Fu un filosofo certamente antiedonista e antindividualista, ma non nel senso che, nella vita personale degli uomini e nel quadro dello sviluppo della loro personalità, il piacere e la ricerca del piacere, i diritti del proprio io, tra cui quello ad un’indipendenza di giudizio e ad un’autonomia di coscienza, non abbiano una loro ragion d’essere e una loro ben precisa funzione etica, bensì nel senso che il prendersi cura della propria egoità non debba risultare intrinsecamente finalizzato al culto idolatrico del sé, anche in relazione ad eventuali atti di apparente altruismo e di ambigua generosità, di natura individuale, interpersonale o collettiva. Era questo il fondamentale portato spirituale e filosofico, del cristianesimo radicale e della fede cattolica di Gustave Thibon1. Questi fu un implacabile critico delle apparenze morali, politiche e sociali, culturali, spirituali e religiose del suo tempo, e quindi di tutte quelle impostazioni paternalistiche, moralistiche, oppure strumentali e ideologiche, e ancora pretenziosamente oggettivistiche e universalistiche, di frequente ricorrenti nei movimenti filosofici e scientifici, nei modelli e nelle disquisizioni etico-sociali, nelle pratiche e nelle predicazioni religiose, insomma nella cultura elitaria come, in parte, nella cultura popolare del ‘900.
Thibon avrebbe così rilevato come, in realtà, dietro roboanti valori di verità, amore, uguaglianza, giustizia, libertà, pace o fratellanza, si nascondano troppo spesso intenzioni, significati, interessi, scopi, profondamente diversi da quelli dichiarati e proclamati, sí che la verità possa essere scambiata per l’opinione prevalente, l’amore possa essere confuso con qualunque forma o manifestazione di emozionalità, di affettività o relazionalità interpersonale, l’uguaglianza confusa con l’appiattimento o l’azzeramento delle differenze e delle qualità individuali, la giustizia con il giustizialismo oppure con il formalismo giudiziario, la libertà con forme anche estreme o esasperate di permissivismo, la pace con forme di quietismo che denotino in realtà inconfessabili atteggiamenti mentali di indifferenza, cinismo, viltà. Certo, una macchia sembra gravare sulla moralità del filosofo contadino: quella di essere stato «nel 1941, … uno dei grandi filosofi politici del regime» collaborazionista di Vichy2, ma la vicenda è sempre stata controversa e necessiterebbe di essere lumeggiata da una documentazione storica ancora carente o insufficiente.
D’altra parte, sarebbe molto difficile accusare Thibon di tradimento, pavidità, viltà, men che meno di cinico pacifismo, alla luce delle sue misurate, ma appassionate e coinvolgenti riflessioni sulla violenza e sulla guerra. Anche qui, per Thibon, si trattava di non peccare di fariseismo ma di ragionare pacatamente sulle possibili condizioni di legittimità di un eventuale ricorso cristiano alla violenza e alla guerra. Il cristiano deve astenersi da azioni o atti violenti, specialmente a scopi offensivi e distruttivi, e deve sempre sforzarsi di depotenziare la propria istintiva aggressività anche in rapporto a evidenti manifestazioni esterne di avversione, di ostilità e di deliberata e violenta aggressività, che vengano esercitate in modo illecito e arbitrario verso la sua persona oppure verso quelle di familiari, amici, conoscenti, concittadini o compatrioti e, naturalmente, fratelli di fede. Ma l’invito evangelico a “porgere l’altra guancia” è un invito a non cedere facilmente alla tentazione di rispondere, anche a proprio rischio e pericolo, con immediata e perentoria violenza a chi intenda provocarci, offenderci, umiliarci o sopprimerci, non certo a lasciarsi massacrare e a subire in modo totalmente passivo la brutale violenza altrui, specialmente quando questa sia totalmente immotivata, ingiustificata, ma unicamente basata su una volontà di sopraffazione e di dominio. Non resistere al male, come il vangelo raccomanda, non significa certo lasciarsi travolgere dal male che alcuni fanno in modo che si abbatta su di te, ma piuttosto non reagire al torto, all’offesa o al male subìto, con le stesse intenzioni malvage con cui essi siano stati esercitati contro la tua persona, ma solo in modi e con atteggiamenti limitati a salvaguardare la tua personale incolumità o quella di altre persone ingiustamente colpite, in altri termini solo rispondendo al male non con il male (volontà di colpire) ma con il bene (volontà di difendersi e di difendere).
