Gherardo Colombo non è solo un famoso magistrato italiano ma anche un uomo di notevole cultura storico-letteraria e di discreta cultura biblico-religiosa, là dove questo abbinamento di scienza e pratica del diritto e cultura umanistica e teologica non costituisce certo un dato scontato e particolarmente ricorrente almeno nell’ordine dei magistrati italiani. Si conosce anche il suo impegno civile di ex magistrato e di uomo sensibile alle variegate problematiche della società italiana sia pure in relazione, in modo specifico, al tema della giustizia. Per Colombo, tale tema rischia di essere incomprensibile o insufficientemente chiaro ove lo si venga trattando esclusivamente e riduttivamente in termini di diritto positivo, di corpo storico di leggi date, di pratica giuridico-giudiziaria. E’ molto significativo, per esempio, che egli si sia trovato ad affrontarlo nel quadro di una conferenza su Dante Alighieri come cantore insuperabile della giustizia divina, sebbene caratterialmente molto passionale e forse non sempre capace di giudizi del tutto imparziali. In tal senso, la giustizia divina nella sua somma opera, la “Divina Commedia”, pur esprimendone gli alti ideali e gli universali valori, riflette altresì l’ostinata o caparbia fermezza del poeta nel dare seguito coerentemente alle proprie convinzioni su questioni di vitale importanza morale e sino al punto di preferire l’esilio al ritorno nella sua città natale, per non essersi visto tributare il giusto riconoscimento.
Per Dante, osserva Colombo, non si dà forma di giustizia umana, cioè di giustizia civile e legale, e volta quindi a garantire la sicurezza sociale e istituzionale dello Stato e i diritti di ogni singolo suddito o cittadino, che non derivi dalla giustizia divina, che nel caso del poeta fiorentino non può essere altro che quella biblico-neotestamentaria, e dal diritto naturale che ne è una diretta emanazione, anche se ogni costruzione etico-culturale derivante dalle Scritture può risultare più o meno condizionata dalla qualità ermeneutica del processo esegetico-interpretativo e dal maggiore o minore grado di soggettivismo in esso contenuto1. Ora, il giudice lombardo, nel ritenere che il modello prevalente di giustizia nella “Divina Commedia” sia quello retributivo, secondo cui al bene corrisponda il bene e al male il male2, secondo cui più esattamente il male commesso con il delitto debba essere retribuito con il male della pena e anzi con un male ancor più afflittivo rispetto a quello che viene inflitto con il delitto e con il peccato, è convinto che, pur affiancandosi a tale pena, nel grandioso affresco poetico-esistenziale dantesco, pene di natura diversa come quella riparativa e rieducativa proposta e adottata nel “Purgatorio”, la religiosità, per quanto molto intensa di tale modello di giustizia, si richiami «quasi esclusivamente alla Bibbia dimenticando il Vangelo»3.
Qui Colombo tende forse a divaricare eccessivamente e arbitrariamente il rapporto di sia pure relativa discontinuità tra Primo Testamento e Nuovo Testamento, comprensivo ovviamente di quei vangeli in cui si trova molto più spirito vetero-testamentario di quel che Colombo sembra presumere, nel senso che l’amore evangelico è indubbiamente la stella polare che illumina il cammino del seguace di Cristo e della società che ai suoi insegnamenti tenda ad ispirarsi, ma bisogna ricordare che quello stesso amore non impedisce a Cristo né di rispettare la tradizione vetero-testamentaria, né di tracciare una netta linea di demarcazione tra il potere di Cesare, dell’Impero o dello Stato, e il potere spirituale e religioso che è poi il potere stesso della Chiesa. In altri termini, per tutte le questioni di natura temporale, politica e giuridica, giudiziaria e militare, invita apostoli e credenti ad affidarsi a Cesare e a rispettarne le leggi, i codici, le pratiche punitive e carcerarie, purché, attraverso i suoi poteri istituzionali e discrezionali, egli non venga snaturando il significato della sua funzione di governo ma operando nell’esclusivo interesse della comunità e nel rispetto delle idee civili di ciascuno. Tutto questo era ben noto a Dante Alighieri che, pur sommo poeta, non era molto meno capace in qualità di studioso del diritto4. L’amore evangelico non interferisce nelle tecniche e nei sistemi giudiziari dei vari Stati, nel senso che, pur dovendo agire nei loro stessi confronti come lievito di carità e di giustizia e come monito non ad inasprire ulteriormente le pene ma a moderarle, esso non si intromette preventivamente nelle libere decisioni degli Stati e dei loro giudici, anch’essi legittimati da Dio ad esercitare giustizia e tenuti a rendere conto a Dio stesso, come tutti gli altri uomini del loro operato. Dio-Amore, biblicamente, non può mai collidere con la sua giustizia, perché sarebbe inconcepibile un Dio che elargisse bontà, misericordia, perdono, secondo arbitrio o capriccio e non secondo regole che, per quanto costitutivamente indulgenti e flessibili, abbiano tuttavia a che fare con un principio razionale e sovrannaturale ad un tempo di giustizia.
Da questo punto di vista, la pure garbata critica colombiana alla religiosità dantesca, in vero molto più meditata e molto meglio coltivata di quella del suo tempo, è da ritenersi abbastanza imprecisa e gratuita, perché l’amore biblico-evangelico, in linea di principio, non demonizza e non delegittima frontalmente le realtà storico-umane, le istituzioni politiche, giuridiche e culturali esistenti, a scapito di un necessario ed efficace principio di giustizia, quanto meno ispirato ai princìpi del diritto naturale, ma, proprio come fa nei rapporti con il prossimo, le accoglie, cerca di comprenderne la specifica ratio storico-politica e le particolari istanze operative, tenta pacificamente di integrarne i modelli di valutazione e di giudizio, di ampliarne e migliorarne le capacità applicative, nel quadro di un agognato e oggettivamente desiderabile processo di umanizzazione del mondo, in cui né la misericordia venga troppo indebolendo e vanificando la giustizia, anche o proprio nei suoi aspetti più severi e rigorosi, né la giustizia venga troppo prevaricando sulla misericordia e sulle sue possibili implicazioni riconciliative.
