Gherardo Colombo: un’idea laica e discutibile di giustizia

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Gherardo Colombo non è solo un famoso magistrato italiano ma anche un uomo di notevole cultura storico-letteraria e di discreta cultura biblico-religiosa, là dove questo abbinamento di scienza e pratica del diritto e cultura umanistica e teologica non costituisce certo un dato scontato e particolarmente ricorrente almeno nell’ordine dei magistrati italiani. Si conosce anche il suo impegno civile di ex magistrato e di uomo sensibile alle variegate problematiche della società italiana sia pure in relazione, in modo specifico, al tema della giustizia. Per Colombo, tale tema rischia di essere incomprensibile o insufficientemente chiaro ove lo si venga trattando esclusivamente e riduttivamente in termini di diritto positivo, di corpo storico di leggi date, di pratica giuridico-giudiziaria. E’ molto significativo, per esempio, che egli si sia trovato ad affrontarlo nel quadro di una conferenza su Dante Alighieri come cantore insuperabile della giustizia divina, sebbene caratterialmente molto passionale e forse non sempre capace di giudizi del tutto imparziali. In tal senso, la giustizia divina nella sua somma opera, la “Divina Commedia”, pur esprimendone gli alti ideali e gli universali valori, riflette altresì l’ostinata o caparbia fermezza del poeta nel dare seguito coerentemente alle proprie convinzioni su questioni di vitale importanza morale e sino al punto di preferire l’esilio al ritorno nella sua città natale, per non essersi visto tributare il giusto riconoscimento. Continua a leggere

Leopardi e Dio

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L’inarrestabile incivilimento del mondo comporta un graduale allontanamento dalla naturalità della vita, da un modo naturale di vivere. E questo è destinato a complicare enormemente l’esistenza umana, in quanto la crescente separazione dalle leggi naturali della vita non può che comportare verosimilmente, negli esseri umani, una tendenza altrettanto crescente all’«indifferenza», alla «morte delle passioni e delle emozioni», all’«impossibilità di sentire e di immaginare», che «sono solo alcuni degli effetti visibili nel cambiamento di paradigma»1 (F. Cacciapuoti, Editoriale. Sull’etica, in Rivista “Appunti leopardiani”, 2013, 1, n. 5-6, p. 7). In realtà, Leopardi, che nel corso della sua riflessione poetica e filosofica viene idealizzando lo stato di natura in modi molto diversi e persino opposti, ne avrebbe sì individuato il sostrato fisico-astronomico in una struttura materiale eterna e retta da inesorabili leggi meccanicistiche  ma identificandolo con condizioni etico-esistenziali ora più tollerabili, ora sempre più intollerabili e crudeli. Quale sia stata effettivamente la realtà morale degli uomini nello stato di natura, in Leopardi non mero mitico e immaginario che in Rousseau nonostante la critica esercitata in questi termini dal primo nei confronti del filosofo ginevrino2 (Cfr. N. Sapegno, Giacomo Leopardi, in Storia della letteratura italiana (diretta da E. Cecchi e N. Sapegno), Milano, RCS, 2005, vol. XIII), né Leopardi, né altri, sarebbero mai stati in grado di indicare con precisione, ed è pertanto probabile che anche il pensatore-poeta di Recanati, pur oscillando tra una prima idea fiduciosa e una successiva idea ben più cupa e contrariata di natura, abbia inteso  utilizzare tale tema più che altro a scopo polemico, per evidenziare e denunciare il degrado di pensiero e di costumi prodotto dalla civiltà e il muoversi di quest’ultima verso forme e stadi sempre più esasperatamente irrazionali di vita. Continua a leggere