Ma, più esattamente, quali sono le specifiche argomentazioni che sostengono il discorso di Thibon su violenza e guerra?3 Esiste violenza, egli scrive, «a tutti i livelli della creazione, eccetto quello delle grandi leggi che assicurano l’equilibrio e la continuità dell’universo», così come non si può «minimizzare la funzione immensa svolta dalla violenza nella genesi e nello sviluppo delle civiltà e, di rimando, delle religioni – bisogna pur riconoscerlo – nella loro forma umana e sociale». La storia cos’altro è se non «un tessuto indissolubile di violenza e di libertà. Spesso la libertà si innesta sulla violenza. Così si forma una civiltà; la violenza è talvolta come un’operazione chirurgica, o piuttosto come un innesto. Un albero al quale imponiamo un innesto subisce violenza; l’innesto attecchisce o no. Se sì, abbiamo una civiltà. Il paese che io abito – l’antica Occitania, – bisogna pur riconoscerlo, è stato atrocemente violato dalle genti del Nord; ha patito violenza all’epoca degli Albigesi. Ebbene, da questa violenza è nata l’unità francese e non credo troppo a tutto ciò che oggi ci raccontano dell’Occitania libera: abbiamo la Città francese. Fu una riuscita, perché dopo la violenza vi furono certi costumi, una integrazione, una civiltà – ciò che a volte si dimentica. E d’altronde l’Occitania, che fu violata dalle genti del Nord, era il frutto di numerosissime violenze: c’erano stati i barbari, i Romani, i Galli, e tanti altri!». Ma il cristianesimo, il vangelo, bisogna pur osservare, non sono certo violenti: esortano anzi, in modo esplicito, alla non violenza, all’umiltà, alla pazienza, alla mitezza. E Gesù esorta i suoi seguaci ad essere «perfetti, come lo è il vostro Padre celeste».
Certo, spiega il filosofo occitano, ma quello di Gesù è un consiglio oltremodo dinamico da intendersi in questi termini: sforzatevi di essere perfetti, di non stancarvi mai di perfezionare la vostra capacità di amare, perché non la perfezionerete mai abbastanza dal momento che l’amore del Padre sarà sempre infinitamente più perfetto di quel che potrà essere il vostro amore in ogni circostanza della vostra vita terrena. Dunque, Gesù non dice: se non diventate perfetti, per quanto mi riguarda siete spacciati, ma semplicemente, amorevolmente: sforzatevi, cercate di essere quanto più possibile degni dello stesso amore per cui io sono sceso in mezzo a voi per salvarvi. Fate del vostro meglio, fate il possibile per mettere tutte le vostre forze al servizio dell’amore e non dell’odio e della violenza, della giustizia e non dell’iniquità, della pace giusta e non di una belluina e arbitraria aggressività, senza demoralizzarvi se non sempre l’esito dei vostri sforzi sarà quello da voi sperato. L’importante è che le intenzioni del vostro agire siano realmente rette, sincere, buone, indirizzate a servire il prossimo e non ad opprimerlo, a spogliarlo della sua dignità e della sua libertà.
L’amore non si manifesta come violenza, nel senso che costitutivamente non ha niente a che fare con essa, e tuttavia, per amore, talvolta si può e si deve ricorrere alla violenza, che resta quindi una possibilità, non una necessità o una via maestra, così come a volte è necessario usare il forcipe per salvare una creatura da un parto particolarmente difficile che, se abbandonato a se stesso, potrebbe risultare fatale4. Certo, l’unico modo realmente lecito di far ricorso alla violenza è, come recita il vangelo, quello «di farsi violenza» interiormente per resistere alle tentazioni, alle passioni più negative, e non di esercitare violenza contro altri, ma è fin troppo semplice intuire che, se in nessuna circostanza della vita e in nessuna congiuntura storico-umana, fosse esercitata la forza o la violenza, non si potrebbe che assistere «al trionfo di tutti gli istinti di pigrizia e di anarchia, cioè alla rovina di ogni libertà reale. Onde risulta (volere o no, ciò si impone nel mondo della natura e nel mondo del peccato) – la necessità, la legittimità di talune forze in forma di violenza, al fine, da un lato, di migliorare l’individuo, e d’altra parte al fine di proteggere la società».