Anche Dante sapeva bene che la giustizia divina prevede innanzitutto la possibilità della riconciliazione tra carnefice e vittima, tra offensore e offeso, così come sapeva che spesso, come una bimillenaria esperienza storica insegna, non risulta possibile riconciliarsi. Se, nel suo poema, egli viene proponendo una giustizia particolarmente severa e afflittiva, è perché evidentemente i reati, i misfatti, i delitti della sua epoca erano talmente crudeli ed efferati da richiedere soluzioni drastiche e fortemente repressive, al fine di poter almeno contenere se non debellare gli effetti più distruttivi della criminalità, della corruzione, dei cattivi costumi e delle immorali pratiche di vita. La società in cui vive Dante non è una società permeata di amore e carità evangelici, né tanto meno di giustizia umana, in quanto in realtà il primo concreto effetto di un amore non frainteso non potrebbe che essere la giustizia, ciò che è giusto per l’altro, il bene, il bene possibile per il prossimo bisognoso, oppresso, perseguitato, per un’intera comunità piuttosto che per gli interessi egoistici di alcuni. E anche la giustizia giudiziaria, in senso rigorosamente evangelico, lungi dall’essere concepita in senso giustizialistico, andrebbe tuttavia amata in modo meno buonista e meno ipocrita, o meno autocolpevolistico se si vuole, di quanto ormai larga parte di giuristi italiani, per motivi su cui qui sarebbe troppo complicato indagare, non sia disposta a fare.
Né è razionalmente accettabile che si venga sventolando l’argomentazione per cui persino la più perfetta giustizia umana non potrebbe restituire alle vittime la quiete che cercano, solo per arrogarsi il diritto, questo sì arbitrario e disumano, di essere magnanimi, magari sino al punto di scarcerare dopo alcuni anni gli artefici di orrendi e conclamati delitti. Questa non potrebbe chiamarsi, in nessun caso, pietà o misericordia, che sono sentimenti nobilissimi, ma semplicemente ingiustizia inescusabile. D’altra parte, giustizia e misericordia vanno sempre commisurati a uno specifico contesto storico, personale, familiare, etico-culturale, e la loro applicazione non può essere aprioristicamente generalizzata ma esercitata, volta a volta, con grande prudenza e sapienza5. Certo, è altresì vero che storicamente il diritto evolve al pari di tutte le creazioni o i prodotti storico-culturali e che, pertanto, ci si venga gradualmente allontanando dall’antico presupposto secondo cui sia da ritenere giusta solo la legge i cui contenuti vengano rispecchiando fedelmente il diritto naturale radicato nella giustizia divina. Nella società laica contemporanea, non sarebbe possibile, osserva Colombo, sostenere che una determinata legge sia necessariamente ingiusta solo perché in contrasto con la lectio giuridica di origine tomista, quella per cui appunto una legge sarebbe ingiusta ove lo iustum legale venga a confliggere con lo iustum naturale. La mentalità dell’umanità contemporanea non è più, in linea generale e nelle stesse comunità cattoliche, una mentalità marcatamente religiosa ed eticamente rigorista come quella medievale, né, sul piano intellettuale, si potrebbe costringere chicchessia a condividere regole contro il suo libero pensiero.
Tale ragionamento, in parte pertinente, comporta però delle incongruenze per lo stesso giudice milanese che, come si precedentemente notato, trovava un termine significativo di riferimento per il diritto moderno nel vangelo, non nel Vecchio Testamento, sintetizzato da lui un po’ troppo disinvoltamente nella “legge del taglione”, di cui peraltro non sembra aver inteso il senso teologico, che consiste proprio nel voler limitare ed equiparare proporzionalmente la violenza della risposta legale alla violenza dell’offesa ricevuta. E’ cioè inutile considerare il vangelo, il vangelo noto a Colombo, tanto per intenderci, come possibile paradigma di giustizia e di etica giuridica, se poi, a causa dell’evoluzione storica, fosse legittimo anche arrivare a concepire un diritto totalmente sganciato da princìpi e valori religiosi tradizionali. Questo, tuttavia, condannerebbe il diritto ad evolvere verso forme sempre più soggettivistiche di teorizzazione giuridica. Fortunatamente, l’evoluzione storica non è sconnessa da confronti e discussioni animate tra giuristi di ogni tendenza filosofica e religiosa, e questo dovrebbe restare a garanzia di esiti giuridico-giurisprudenziali di volta in volta sufficientemente equilibrati o suscettibili di ripensamenti critici sempre necessari a conferire alla giustizia una funzione di equità almeno tendenzialmente oggettiva, anche se i possibili scenari storici potrebbero essere numerosi e non tutti agevolmente prevedibili.
Ma, al di là dell’interpretazione storicistica, umanitaria, non autoritaria, aconfessionale, e quanto più possibile partecipativa e democratica, della natura e della funzione regolativa e prescrittiva del diritto nella storia, la concezione che Colombo viene proponendo del diritto come principio di giustizia sembrerebbe essere viziata da un punto di particolare criticità anche se di fondamentale importanza per il giudice milanese: «Progressivamente mi sono convinto che, perché la giustizia cambi, sarebbe stato utile .. intensificare quel che già cercavo di fare nei momenti lasciati liberi dalla professione: girare per scuole, università, parrocchie, e in qualunque altro posto mi invitassero a dialogare sul tema delle regole. La giustizia non può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le regole è malato, sofferto, segnato dall’incomunicabilità. Non può funzionare l’amministrazione della giustizia, quel complesso che coinvolge i giudici, i tribunali, le corti, gli avvocati, i pubblici ministeri, le prigioni, le persone sul cui destino tutto ciò incide il più delle volte pesantemente. E non può funzionare la giustizia intesa come punto di riferimento, come base dei rapporti tra gli abitanti del mondo, dispensatrice, prima ancora che verificatrice, di quel che spetta e quel che è tabù, delle possibilità e dei carichi, degli ordini e dei divieti, delle limitazioni e della libertà. La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo comprendono tendono ad eludere le regole, quando le vedono faticose, e a violarle, quando non rispondono alla loro volontà. Perché la giustizia funzioni, è necessario che cambi questo rapporto»6.