Il Dio giusto

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Nei testi primotestamentari la giustizia appare costantemente associata alla rettitudine o all’integrità morale di singoli o gruppi, mentre in quelli neotestamentari essa tende a coniugarsi piuttosto con uno spirito di equità o di rettitudine basata sulla giustizia come principio o valore ma non sganciata dalla coscienza di ciò che può ritenersi o valutarsi giusto non in astratto ma sulla base di concreti casi empirici. La giustizia divina è principio o legge ontologicamente inerente l’essenza stessa di Dio, non quindi una legge altra dalla stessa volontà divina e a cui questa debba conformarsi, e tale giustizia è tuttavia relativamente flessibile in relazione ad una notevole pluralità di casi e situazioni che possono accadere o manifestarsi  nel corso della complessa e drammatica vicenda storico-umana. In altri termini, la giustizia divina, per quanto sia rigorosa e severa, è altresì una giustizia intrinsecamente misericordiosa o pietosa. La giustizia di Dio è una giustizia secondo verità, che è un altro primario attributo dell’essenza divina, è una giustizia assoluta, oggettiva, imparziale, priva di pregiudizi o di preferenze aprioristiche, anche se non inflessibilmente rigida ma sensibile allo sforzo delle creature di riconciliarsi con il loro unico signore, essendo il peccato ma non il peccatore il suo unico e definitivo nemico. La giustizia di Dio, pertanto, altro non esprime che la santità stessa di Dio. Continua a leggere

Commento alla nota dell’Arcidiocesi Cosenza-Bisignano del 19 giugno 2024

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Oggi pomeriggio è stata diramata una nota giornalistica dell’Agensir, 19 giugno 2024, da cui si apprende che il vescovo di Cosenza abbia pronunciato in Cattedrale parole molto critiche nei confronti del popolo di Dio. Infatti, dal comunicato risulta che monsignor Giovanni Checchinato, che i cosentini hanno soprannominato “il vescovo dal sorriso sgargiante”, soprattutto a favore di fotografi e telecamere, abbia testualmente dichiarato: «Oggi la società pretende di avere le sue radici nel cristianesimo e invece privilegia i ricchi, battaglia con i crocifissi in mano ma continua a far morire gente nel Mediterraneo. Sembra che una sorta di torpore stia invadendo le menti e i cuori dei cristiani dell’Occidente cristiano e che la potenza del Vangelo si stia ridimensionando sempre più». Continua a leggere

Il papa e la guerra

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Nessuno può chiedere al papa regnante «di diventare il cappellano della Nato», né lo si può criticare per il fatto che usi prudenza nel parlare «del conflitto in Ucraina»1. Se le contestazioni al pontefice potessero ridursi a quella richiesta e a quella critica, il costituzionalista cattolico Stefano Ceccanti avrebbe ragione da vendere. Ma, in realtà, al papa si può e, filialmente o fraternamente, si deve rimproverare altro. Il papa, spiega Ceccanti, ha sempre riconosciuto l’esistenza di un aggredito e un aggressore, ma di più non può dire semplicemente perché gli corre l’obbligo pastorale di pensare ai circa 150.000 cattolici residenti nella Federazione russa e corrispondenti allo 0,1% della sua popolazione complessiva e di dare spazio alle iniziative diplomatiche della Santa Sede. Continua a leggere

Gustave Thibon: violenza e guerra tra vangelo e filosofia

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Fu un filosofo certamente antiedonista e antindividualista, ma non nel senso che, nella vita personale degli uomini e nel quadro dello sviluppo della loro personalità, il piacere e la ricerca del piacere, i diritti del proprio io, tra cui quello ad un’indipendenza di giudizio e ad un’autonomia di coscienza, non abbiano una loro ragion d’essere e una loro ben precisa funzione etica, bensì nel senso che il prendersi cura della propria egoità non debba risultare intrinsecamente finalizzato al culto idolatrico del sé, anche in relazione ad eventuali atti di apparente altruismo e di ambigua generosità, di natura individuale, interpersonale o collettiva. Era questo il fondamentale portato spirituale e filosofico, del cristianesimo radicale e della fede cattolica di Gustave Thibon1. Questi fu un implacabile critico delle apparenze morali, politiche e sociali, culturali, spirituali e religiose del suo tempo, e quindi di tutte quelle impostazioni paternalistiche, moralistiche, oppure strumentali e ideologiche, e ancora pretenziosamente oggettivistiche e universalistiche, di frequente ricorrenti nei movimenti filosofici e scientifici, nei modelli e nelle disquisizioni etico-sociali, nelle pratiche e nelle predicazioni religiose, insomma nella cultura elitaria come, in parte, nella cultura popolare del ‘900.    Continua a leggere