C’è, forse, qualche sprovveduto uomo di fede da non capire che Gesù non abbia mai inteso assolutizzare la rinuncia alla violenza e abbia piuttosto inteso potenziare e privilegiare, in tutte le situazioni di discordia e conflitto, le ragioni della sopportazione, dell’indulgenza, del compatimento, rispetto a quelle della reazione impulsiva, della difesa o dell’opposizione violente? In realtà, sul piano evangelico si danno diverse forme di violenza ugualmente legittime e necessarie: la violenza educativa, con la quale si insegna all’educando a rinunciare a una parte della sua libertà; la violenza repressiva, con la quale si tratta di impedire ai delinquenti di ogni specie di nuocere gravemente alla società; «la violenza difensiva, che consiste nel resistere all’aggressione o nel ribellarsi contro una nazione o una casta oppressiva. Vi è del pari la giusta guerra, o una rivoluzione provocata dalla tirannia. Del resto l’esistenza, in tempo di pace, di un potente esercito – potenziale permanente di violenza, che si chiama oggi forza deterrente – rientra in questa categoria. Mostrare la propria forza, per non doversene servire».
Il cristiano sa che bisogna distinguere tra Cesare e Dio, tra l’ordine politico e l’ordine spirituale, per cui lo Stato può esercitare legittimamente la forza, pur essendo passibile di essere contestato in caso di uso illegittimo, cioè arbitrario o sproporzionato, della forza stessa, e può esercitarla legittimamente non solo al suo interno ma anche nell’intraprendere una guerra o attività belliche necessarie a contrastare l’arrogante volontà di potenza e di conquista di qualche nemico desideroso solo di imporre la legge del più forte ovvero la sua presunta superiorità militare. Certo, il principio della giusta violenza può condurre ad una serie molto numerosa di ipocrisie vergognose, ma, d’altra parte, il dire la verità in modo argomentato e documentato, non può mai essere considerato come causa diretta dei suoi possibili fraintendimenti e dei suoi possibili usi strumentali5.
Anche per questo, Thibon non esita a riconoscere che, già nel 1935, con la violazione del Trattato di Versailles, si sarebbe resa necessaria una guerra preventiva contro Hitler, che aveva rioccupato la Renania, per impedirgli di costringere successivamente il mondo intero a confrontarsi e scontrarsi con lui in una guerra di gran lunga più sanguinosa e devastante6. Anzi, qui l’annotazione è molto personale e puntuale: «Ricordo di aver sostenuto questa idea», di guerra preventiva, «verso il 1935, in un gruppo di democristiani, di pacifisti. Dissi loro: la guerra preventiva mi sembra che si imponga, dato che Hitler ha messo le carte in tavola. Basta leggere «Mein Kampf». Suscitai le più violente proteste… E poi successe quel che successe… E mi ricordo anche di Simone Weil, che fu una grande anima, un grande spirito, e che evidentemente nel 1935 era fautrice della pace ad ogni costo e nel 1941 mi diceva — e Dio sa se era non-violenta, se era vicina a Gandhi, vicina al misticismo indiano — mi diceva: “Non espierò mai abbastanza il criminoso errore del pacifismo”».
Purtroppo, è ben vero che non c’è cosa di cui, talvolta anche in buona fede, non possa farsi un uso ideologico: della religione, come della filosofia e della scienza, della verità, come dell’amore e della giustizia, e come, per l’appunto, del cosiddetto pacifismo o “pacifismo integrale”, che, lungi dal configurarsi come amore per una pace evangelica, che è sempre intrisa, ad un tempo, di spirito di verità, di giustizia e di carità, corrisponde all’impotente ed egoistica cecità spirituale di colui che, del tutto indifferente alle mostruose ingiustizie del mondo e della storia, vorrebbe che le cose non cambiassero mai, sostenendo che in fondo è sempre troppo complicato distinguere tra i torti dei prepotenti e le ragioni degli innocenti, e che quindi non vale la pena di rischiare, con una conflittualità troppo accesa e con veri e propri scontri armati, spargimenti di sangue certamente più grandi e luttuosi di quelli più contenuti che di certo potrebbero derivare da accomodamenti, aggiustamenti, cedimenti, anche se ingiusti e infami, tra aggredito e aggressore.
