del diritto internazionale, Firenze, Polistampa, 2008, pp. 1-9.

3 Sul consistente filone pacifista della teologia cristiana dei primi secoli, benché anche il tal caso manchevole di un’adeguata opera di storicizzazione che spieghi le ragioni e il senso di tale filone, è da vedere anche A.  Palini, La questione della guerra nel cristianesimo delle origini, in Rivista di cultura on line “Città Nuova”, 13 aprile 2021.

4 A. Morisi, La guerra nel pensiero cristiano. Dalle origini alle crociate, Firenze, Sansoni, 1963, p. 45.

5 Ivi.

6 Ivi, p. 15.

7 Ivi, pp. pp. 66-67.

8 Tra XII e XIII secolo l’idea agostiniana di guerra giusta sarebbe stata ripresa e approfondita da un folto gruppo di teologi e uomini di Chiesa: cfr. R. Paternoster, La “bella” contesa. La guerra nel Medioevo, in (A cura di A. Gambella), Medioevo in guerra, Roma, Drengo, 2008, pp. 11-12.

9 P. Licciardi, Il pacifismo ideologico non fa parte della dottrina della Chiesa, nel sito on line “Informazione cattolica” del 31 marzo 2023.

10 Ch. De Gaulle, Mémoires de Guerre, 3 volumi, 1ª ed., Paris, Plon, 1954-1959, p. 5. Tra La Pira e De Gaulle intercorsero intensi rapporti epistolari tra gli anni ’50 e ’60. Il carteggio è custodito presso l’Archivio della Fondazione La Pira a Firenze.

11 G. Rinaldi, Il legno storto. Note di filosofia della pace e della guerra, in “Città futura” on line, 26 novembre 2022.

12 Lo scriveva, molti anni or sono, anche A. Riccardi, La Chiesa e la guerra, in “La Stampa” del 16 gennaio 2009.

Lascia un commento