Mi limito a discutere il nocciolo della questione: intanto c’è da constatare che il dottor Colombo si sente investito da una speciale vocazione missionaria, non solo quella di amministrare in prima persona la giustizia, ma quella di andarla a spiegare nei vari comparti della società. La stessa cosa probabilmente sentiranno di fare professionisti di altre attività specialistiche, anche se personalmente penso che in una società sufficientemente produttiva e ordinata ognuno dovrebbe limitarsi a svolgere il compito che la comunità gli ha affidato: il grande cattedratico di scienze mediche valuterà come indispensabile la sua attività didattica ben oltre le mura universitarie o ospedaliere per spiegare i problemi della medicina e soprattutto le difficoltà inerenti il rapporto tra assistenza sanitaria e cittadini, il cattedratico pluripremiato di filosofia vorrà contribuire a chiarire le ragioni del totale o parziale disinteresse di molti giovani per le attività scolastiche o, più in generale, per i problemi del sapere o della cultura, e via dicendo. Sono tutte cose che chiunque, se crede, legittimamente può trattare scrivendo, ma è molto più difficile capire per quale motivo ci si debba preoccupare di fare vere e proprie campagne di informazione e formazione nelle aree più eterogenee del territorio peninsulare, anche se invitati, dal momento che la gente, desiderosa di sapere e di capire, ormai può facilmente accedere ad una amplissima pluralità di canali informativi. Peraltro, bisognerebbe chiedersi se non sia il caso che certi ruoli vengano affidati prioritariamente alla politica.
Lo dico con molta franchezza: la giustizia non funziona non tanto perché questa o quella regola sia sbagliata, pur rimanendo ovviamente suscettibile di essere corretta, non perché i cittadini (poi c’è sempre da chiedersi quali cittadini, anziché usare un plurale generico e indefinito che renda il discorso ancora più astratto) non capiscano la ratio o il senso di determinate regole, non perché molte regole possano essere realmente ingiuste, quanto principalmente perché, quali che siano le carenze, le lacune, le omissioni, le forzature e le ambiguità delle leggi sotto lo specifico aspetto giurisprudenziale e procedurale, gli amministratori del diritto, in un elevato numero di casi, non sono evidentemente ben preparati in senso tecnico-professionale e/o lo sono ancora meno sul piano morale. Il problema della giustizia, in tutte le epoche, non consiste tanto nel fatto che il magistrato debba andare in giro a spiegare il perché e il come delle regole della giustizia, ma di applicare le leggi vigenti comunque, con intelligenza e diligenza e con elevato senso di equità, anche se in situazioni sociali alquanto sfavorevoli, al fine di non lasciare insoddisfatti i fruitori diretti e indiretti della giustizia. La giustizia è in crisi quando proceduralmente risulti alterata da fattori anomali, condizionamenti esterni, falsità, irregolarità, omissioni o inesattezze, non correttamente riscontrate e denunciate, e anzi avallate dal o dai giudici, quando le leggi non vengono applicate in modo appropriato ma in modo distorto o strumentale, quando il giudicante, pur palesemente o verisimilmente corrotto o corruttore, resti impunito o ammonito con poco danno.
Per questo, non per altro, la giustizia non funziona e i cittadini, quelli onesti evidentemente, hanno sempre da recriminare contro giudici e tribunali. Ma poi come si può credere che, se i cittadini fossero messi nella condizione di capire e accettare più agevolmente le regole, i problemi della giustizia potrebbero essere avviati a più agevole soluzionee? E’ come voler adottare una sorta di socratismo etico-giuridico: i cittadini fanno il male, trasgrediscono le leggi, non rispettano le regole, per semplice diffidenza o perché pensano che siano sbagliate, ingiuste e incorregibili, ma, attraverso il dialogo, il ragionamento maieutico, volto a demolirne i pregiudizi e gli infondati timori di essere raggirati da leggi deliberatamente o almeno inemendabilmente erronee o arbitrarie, possono riacquistare serenità di giudizio e confidare nella loro stessa facoltà di esercitare un controllo correttivo e integrativo, diretto o indiretto, sia sul legislatore che sulle stesse pratiche logico-giuridico-procedurali. Così, i cittadini, sapendo quel che prima non sapevano, venendo soprattutto a conoscenza, o meglio acquistando coscienza del fatto che la crisi della giustizia formale e istituzionale è causata soprattutto dalla cattiva abitudine degli stessi cittadini di violare o aggirare le regole nella loro stessa quotidianità, possono correggere i loro comportamenti e contribuire a rendere più fluido e rapido il corso stesso della giustizia. Fino a quando uno non sa esattamente le cose, non sa che il suo modo di pensare e di agire può incidere molto sul sistema giustizia, in altri termini non è cosciente di quali siano le condizioni complessive del bene e della giustizia, non sa di non sapere, non può che concorrere in misura rilevante alla persistenza e alla reiterazione storico-istituzionale di un apparato giuridico e giudiziario congestionato, contraddittorio e inefficiente, e persino iniquo.
Ma questo metodo maieutico proposto da Colombo, che di certo sarebbe molto valido e proficuo in e per tutti gli ambiti istituzionali e professionali della società e dello Stato, non è affatto sufficiente a spiegare la persistente e ricorrente crisi della giustizia nel mondo. Innanzitutto perché l’esigenza di giustizia e l’elaborazione di un insieme di norme in grado di regolamentare i comportamenti umani, di fissare i diritti e i doveri dei sudditi e dei cittadini, di imporre divieti e limitazioni alle libertà individuali nel nome e per conto delle libertà di tutti, nascono storicamente dalla consapevolezza empirica che gli esseri umani sono portati dalle loro inclinazioni naturali sia a cooperare, non foss’altro che per oggettive ragioni utilitarie, sia ad infrangere virtualmente o realmente, a cominciare dal rapporto io-tu che è il più elementare delle relazioni interpersonali, le regole della convivenza, le convenzioni giuridico-sociali finalizzate a rendere possibile la coesistenza tra individui diversissimi per molteplici aspetti e interessi, e ad entrare in conflitto con i propri simili. Le leggi, il diritto civile e penale, le sentenze, le condanne, le misure carcerarie si spiegano in ragione di una coscienza collettiva realistica e largamente acquisita circa il fondamento e lo scopo fondamentalmente ordinativi, preventivi, repressivi, dell’ideale/apparato storico di giustizia.