Tutto ciò, naturalmente, non toglie che molte guerre potrebbero effettivamente evitarsi con etiche pubbliche più sane e lungimiranti e con politiche interne ed estere più accorte, più controllate ed equanimi verso tutti i soggetti dello scacchiere politico-militare internazionale. Specialmente quando si ha a che fare con Stati retti da tiranni spietati e sanguinari o da rappresentanti manifestamente indegni di popolo, è tuttavia probabile che, prima o poi, già al loro interno vengano al pettine nodi inestricabili con ampie possibilità che possano riprodursi anche nel rapporto con altri Stati: in questi casi, cos’altro si potrebbe fare se non sperare gramscianamente di tagliarli facendo ricorso alla spada?
Nella stessa «prospettiva cristiana» — che si colloca in una posizione intermedia tra una violenza deliberata a scopo offensivo, estorsivo, oppressivo e distruttivo, e una violenza difensiva, altrettanto delegittimata, per motivi quietistici, per apatìa esistenziale o cinica indifferenza alle disgrazie altrui, oltre che per eventuale impossibilità pratica di tentare una qualche difesa— «la violenza rappresenta una necessità di fatto, dovuta all’imperfezione della nostra natura e alla presenza molto virulenta del peccato in noi; una necessità di fatto che va ridotta al minimo indispensabile per evitare un maggior male». La prospettiva del cristiano, argomenta saggiamente Thibon, è una prospettiva di fede, una prospettiva trascendente in cui «egli non si rassegna alla violenza se non quando essa contribuisca alla sopravvivenza e all’espandersi di quelle città carnali che – come dice Péguy – sono il corpo della Città di Dio. Anche lui, Péguy, approvò la violenza, morendo nella guerra del 1914, la quale del resto non servì a un gran che. Ma questo è un altro problema. Gli eroi restano eroi, sotto ogni bandiera».
Bisogna sempre vigilare sui valori materiali, proprio per non dover mai rinunciare, o almeno per poter sinceramente sperare di non dover mai rinunciare alle superiori realtà spirituali. Duole constatare che molti cristiani, affetti da patologico purismo spirituale o piuttosto da un invisibile morbo di ben altra natura, non riescano ancora a comprendere o fingano di non comprendere una verità così semplice e mai negata nelle narrazioni evangeliche. Esistono persone, intellettuali, accademici, professionisti della politica, dell’economia, della carta stampata, gente comune, che sputano ogni giorno cattiveria, veleno altamente tossico, con dichiarazioni, articoli o saggi, deliberatamente volti a seminare odio, ad acuire i contrasti, a delegittimare grandi e seri valori etico-morali del mondo e qualunque azione finalizzata a perseguirli sia pure imperfettamente, solo per motivi di visibilità personale, per motivi autocelebrativi o decisamente lucrativi.
Costoro sono assassini interiormente e poi, per apparire candidi apostoli della pace e della fraternità tra i popoli, si professano pacifisti e nemici di ogni guerra, offensiva o difensiva che sia. Questi sono i bastardi dello spirito e, ove si professino credenti in qualche Dio o soprattutto nell’unico e vero Dio cristiano, sono apostati oltremodo subdoli e insidiosi dall’evangelico spirito di verità. Questa è, all’incirca, la potente lezione etica e religiosa del semplice ma immenso filosofo-contadino Gustave Thibon. E’ una lezione che tende ad unire il genere umano non tanto gettando ponti spesso generici e superficiali di fratellanza ma costruendo e innalzando scale, assai solide e ben piantate sulla terra, di verità e di preghiera verso Dio, perché chi non sale fino a Dio non può mai incontrare un fratello. Senza Dio, nessuna cultura, nessun pensiero, nessuna etica e nessuna spiritualità, ha radici, ha un fondamento solido su cui sia possibile edificare forme realmente consistenti e universali di sapere e norme sicure di vita e di comportamento morali.
E’ solo l’amore per le radici, per la tradizione, per una ormai consolidata e lungamente sperimentata spiritualità evangelica, di cui occorre tuttavia intendere correttamente il significato e le implicazioni e che bisogna coltivare in modi appropriati, e quindi per ciò senza cui tutto sarebbe malfermo, incerto, precario, che può consentire di affrontare dignitosamente la transitorietà, l’instabilità e la volubilità delle esperienze terrene, di trovare un sicuro orientamento nelle più tempestose giornate della vita e della storia, di resistere alla violenza destabilizzante dei pregiudizi e di contestare, con efficacia e piglio rivoluzionari, la folle o irrazionale passione contestataria del mondo7. Anche per questo, è molto pertinente il giudizio di chi ha scritto: «Thibon era legato alla terra e al cielo, contadino e credente, nutrito di un amore metafisico per la realtà. Amava la tradizione e non la coniugava al passato né la relegava in un astratto Mondo Perfetto, ma la ritrovava nella vita che s’incarna di continuo, nelle radici che danno frutti e nel sole che si rinnova ogni mattino. “Non opporsi ai cambiamenti ma impregnarli d’eterno”. Gabriel Marcel apprezzò la freschezza profonda della sua anima in comunione con la natura, la familiarità col silenzio e la sua vita regolata al ritmo del cosmo. Per Thibon, un vero aristocratico si distingue ma non si separa dalla gente con sdegnoso snobismo; è il suo stile, la sua grazia, la sua essenza a distinguerlo. La nobiltà ha cadute, non bassezze. Il contadino ha radici, scrive Thibon, perciò non teme il vento e non diventa suo trastullo»8.