L’etica cristiana tra laicità e professione di fede

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Il ricorso a Dio, alla fede in Dio, non può fondare o giustificare alcuna posizione di natura etica. Un’etica laica e non religiosa non può risultare razionalmente plausibile sulla base della Rivelazione o di presupposti specificamente religiosi. L’etica laica può utilizzare solo argomenti razionali o ragionevoli (il riferimento alla persona storica di Gesù, l’esperienza comunitaria bimillenaria, un’intelligenza collettiva espressa dalla Tradizione di autorevoli Padri e di innumerevoli apporti teologici), mentre l’etica religiosa e cattolica è fondata solo in parte su ragioni storico-empiriche verificate e acquisite come tali, basando invece gran parte dei suoi princìpi e delle sue convinzioni su un principio di autorità, come può  essere l’infallibilità del magistero pontificio, sganciato da inoppugnabili prove osservative e dimostrative. Il che lascerebbe concludere, secondo uno studioso cattolico1, che l’etica più vera e più universalmente argomentata non sia quella confessionale cattolica ma quella laica, per gli stessi cattolici, che dovrebbero giudicare le loro convinzioni e credenze per mezzo di autonome argomentazioni razionali e non semplicemente accettate per ubbidienza all’autorità pontificia ed ecclesiastica. Continua a leggere

La guerra tra Costituzione e filosofia

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L’articolo 11 della Costituzione italiana recita testualmente: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Tale articolo ha un duplice significato: un significato storico e un significato eminentemente giuridico. Dal punto di vista storico, riflette naturalmente la volontà di sottolineare una doverosa e necessaria discontinuità con un recente e tragico passato bellico, del quale l’Italia, a rimorchio della Germania hitleriana, era stato diretto responsabile, e di esprimere l’augurio di un futuro di ricostruzione e di pace da costruirsi anche nel quadro delle nuove relazioni politiche, giuridiche, economiche e militari interstatuali, internazionali e sovranazionali. Continua a leggere

La fede come cultura di verità. Per un cattolicesimo alternativo ai saperi egemonici del mondo

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La fede è cultura, è statutariamente cultura, in quanto espressione di un sapere radicalmente altro dai saperi puramente storico-immanenti. Qui si intende il termine cultura non come eterogeneo alla parola fede, ma come interno, inerente ad essa. Se viene meno o si appanna il senso identitario dell’originaria fede evangelica, viene meno o si appanna simultaneamente il nucleo culturale ispiratore di essa costitutivo e in essa incentrato, per cui il dialogo più proficuo non è quello tra fede in quanto esperienza credente e cultura in quanto esperienza pensante, ma tra fede come esperienza credente e pensante rispetto a cui la cultura non si pone come momento semplicemente esterno rappresentandone invece un essenziale momento costitutivo1. Ove invece si verifichi una divaricazione di principio tra fede e cultura, la fede e la sua intrinseca carica educativa e formativa, ovvero culturale, non possono più esercitare alcuna funzione critico-veritativa nel quadro delle fedi e delle culture altre, nel contesto dei processi storico-mondani di razionalizzazione ed emancipazione civile. Continua a leggere

Voltaire: quale laicità?

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Voltaire è ancora considerato dalla maggior parte degli studiosi del periodo illuministico come uno dei massimi promotori della modernizzazione e della laicizzazione del pensiero non solo francese ma europeo1, oltre che come grande critico della Chiesa cattolica e della religione in genere, intesa, vissuta e praticata nelle sue varie forme confessionali, tutte indistintamente intolleranti e reciprocamente conflittuali. Tuttavia, se certo non fu religioso nel senso confessionale del termine, Voltaire fu credente in un Dio della coscienza e della ragione, vale a dire nel Dio cui si potesse pervenire spontaneamente solo per via di coscienza morale e di intuizione razionale e non necessariamente sulla base di particolari verità rivelate dall’alto, per cui non fosse necessario dimostrare, con ragionamenti particolarmente laboriosi e complessi, l’esistenza di Dio, visto che quest’ultima era qualcosa di intuitivamente innegabile. Il Dio voltairiano era un Dio di ragione: per credere in esso non era necessario uno speciale atto di fede. La stessa immortalità dell’anima era un corollario dell’esistenza di Dio, perché se c’è Dio, che in quanto tale deve essere eterno e quindi immortale, anche l’anima da lui creata, pur soggetta alla morte a causa della sua stessa creaturalità, in qualche modo non potrà che partecipare della stessa immortalità divina in quanto, altrimenti, anche quel desiderio di felicità che è connaturato nella vita stessa degli individui, non potrebbe mai essere soddisfatto, mentre Dio non può fare le cose a caso. Continua a leggere