Nella sua stessa genesi storico-teorica l’idea di giustizia ha già messo in conto di poter e dover essere eventualmente applicata ad un’intera società, ad una società ipoteticamente attraversata da cima a fondo dall’avidità, dalla disonestà, dalla corruzione e dalla malversazione, dall’usura e dal ricatto, da reati e delitti di ogni genere, ed è venuta incentrandosi sul principio-cardine di dover perseguire civilmente e penalmente, sia pure sulla base di criteri proporzionalistici, qualunque colpa, infrazione, misfatto, crimine, non solo per preservare nel miglior modo possibile l’armonia e l’integrità del corpo sociale e statuale, ma anche per sottolineare che il compito che si prefigge la legge, anche sul piano civico ed etico-sociale, è quello di sanzionare e punire, ancor più degli artefici di determinati atti criminosi, lo stesso atto criminoso o delittuoso, dove potrebbe cogliersi probabilmente del noto concetto hegeliano per cui la pena inflitta ai rei è il ripristino del diritto violato dal delitto e la violenza del delitto è annullata dalla giusta o riparatrice violenza del diritto7, che solo ipocritamente potrebbe definirsi non violento. Beninteso, da un punto di vista evangelico e cristiano, personalmente non ritengo vi sia, in linea di principio, alcunché da eccepire, mentre tutt’altro discorso è quello che riguarda le concrete modalità esecutive della pena che potrebbero essere anche abnormemente difformi da quelle previste dalla legge stessa. Ma io ho inteso dire che “il comportamento trasgressivo dei cittadini”, che non dipende semplicemente, come dice Colombo, da modi errati di intendere il vangelo, o una determinata filosofia, ideologia o etica8, lungi dal poter incidere negativamente sul sistema giustizia, ne è piuttosto il presupposto storico e teorico. La legge c’è, perché esiste il crimine, perché gli uomini, tutti indistintamente, dal più ignorante al più consapevole, dal più analfabeta al più colto, possono sempre commettere dei crimini, e non è affatto infrequente che, a commettere crimini particolarmente odiosi, siano persone particolarmente colte, professionalmente insospettabili, eticamente ritenute irreprensibili: per esempio, giudici, professori universitari, politici, economisti, preti o cardinali, e via dicendo. La verità non ricamata è questa.
Un altro concetto, forse utile al tentativo gherardiano di eticizzare il suo ragionamento, ma non meno discutibile, è quello per cui, sostiene il magistrato, «Non credo che sempre le persone siano insofferenti alle regole che pongono divieti (e cioè che impongono obbedienza): la mafia ha regole molto rigide, pretende addirittura un giuramento di affiliazione, eppure c’è chi è disposto a prendere questo impegno. Nel 1992 è stato scoperto un sistema di corruzione e quel sistema aveva in quanto tale delle regole molto precise e molto osservate. Siamo, invece, curiosamente insofferenti alle norme che, se applicate, realizzerebbero una società in cui tutti hanno pari diritti»9. Non è del tutto vera questa affermazione, nel senso che, ancor prima e più che insofferenti alle norme giuridiche, generalmente gli uomini sono insofferenti verso i comandamenti di Dio e gli insegnamenti di Cristo. Gli uomini che violano le leggi civili, che provengono pur sempre da un retroterra storico-culturale impregnato di religiosità cristiana, molto spesso, non sempre, sono anche uomini che, in modo impenitente, non hanno esitato a violare già le leggi di Dio. Non per sminuire il pur ammirevole impegno civile del magistrato di Seregno, ma l’educazione alla legalità, alla comprensione e alla pratica della legalità, che resta pur sempre seconda rispetto all’educazione alla verità e al rispetto sostanziale della dignità altrui, e che anche un magistrato può favorire, non può certo ottenersi con sollecitazioni o interventi estemporanei e puramente didattici e divulgativi, con lezioni meramente teoriche, ma può essere solo il portato di una convergenza sufficientemente armonica e continua di fattori di varia natura: fattori formativi di natura certo conoscitiva e culturale, anche se non di tipo monotematico (come sarebbero, appunto, se il processo educativo riguardasse solo la legalità, o fosse limitato esclusivamente ad un’istruzione religiosa) ma quanto più possibile pluritematico, ma poi anche e soprattutto tutte quelle esperienze emotive, morali, relazionali, spirituali e religiose, di cui si nutre in modo più o meno sano o più o meno distorto il vissuto più profondo di ogni persona, là dove tuttavia, alla fine di ogni pur esemplare processo di formazione morale e civile, anche chi ne abbia usufruito virtuosamente, bisogna riconoscerlo, può essere inopinatamente travolto da qualche passione negativa che lo induca al reato o al diritto10.
Tutto questo per dire che l’educazione alla legalità, si abbia a che fare con giovani, adulti o detenuti, può anche fungere da contributo ad una moralizzazione del costume etico-giuridico di un popolo e delle pratiche giurisprudenziali e giudiziarie in esso adottate, ma da sola e per di più affidata unilateralmente a un giudice che non può certo sapere tutto e bene dell’intera costellazione di dimensioni culturali ed esistenziali da cui il concetto e il valore di legalità non può prescindere, essa non potrà produrre un reale cambiamento dei cittadini nel loro modo di relazionarsi con regole o norme giuridiche, con la specifica e complessiva realtà istituzionale della giustizia umana, la quale, per non rischiare di restare avvolti in astrazioni facilmente suscettibili di trasformarsi in fumose utopie o in improduttive mistificazioni, potrebbe cominciare in concreto a giovarsi di un auspicabile, ampio movimento popolare e politico-culturale, volto a reclamare con determinazione che i profili professionali e psichico-attitudinali, le competenze giuridiche e culturali, i titoli scientifici e le specializzazioni eventualmente acquisiti, degli aspiranti giudici e amministratori di giustizia, vengano accertati non più attraverso concorsi gestiti semiclandestinamente e affidati esclusivamente a magistrati o esperti di diritto in servizio, ma attraverso commissioni miste e rese tempestivamente note al pubblico, ovvero formate da un certo numero di magistrati ed esperti di diritto ma anche da un numero equivalente di cultori di altre discipline specialistiche dalle quali possano venire apporti capaci di lumeggiare i poliedrici aspetti e significati del sapere giuridico e della prassi giudiziaria.
Ecco: già questo potrebbe rappresentare un primo, concreto e utile passo, per quanto riguarda l’Italia, non già verso una palingenetica riforma della giustizia, ma di sicuro verso una possibile, efficace, onesta e dignitosa riforma della giustizia. Saranno d’accordo Colombo e tutti quegli uomini di legge che, probabilmente in buona fede, preferiscono polarizzare il discorso sulla giustizia intorno ai temi di un maggiore coinvolgimento dei cittadini su di essa, della mitezza del diritto, della natura rieducativa della pena, della vivibilità degli ambienti carcerari a tutto beneficio dei detenuti, del perdono responsabile, della ragionevolezza degli sconti di pena, dell’assoluta indipendenza dell’ordine giudiziario, tutte questioni legittime e ben note già ai grandi giuristi dei secoli passati, ma questioni che ormai, alla luce dello stato permanente di crisi in cui oggi versa la giustizia, non costituiscono certo il fulcro di un dibattito serio e realmente educativo sul piano civile. Il fulcro è dato da una domanda precisa: che fare, come e per quali ragioni e scopi agire, affinché il sistema giustizia, a prescindere da quel che sanno e fanno i cittadini e quali che siano le oggettive difficoltà sociali e di comunicazione tra organi dello Stato e popolazione civile, risulti, sempre e comunque, molto meglio funzionante di oggi. A mio parere, è difficile che giudici come Colombo possano concordare con questa visione, perché giudici come Colombo o Cartabia, sono teorici, accademici del diritto, non facitori appassionati e consequenziali di diritto e giustizia, e con questo non ho inteso dire che giudici, per esempio come Di Pietro, siano stati o siano migliori di loro.