A differenza del pur rispettabile spiritualismo intellettualistico della sua carissima amica e sorella di fede Simone Weil, quello thiboniano fu piuttosto uno spiritualismo realista e pragmatico ed è anche per questo che il filosofo contadino sarebbe giunto, prima di lei, a riconoscere che anche la guerra costituisce talvolta una dura necessità della vita ma anche una concreta opportunità per mettere un prezioso e insostituibile spirito di sacrificio e di servizio a disposizione di un’umanità combattente non per odio ma per amore della libertà di tutti i popoli e di ogni popolo, in un vincolo di fedeltà al Dio-Amore. Ma Thibon non fu mai né un filosofo politicamente impegnato, per quanto egli si dichiarasse, in senso vagamente e giocosamente simbolico, di fede monarchica, né uno di quei maestri spirituali convinti di poter dispensare ricette mirabolanti o miracolose nei vari ambiti teorico-pratici dell’umano peregrinare. Non fu maestro, perché egli sperò di essere sempre e solo un fedele discepolo dell’unico e santo maestro dell’umanità, né fu politicamente impegnato al di là del dovere cristiano di ricordare che qualunque assolutizzazione di determinati valori politici, finisce immancabilmente per collidere con la doverosa fedeltà ai valori assoluti di Dio. Anzi, in questo senso, se non sul piano specificamente politico, egli si sarebbe concretamente impegnato sul piano etico-civile, sempre cercando di andare controcorrente rispetto a modelli e categorie di una multiforme ma conformistica e banale cultura dominante e di contrastarne fragilità, unilateralità e ambiguità, e la sua stessa tendenza a crearsi degli assoluti terrestri.
Si è già detto che fu apostolo di una spiritualità attiva, dinamica, appassionata, realistica e pragmatica, pur nel quadro di una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio e al messaggio evangelico. Il realismo cristiano di Thibon non era né pessimista, né ottimista, ma un realismo che restava aperto all’intervento della Grazia e alla speranza di redenzione: «Non dimenticare mai», scrive significativamente in “Ritorno al reale”, «che l’uomo è uscito dal nulla e non dimenticare anche che è Dio che l’ha tirato fuori da là. La prima di queste verità ti salverà dall’utopia, la seconda dalla disperazione»9. Dove c’è vera spiritualità evangelica, per Thibon, non è possibile pensare e vivere in conformità ad una logica del compromesso, della mediazione a tutti i costi tra parresìa evangelica e fariseismo mondano, del mediocre “giusto mezzo”, dell’opportunismo o del calcolo più o meno mascherato10. Non si tratta, evidentemente di essere avventati, impulsivi, rigidi, nei propri giudizi e scelte, nei rapporti interpersonali o nelle relazioni sociali e politiche, perché il presupposto dell’agire evangelico, dell’agire virtuoso e lungimirante, dev’essere pur sempre una saggezza, anzi una ispirata e coraggiosa sapienza fatta di prudenza e di buon senso ma anche di rigorosa capacità di discernimento, di disponibilità umana ma anche di coraggio e determinazione, di spirito di pacificazione ma anche di spirito di lotta i di combattimento contro ogni forma personale e collettiva di male e di iniquità.
Si tratta, invece, di non fare della propria vita un continuo e opportunistico esercizio di equilibrismo esistenziale, di non piegare le proprie idee e convinzioni, i propri atti, alle mode mutevoli del tempo e al conformismo del politeismo culturale e religioso di volta in volta dominante. In sostanza, si tratta di essere equilibrati, che è condizione di decisioni e azioni giuste che possono giungere persino fino a comportamenti particolarmente audaci o eroici, fino all’immolazione della propria vita, per spirito di carità e di abnegazione, ma non equilibristi, non cultori di un acrobatismo o camaleontismo etico-esistenziale e religioso.
Dinanzi ad un evento particolarmente drammatico come una resistenza armata per legittima difesa personale, familiare, comunitaria, o come una guerra, non è sufficiente esprimersi a suo favore o sfavore, ma bisogna chiedersi continuamente perché la si ritenga necessaria oppure illecita e inopportuna, giusta o parimenti ingiusta come tutte le altre guerre: bisogna, cioè, non ragionare in astratto o secondo criteri di pura e apparente convenienza, non alla luce di un ideale illusorio di pace che si faccia consistere in una mancanza o assenza momentanea di guerra, ma mobilitare energicamente la propria coscienza per riuscire a stabilire se possa considerarsi degna una vita completamente o prevalentemente chiusa al grido straziante di dolore e di aiuto di fratelli e popoli non disposti a barattare la propria sopravvivenza con la rinuncia alla propria libertà personale o alla propria sovranità popolare.
Si tratta, altresì, di non idolatrare la vita temendo di perderla troppo presto a causa di scelte a torto ritenute rischiose o improvvide piuttosto che doverose ed eticamente necessarie; si tratta di non commettere mai l’errore di capovolgere la piramide dei valori, ponendo in alto i valori utilitaristici e transeunti del mondo e in basso i valori altruistici ed eterni dello spirito e del Regno di Dio, oppure quest’ultimi a rimorchio dei primi e non viceversa. Un mondo con Dio in basso o posto in alto solo per finta è un mondo che cammina non con Dio ma sopra Dio, ignorando e calpestando Dio. Non si può essere neutrali o pacifisti mentre si percepiscono grida disperate e incolpevoli di aiuto a poca o a grande distanza da noi, non si potrà reclamare la propria innocenza davanti a Dio per aver negato assistenza e soccorsi adeguati anche e innanzitutto di natura militare, nel nome della sopravvivenza del genere umano, anche perché il genere umano sopravvive più a lungo, per grazia di Dio, solo se si nutre di altruismo, spirito di sacrificio, generosità e fraterna solidarietà, piuttosto che di egoismo, qualunquismo, edonismo, falso ed ipocrita universalismo etico e religioso.
Anche oggi, quasi alla fine del primo quarto del secolo XXI, e anzi oggi più di ieri, è in atto una «spaventosa caricatura dei costumi divini». In modo infaticabile, scriveva Gabriel Marcel nella sua “prefazione” ad un’importante opera di Thibon, questi aveva denunciato «la presenza e i misfatti di una idolatria proprio là dove un razionalismo che ha perduto ogni contatto con le sue radici ontologiche, vale a dire con la Verità che è nello stesso tempo la Vita, crede di poter celebrare l’emancipazione definitiva dello spirito umano»11. Certo, il filosofo cattolico francese sarebbe stato anche accusato di essere un esponente della destra francese, «un nemico del regime democratico e del socialismo», anche se le affinità tra la democrazia e il socialismo non sono propriamente evidenti, ma egli, per bocca di Marcel, avrebbe risposto in modo chiaro e inequivocabile: «Non attacchiamo la democrazia in senso generico … ma quella pseudo-democrazia basata sulla legge del numero e sui giochi della politica e del denaro che, spogliando il popolo dei suoi legami e dei suoi appigli naturali, porta necessariamente al totalitarismo … vogliamo sostituire i valori vitali e spirituali ai valori finanziari … Se il socialismo consiste nel porre un freno agli eccessi del capitalismo liberale per avvantaggiare le comunità e le gerarchie naturali, noi siamo socialisti. Ma, se consiste nel distruggere il capitalismo liberale a profitto del capitalismo di Stato, più estraneo ancora ai bisogni profondi dell’uomo, non siamo più socialisti»12.