La giustizia di domani, se vorrà essere funzionale alla conservazione se non al progresso della civiltà umana, dovrà essere concepita e disegnata normativamente per suscitare timore o terrore nell’animo dei probabili mascalzoni, imbroglioni, delinquenti, e fiducia in quello dei probabili innocenti già prima dei processi e delle relative sentenze, mentre oggi il probabile colpevole esce dai processi assolto o graziato con sentenze leggere o inferiori alla gravità dei reati commessi, mentre il probabile o ipotetico innocente ne esce condannato e avvilito11. Questa ingiustizia dipende esclusivamente da giudici incapaci, impreparati o corrotti e i cittadini non potrebbero fare alcunché per sanare situazioni di questo genere, anche se iscritti a corsi permanenti di educazione alla legalità. Non è che la questione, sollevata da Colombo, della equità o iniquità delle leggi e della loro comprensibilità, che però è questione politica dal momento che le leggi sono fatte dal legislatore, dal parlamento e dal governo, non dai giudici che sono invece tenuti ad eseguirle, non sia rilevante. Tutt’altro, perché esse, per non risultare moleste ai cittadini e non costringerli o indurli ad aggirarle con facili scappatoie o astuti sotterfugi, dovrebbero essere concepite e articolate in modo equilibrato e sensato e con una valenza giuridica non troppo distante dal senso comune. In particolare, dovrebbero essere finalizzate a punire delitti oggettivamente inescusabili, mentre proprio oggi, 22 luglio 2024, apprendo che la Cassazione ritiene non legittima la condanna all’ergastolo inflitta dai giudici di merito ad un soggetto reo di aver ucciso la fidanzata, in quanto tale soggetto sarebbe stato “stressato” dal covid.
Ma tale questione, relativa alla attendibilità delle regole, che tuttavia spesso, anche se attendibili, non vengono e non verrebbero rispettate ugualmente, pur delicata e meritevole di essere affrontata e risolta con rigore e saggezza, non può essere ritenuta particolarmente responsabile del malfunzionamento della giustizia ordinaria, in quanto generalmente a non risultare socialmente comprensibili, accettabili e condivisibili, non sono la maggior parte delle regole, già ampiamente consolidate e sperimentate, ma alcune regole, anche se talvolta importanti e influenti su rilevanti aspetti della vita civile. Non so se Colombo si renda conto che né l’educazione alla legalità, né la chiarezza e la condivisibilità delle regole hanno diretta relazione con il problema centrale della giustizia ordinaria: quello per cui i giudici giudicanti, alla fine di un processo, insieme agli inquirenti del cui lavoro devono potersi avvalere in modo intelligente e responsabile, devono essere in grado di emettere una sentenza che non decreti il torto o la colpevolezza dell’innocente e la ragione o l’innocenza o la scusabilità del colpevole. L’errore è umano purché non sia sistematico e non diventi diabolico, ma i tribunali italiani, in cui i condizionamenti ideologici, politici e inerenti pratiche corruttive di varia natura, si fanno talmente sentire da provocare per ora solo il sarcasmo di quanti vorrebbero proporre di mutarne la denominazione: da tribunali di giustizia in tribunali di ingiustizia.
La giustizia, dice giustamente Colombo, è ambigua per sua natura storica, poiché la valenza dei suoi contenuti dipende dai contesti storici in cui essi vengono elaborati ed emanati. Però, subito dopo sbaglia per unilateralismo dogmatico, perché asserisce in modo piuttosto pretenzioso l’inesistenza di un diritto naturale, donde non resta altro che una giustizia come diritto positivo, come insieme di procedure stabilite convenzionalmente in base a cui viene emanata la legge12. Ci si può chiedere se qui il magistrato, scegliendo di fatto di correre sul filo del nichilismo giuridico, non esprima un giudizio scettico sulla possibilità/necessità che il diritto presupponga delle “costanti invariabili” corrispondenti agli universali princìpi cristiani, e d’altra parte se non manifesti l’inconscio timore che da un confronto, da altri ritenuto pienamente legittimo, con il diritto naturale e cristiano, il diritto positivo e laico abbia ancora molto da imparare e perfezionare sul piano normativo13.
Ma, mentre ci si continua a misurare, forse inutilmente, sul piano teorico, sarebbe intanto opportuno rinunciare all’assunto sostanzialmente demagogico di una giustizia malata soprattutto a causa di uno strutturale rapporto di incomunicabilità tra mondo della giustizia e mondo civile, perché in realtà l’incomunicabilità consiste, come è sempre esistita, a causa della diffusa percezione popolare, non per questo necessariamente falsa o faziosa, della assai dubbia integrità morale e professionale e del pessimo comportamento giudiziario di molti giudici, che tendono non solo a ritenersi psicologicamente al di sopra della legge ma anche a servirsene per scopi personali o per tutelare comunque interessi illeciti di singoli o gruppi. Per il mondo della giustizia è come per il mondo della scuola: la scuola è in crisi, perché ne è stata socialmente e istituzionalmente depotenziata la tradizionale autorevolezza, perché i docenti generalmente sono sempre meno preparati e motivati, perché i presidi, tali solo perché fortemente raccomandati ai concorsi, sono molto spesso veri e propri falliti della cultura e freneticamente protesi all’esercizio del comando, al conseguimento di un più lauto stipendio, al vagabondaggio esistenziale travestito da qualificata e impegnativa responsabilità direttiva, perché infine vi si adotta un sistema educativo talmente permissivo e conformistico da essere ben più funzionale alla formazione dei cittadini cinici, prepotenti o indifferenti di domani che non a quella canonica dell’uomo e del cittadino.