A giudicare da queste parole, non sembrerebbe che quell’intellettuale conservatore esprimesse proprio delle infami corbellerie su democrazia e socialismo. Ma, come è stato giustamente evidenziato nel quotidiano “Avvenire”, egli alla fine giganteggiava per la saggezza filosofica e religiosa che, totalmente estranea alla filosofia del suo come del nostro tempo, ne rende felicemente inattuale e più che mai feconda la riflessione filosofica: «In una società che sta facendo a pezzi i legami, l’uomo, senza più alcun riferimento alla famiglia, alla terra e alla comunità, è uno sradicato che ha smarrito il buon senso, il senso della realtà. E consapevole di essere anticonformista Thibon attacca: “Si rimprovera alla filosofia del buon senso di essere mediocre e terra a terra. Risponderò che non escludo a priori le follie sublimi, ma che, per l’appunto, bisogna avere molto buon senso per discernere le circostanze in cui conviene perderlo”. Tenace filosofo del buon senso (oggi perduto), la sua profondità è quella di un uomo che ha grande confidenza con le Scritture. Come mostrano anche alcuni aforismi: “L’uomo nobile è colui che la sofferenza rende tenero e che la felicità fa pregare”. O ancora: “Paradossalmente, si è pronti a morire solo nella misura in cui si hanno delle vere ragioni per vivere”. Sono perle di vera saggezza, quella che consiste nel rimanere fedeli tanto al realismo della terra quanto alle verità eterne del cielo, poiché: “Le cose supreme non si espandono che dall’altro lato della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e il loro fragile seme è nei nostri cuori, e nulla fiorisce nel cielo che non sia almeno germogliato sulla terra”»13.
NOTE
1 Istruttivo al riguardo è il bel libro di Raphaël Debaillac, Gustave Thibon, la leçon du silence, Paris, Desclée de Brouwer, 2014, insieme al libro, pur diverso per taglio e densità-qualità interpretativa, di S. De Angelis, Il cristianesimo radicale del filosofo contadino, Caltanissetta, Edizioni Lussografiche, 2017.
2 Francine Muel-Dreyfus, La rééducation de la sociologie sous le régime de Vichy, in “Actes de la recherche en sciences sociales” 2004/3, n. 153, pp. 65-77.
3 Qui, è punto di riferimento obbligato il suo libro: G. Thibon, La violenza al servizio della libertà, in AA.VV., Forza e violenza, Roma, Volpe, 1973, pp. 119-154.
4 Ed è per questo che la cultura occidentale è funzionale non solo a strategie teorico-educative di contenimento o di uso controllato delle forme più naturali e istintuali di aggressività e violenza, ma anche ad un’opera di razionalizzazione della violenza nel quadro di pratiche, discorsi, atti costitutivi e costituenti della civiltà umana: su questo tema, può essere utile la lettura di un libro come: (a cura di R. Barcellona-T. Sardella), Violenza delle parole, parole della violenza, Sesto San Giovanni (Milano), Mimesis, 2019.
5 In tal senso, sono meritevoli di attenzione libri attentamente meditati, anche se caratterizzati da valutazioni diverse, come: A. A. Cassi, Santa, giusta, umanitaria. La guerra nella civiltà occidentale, Roma, Salerno Editrice, 2015, e AA.VV., Esiste una guerra giusta? 13 punti di vista su interventismo e pacifismo, Torino, UTET, 2023.
6 Thibon soppesa giudizi e parole, non è mai avventato nelle sue analisi, né resta prigioniero di pregiudizi di qualunque genere. Egli seppe sempre unire un’eccezionale flessibilità ad un’ammirevole fermezza che, insieme, appartengono solo alle grandi menti, la cui caratteristica è quella di essere totalmente libere, come si può agevolmente evincere dal libro: G. Thibon, Au secours des évidences, Paris, Mame, 2022.
7 Questi concetti, questa impostazione valoriale è possibile ritrovare chiaramente in libri come: G. Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale (1940), con prefazione di Gabriel Marcel, Roma, Volpe, 1973, e G. Thibon, Ritorno al reale. Nuove diagnosi (1943), Roma, Volpe, 1972
8 M. Veneziani, Thibon, l’uomo che coltivava la terra pensando al cielo, in “La Verità” del 19 gennaio 2021.
9 G. Thibon, Ritorno al reale, cit. Per una accurata analisi della diagnosi thiboniana sul fenomeno di sradicamento radicale dell’umanità contemporanea, si può vedere E. Nadai, Gustave Thibon. Fede e filosofia di un pensatore cristiano, Verona, Fede&Cultura, 2023.
10 Sono concetti molto presenti nella già citata opera di Thibon, Ritorno al reale.
11 G. Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, cit., p. 6.
12 G. Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, cit., p. 7 e pp. 9-10.
13 A. Giuliano, Il filosofo contadino. Gustave Thibon, maestro di buon senso, in “Avvenire” del 3 ottobre 2019.