Una scuola, già al suo interno, criticamente e pedagogicamente sciatta e sostanzialmente disimpegnata in senso etico sia sul versante docente che su quello discente, è ovviamente facile bersaglio del disprezzo e del continuo ricatto da parte delle famiglie, dei partiti, della stampa. Allo stesso modo, la giustizia arroccata in se stessa e nella sua pretesa e intangibile autoreferenzialità, nei suoi molti operatori mediocri e affetti da manìa di onnipotenza, nei suoi ragionamenti corporativi e sofisticati ma il più delle volte inintellegibili, sarà sempre più a fungere da corpo morto, inattivo, improduttivo e anzi generatore di una quantità sempre più cospicua di nodi che solo la spada potrà poi tagliare. Né, alla lunga, la giustizia potrà essere salvata dalla retorica costituzionaldemocratica e antifascista14, perché può accadere che, quando per troppo tempo si grida contro un fascismo e una volontà totalitaria inesistenti, i cittadini prendano sempre meno sul serio le grida di allarme, sino al punto che se poi qualcuno, nel nome e per conto di qualunque forza politica o militare, si mette a tramare sul serio contro la repubblica e le libere istituzioni, non c’è più nessuno a contrastarne l’azione eversiva e dittatoriale: a quel punto, come nella favola, a rimetterci sarebbero principalmente gli indifesi, i deboli, i virtuosi, ma probabilmente anche gli allarmisti di professione.
Penso che, per contribuire utilmente a rendere più incisiva l’opera di rinnovamento della giustizia come legalità e della giustizia come culto di una verità non meramente legalistica e processuale e, anzi, di una verità morale capace di ergersi come critica razionale e universale condanna etica di tutte le falsità veicolate e affermate nella storia anche attraverso l’uso vergognosamente strumentale del diritto, Colombo dovrebbe dedicarsi a trattare, in modo più severo e coraggioso, il mondo che meglio conosce e di cui ha fatto parte fino ad alcuni anni or sono, a cominciare dall’esperienza di “Mani Pulite”, che lo vide tra i suoi protagonisti, e che se, per molti, me compreso, rappresentò un meritorio capitolo della storia giuridica e giudiziaria nazionale, per altri tuttavia, non necessariamente a torto, non fu esente anche da eccessi sensazionalistici, protagonistici, giustizialisti15. Personalmente, ritengo che quello tra giustizialismo e garantismo sia sempre stato e sia un falso dilemma, nel senso che, in senso etico e religioso come in senso specificamente giudiziario, la giustizia umana sarà più equa ed equanime se si mostrerà, al di là di ogni cavillo giuridico-procedurale e di ogni interpretazione farisaica delle norme codicistiche, intransigente e rigorosa su reati o delitti oggettivamente odiosi e intollerabili, mentre non sarà né giusta, né garantista tutte le volte che, lasciandosi condizionare da preoccupazioni prevalentemente ideologiche o da condizionamenti esterni alla oggettiva realtà processuale, verrà adoperandosi per deformare quest’ultima e per esprimere una sentenza non veritiera. La giustizia è giusta e garantista se garantisce non solo in termini formali e procedurali ma sostanziali e valoriali il rispetto della verità sia processuale che, certo nei limiti dell’oggettivamente possibile, storico-reale, e risulterà invece tanto più lontana dall’esserlo quanto più il ricorso ai codici verrà subdolamente o ipocritamente utilizzato per seppellire da una parte le ragioni del giusto e far sopravvivere quelle del farabutto.
E’ sempre esaltante, per un giudice intelligente e colto, colpire la corruzione e i corrotti che, tra tutti i reati e i rei esistenti e perseguibili, rivestono una speciale importanza nell’immaginario sociale, ma, anche in un caso del genere, la figura di quel giudice non ne uscirà incontrovertibilmente limpida e degna di essere celebrata dai posteri, perché le vere ragioni della sua irreprensibilità e del suo inoppugnabile senso di giustizia dipenderanno sempre dalle reali motivazioni, dalla intenzionalità inespressa con cui, secondo ipotetica scienza e coscienza, sarà giunto alla sentenza. Forse Colombo non ne è convinto, ma verrà un giorno in cui anche i giudici saranno severamente giudicati per il modo e i motivi per cui avranno giudicato altri uomini, perché Dio, per chi crede, è infinitamente misericordioso solo in ragione del fatto che è infinitamente giusto. Alla fine, sarà il Dio giusto di Cristo a stabilire a chi potrà essere realmente elargita tutta la sua paterna misericordia. Peraltro, nella società non esiste solo corruzione, anche se corrotti e corruttori, in numero assai cospicuo, ne occupano spesso i posti apicali, anche, s’intende, nei tribunali, nelle corti intermedie e superiori di giustizia, e nei posti istituzionali di potere e di comando, e a mio avviso un buon giudice, oltre che a demonizzare e combattere la corruzione dilagante, dovrebbe anche sentirsi incoraggiare come uomo e come magistrato da tanti esempi silenziosi di onestà e di disinteressato amore per il prossimo, a causa dei quali, tra l’altro, chi, anche nel mondo della giustizia ordinaria, ne sia protagonista, non di rado finisca per riceverne su questa terra solo danno e solitudine16.
Bisogna altresì osservare che la corruzione non esiste solo nell’ambito degli affari, del potere, e degli intrighi in senso lato del mondo, giacché si può corrompere ed essere corrotti anche intellettualmente, culturalmente, spiritualmente, e per esempio si può anche cominciare a commettere qualche errore in tal senso, nel ritenere univocamente veritiero che, come fa Colombo, sia necessario conoscere il passato, «averne memoria, per costruire un futuro diverso, seguendo gli spunti di chi ha cercato di farlo prima di noi in modo adeguato, e cioè rispettoso di tutti, anche degli avversari»17, dal momento che non sempre historia magistra vitae, che non sempre sia sufficiente conoscere la storia per evitare disastri e immani tragedie umanitarie, tanto che non a caso un acuto pensatore come Hegel avrebbe sostenuto esattamente il contrario, ovvero che la storia insegna che la storia non insegna mai nulla. La conoscenza della storia è utile ma non è determinante ai fini del buon vivere e del buon agire: i semplici pescatori palestinesi di duemila anni or sono avrebbero costruito gli architravi della storia umana, semplicemente proclamando la Parola di Dio e predicando gli insegnamenti di Gesù. In fondo, è quel che riconosce Vito Mancuso quando rivendica, ad integrazione del dire di Colombo, il ruolo essenziale che, nella costruzione di una umanità più solida di quella attuale, può essere svolto dalla fede cristiana18, anche se poi lo stesso teologo ritiene di poter teorizzare una sorta di commistione tra fede biblica e fede democratica: «Il concetto centrale della fede biblica è un concetto democratico. Mi riferisco al concetto di alleanza. C’è una specie di Costituzione che lega il rapporto Dio-Uomo, per questo Dio nell’orizzonte biblico cessa di essere un tiranno capriccioso che non deve rendere conto a nessuno. Egli deve rendere conto alla legge fondamentale con cui si è legato al mondo. Se questo vale per Dio, a maggior ragione per la Chiesa, e tutti vedono quanto cammino debba fare la Chiesa cattolica per essere all’altezza del suo compito»19.
Bisogna rettificare radicalmente tale affermazione, perché tutto si può dire della fede biblica in Dio tranne che abbia a che fare con la democrazia, la quale ultima invece può certo trarre ma non univocamente ispirazione dal comunitarismo biblico-evangelico. L’alleanza tra Dio e l’uomo è stata voluta unilateralmente da Dio per la salvezza del secondo, Egli ne ha stabilito i termini rivelandoli si suoi profeti: non è stata cioè oggetto di contrattazione tra Dio e l’uomo, non corrisponde ad un patto consensuale, tanto è vero che, se gli uomini si sottraggono o non obbediscono alla alleanza non ricevono la benedizione di Dio o vengono da questi puniti: l’alleanza non è qualcosa che derivi dalla compartecipazione iniziale di entrambi anche se principio fondante di tale alleanza, per volere stesso di Dio, è la comune fedeltà ad essa. D’altra parte, il fatto che Dio non sia un “tiranno capriccioso” non è determinato dal presunto controllo democratico delle sue creature ma dalla giustizia stessa di Dio che, appunto per questo, non deve rendere conto a nessuno, pur potendo, del suo operato, dovendo e volendo semplicemente fedele a se stesso e alle sue leggi. La stessa cosa, in senso puramente analogico, vale per la Chiesa e per tutti i suoi membri, nessuno escluso, che hanno solo il compito, ognuno per quel che gli compete e secondo i carismi ricevuti dal Santo Spirito, di proclamare e testimoniare il più fedelmente possibile la Parola di Dio. Un rapporto rispettosamente paritario, invece, deve esserci tra tutti i credenti in Cristo ma non in virtù di un patto giuridico-costituzionale da essi riconosciuto e sottoscritto, bensí solo in virtù della doverosa e responsabile comunione fraterna predicata da Cristo. Le cose stanno così e mi spiace molto, come credente e come studioso, che si continui a creare confusione, dopo oltre due millenni dalla venuta e dall’opera salvifica di Cristo, su questioni di elementare intellegibilità. Lo dico in risposta a probabili o inevitabili critiche: non sono io a non capire, ma siete voi altri che soggiacete alla tentazione di spiegare le cose divine, le verità rivelate, secondo princìpi e realtà storico-istituzionali di origine umana.
Dio non è democratico ed è bene che anche Colombo se ne faccia una ragione quando misura l’efficacia e l’utilità umana della religione cattolica sulla base di criteri etici immanentistici: la trasparenza politico-legislativa, l’adesione a programmi o progetti liberaldemocratici, la sacralizzazione dei princìpi costituzionali, l’obbedienza alla legge, il rispetto incondizionato di tutte le differenze etniche, religiose, culturali, sessuali, e soprattutto la consapevolezza dell’esistenza di una sorta di «male sistemico di cui», ineluttabilmente, «sono responsabili tutti: politici, imprenditori, comuni cittadini», ad eccezione dei «magistrati della razza purissima Colombo&C» che si sentono preventivamente ma ingiustificatamente investiti della funzione missionaria di supplire ai poteri dello Stato a causa della ricorrente presenza di gravi fenomeni corruttivi specialmente nella sfera politica ed economica, mentre un’ampia e condivisa riforma della giustizia risulta ormai inderogabilmente necessaria al fine di cancellare «l’anomalia tutta italiana di un potere giudiziario che tende a rappresentarsi come garante, superiore agli altri organi costituzionali, moralmente legittimato ad agire in supplenza e, più spesso, in contrasto ai rappresentanti del popolo eletti in Parlamento»20. Il tempo, però, passa implacabilmente senza che l’ordine giudiziario si mostri ben disposto ad accettare una riforma che lo riguardi, pur non potendosi naturalmente negare che se, da un lato, il rimedio anche in questo caso potrebbe essere peggiore del male, dall’altro non dovrebbe essere nella facoltà ordinamentale e democratica di tale ordine il poter interferire nelle decisioni del potere politico-legislativo21.
Concordo con Colombo nel ritenere che la giustizia non sia assoluta, ma relativa, anche se, diversamente da lui, non penso sia progressiva ovvero necessariamente migliorativa dal punto di vista etico-civile, perché non sempre la giustizia avanza per acquisizione ma, talvolta, anche per rimozione di valori reali: va bene, per esempio, una giustizia che non preveda più che la pena debba consistere nei supplizi o nella tortura di epoche passate, ma molto meno giusto potrebbe ritenersi che pratiche, come l’aborto o l’eutanasia, un tempo giustamente annoverate tra i delitti più efferati, vengano oggi tranquillamente inclusi tra i diritti più emancipativi dell’umanità; va bene una giustizia finalmente capace di riconoscere la piena e totale parità tra uomo e donna, ma molto meno condivisibile appare una giustizia che neghi il diritto a chicchessia ad esprimere liberamente il proprio pensiero circa l’abnormità e il carattere patologico dei comportamenti, specie se manifestati oscenamente in pubblico, omosessuali o transessuali, oppure sulla palese immoralità dell’abbigliamento indecoroso o indecente e provocatorio esibito da soggetti di sesso maschile e, più frequentemente, femminile, in luoghi sacri, in luoghi di lavoro o in ambienti frequentati in particolare da bambini in tenera età. Va anche bene che la giustizia, anzi la legge sia finalmente uguale per tutti, anche se, a ben pensarci, siccome non tutti, sotto diversi aspetti, sono uguali, sarebbe un saggio principio giuridico quello che ammettesse qualche deroga più significativa e più articolata di quelle che, in taluni casi, il diritto attuale sembrerebbe concedere.
Quindi, non è proprio così pacifico quello che dice il magistrato lombardo: «se ci si pensa, nel corso della storia, il contenuto del termine giustizia era esattamente il contrario di quel che generalmente riteniamo giusto»22. No, perché si può anche dire, a giusta ragione, che l’evoluzione storico-giuridica e giurisprudenziale conserva, come tutte le cose umane, la sua ambivalenza di fondo: non avanza mai semplicemente verso il meglio e il bene, ma non di rado regredisce anche verso il peggio e verso il male. Questa valutazione mi deriva dalla fede non già nella giustizia relativa di uomini e magistrati ma nella giustizia assoluta di Dio sempre suscettibile di dispiegarsi, nella storia e oltre la storia dell’umanità, in tutta la sua misteriosa ma insindacabile potenza.
Francesco di Maria
NOTE
1 G. Colombo, Il diritto, testo della conferenza tenuta presso il Liceo Scientifico “Calini” di Brescia, 4 maggio 2006, in Nostro Dante quotidiano, “Atti della Rassegna” (a cura del Liceo “A. Calini” di Brescia), Brescia, Edizioni L’Obliquo, 2008, pp. 101-110.
2 Ivi, p. 104.
3 Ivi, pp. 109-110. Un’interpretazione più aperta, più flessibile, più articolata, più temperata, ma altrettanto discutibile della concezione dantesca della giustizia è quella fornita da M. Cartabia, Molti hanno giustizia in cuore, lectio magistralis tenuta presso la Casa di Dante in Roma, in data 7 maggio 2023, nel corso della quale avrebbe ritenuto di individuare una differenza incolmabile tra giustizia divina e giustizia umana nel fatto che “coloro che noi condanneremmo vengono salvati dalla misericordia divina, mentre quelli che noi giustificheremmo vengono condannati”. Ora, che Dio salvi i condannati dagli uomini e condanni coloro che gli uomini giustificano, è solo una possibilità, non un implacabile e univoco esito della Parola di Dio, né una certezza dogmatica di origine evangelica, anche perché, in caso contrario, non esisterebbero uomini saggi e giusti, anche capaci di esprimere sui comportamenti di determinati esseri umani giudizi corrispondenti a quelli divini: il che, almeno biblicamente ed evangelicamente, non è vero.
4 G. Morbidelli, La dimensione giuridica in Dante Alighieri, Modena, Mucchi Editore 2022; G. Maglio, Ordine e giustizia in Dante, Il percorso filosofico e teologico, Padova, CEDAM Editore, 2015.
5 E’ ciò che possono contribuire a far capire non genericamente ma analiticamente studi recenti come: P. Cammarosano, Giudizio umano e giustizia divina. Una lettura storica della “Commedia” di Dante, Trieste, CERM, 2021; G. Gaimari, Per amore di giustizia. Dante fra diritto, politica e teologia, Ravenna, Longo Editore, 2022; R. Antonelli, Dante poeta-giudice del mondo terreno, Roma, Editore Viella, 2021.
6 G. Colombo, Sulle regole, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 7-8.
7 G. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, pubblicata nel 1820, Milano, Bompiani, 2006.
8 Intervista di E. Chiari a G. Colombo, La legge di Dio e le leggi degli uomini, in “Famiglia cristiana” del 3 marzo 2011.
9 Ivi.
10 L’educazione, in genere, non solo quella alla legalità, molto spesso rischia di configurarsi come una forma di manipolazione, per cui bisogna stare attenti a non fare dell’educazione alla legalità un mezzo per conculcare la libertà altrui di pensiero e di giudizio. Su questo, si veda: Ph. Meirieu, Quale educazione per salvare la democrazia? Dalla libertà di pensare alla costruzione di un mondo comune, Roma, Armando, 2023.
11 Sembrerebbe essere questa o almeno non lontana da questa la prospettiva interpretativa dell’opera curata da F. Zanuso e F. Reggio, Per una nuova giustizia possibile, Napoli, ESI, 2014.
12 R. Italiano, L’educazione è la chiave per un’Italia più giusta, in “Magzine.it”, 2 maggio 2017.
13 (A cura di Markus Krienke), Ripensare il diritto naturale e la dignità umana. Tradizione attualità di due topoi etico-giuridici, Torino, Giappichelli, 2020; R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a san Tommaso d’Aquino, Bologna, Edizioni Studio domenicano, 2000. Particolarmente importante è il libro di John Mitchell Finnis, Legge naturale e diritti naturali, Torino, Giappichelli, 1996.
14 Questo è un rischio che incombe anche su intellettuali animati da ottime intenzioni come per l’appunto G. Colombo, di cui si possono vedere: Descrizione Anticostituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società (Nuova Edizione), Torino, Bollati Boringhieri, 2018, e, a dimostrazione che anche Colombo non è esente dalla tentazione di esibire il suo antifascismo: G. Colombo-L. Segre, La sola colpa di essere nati, Milano, Garzanti, 2021, anche perché, da un punto di vista etico-religioso, Liliana Segre dovrebbe ritenersi solo fortunata e graziata da Dio, anziché continuare a recriminare contro un fascismo che, al momento, non esiste, se non nei cuori di chi, mosso da uno spirito di menzogna e di odio, vorrebbe imporre il suo punto di vista a tutta la società. Peraltro, la statura intellettuale della signora Segre non è così elevata da rendere ragionevole e giustificabile l’interesse eminentemente culturale di un colto magistrato come Colombo a scrivere un libro con lei.
15 G. Buccini, Il tempo delle mani pulite 1992-1994, Roma-Bari, Laterza, 2021; E. Amodio, Il giustizialismo da Mani Pulite alla svolta populista. Note su un libri recente, in Rivista “Discrimen”, 31 marzo 2022; Bernasconi, Ciuffoletti, Facci, Fazzo, Finetti, Pellicciari, Spazzali e Scuto, Tony, Zurlo, Mani Pulite. Governo dei giudici, “pensiero unico” 1992-2022, Milano, Luni Editrice, 2022; C. Nordio, Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura, Milano, Guerini e Associati, 2022.
16 E. Martinelli, A Milano al tempo di Mani Pulite, Milano, Betti Editrice, 2019.
17 Vito Mancuso e Gherardo Colombo a tu per tu, Intervista doppia al teologo e all’ex pm, in “Il Fatto Quotidiano” del 9 ottobre 2011.
18 Ivi.
19 Ivi.
20 L. Amicone, Leggere Gherardo Colombo per capire perché la giustizia va riscritta adesso, in “Tempi”, 12 febbraio 2012.
21 S. Rizzo, Potere assoluto. I cento magistrati che comandano in Italia, Milano, Solferino, 2022; sempre valido anche P. Borgna-M. Cassano, Il giudice e il Principe. Magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Roma, Donzelli, 1997.
22 Intervista di P. Farina a Gherardo Colombo. La giustizia non è un valore assoluto, (prima parte), in sito on line “Odysseo”, 12 dicembre 2014.