Trump, democratically elected dictator!

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“A mediocre comedian” and “a dictator never elected”. This is how Trump, considering himself an excellent comedian and a democratically elected dictator, defined Zelensky for having stubbornly defended the Ukrainian cause and led the armed resistance of the people and the army of Kiev, for over 2 years, against the expansionist designs and the desire for political-military occupation of one of the bloodiest dictators in contemporary history. The Ukrainian prime minister simply replied politely that the American president lives “in a bubble of Russian disinformation” and so Trump’s deputy felt compelled to admonish him by ordering him “to stop it”, provoking the reaction of Macron and Schulz who immediately sympathized with Zelensky. Continua a leggere

Trump, dittatore democraticamente eletto!

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«Comico mediocre» e «dittatore mai eletto». Così Trump, considerando se stesso un comico eccellente e un dittatore democraticamente eletto, ha definito Zelensky per aver questi difeso ostinatamente la causa ucraina e aver guidato la resistenza armata del popolo e dell’esercito di Kiev, per oltre 2 anni, contro i disegni espansionistici e la volontà di occupazione politico-militare di uno dei più sanguinari dittatori della storia contemporanea. Il premier ucraino si à limitato a replicare educatamente che il presidente americano vive “in una bolla di disinformazione russa” e così il vice di Trump si è sentito in dovere di ammonirlo intimandogli “di piantarla”, suscitando la reazione di Macron e Schulz che hanno subito solidarizzato con Zelensky. Continua a leggere

La laicità tradita. Fenomenologia della laicità non credente.

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In base all’art. 3 della Costituzione italiana i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge e, pertanto, non possono essere discriminati né per sesso, né per razza e lingua, né per opinioni politiche e condizioni personali e sociali, né per religione, mentre l’art. 19 sancisce che tutti possano professare liberamente la propria fede religiosa, sia privatamente che in sede comunitaria, avendo altresì facoltà di promuoverla ed esercitarla, ovvero testimoniarla, in privato o in pubblico, all’unica condizione che qualunque manifestazione di religiosità non sia contraria al cosiddetto “buon costume” oggi corrispondente, in senso generale, a un condiviso senso di pudore, di decenza e di moralità. Ciò significa altresì che anche i cattolici abbiano tutto il diritto di far valere non solo nell’ambito della loro Chiesa ma anche politicamente e democraticamente idee, proposte, programmi, basati sulla propria fede religiosa. Chi continua a sostenere e a pretendere che i cattolici che non si astengano dal relegare i propri convincimenti religiosi nel privato siano da considerare eversivi e nemici degli ordinamenti democratici, avrebbe piuttosto tutto l’interesse a rivedere o a mitigare il suo intollerante radicalismo politico per poter sperare di sottrarsi a sua volta all’accusa di contravvenire alla logica laica e democratica della civile convivenza1. Certo: la fede può ben rappresentare un ingombro per la politica, per le sue diramazioni istituzionali e per i suoi stessi meccanismi legislativi ed esecutivi, perché la sua dimensione trascendente pone continui o costanti interrogativi alle pratiche immanenti di gestione del potere e della vita civile e democratica, ma se il dubbio, come “primo passo verso la verità” di diderotiana memoria, è un principio logico-metodologico che accomuna tutte le correnti o le espressioni filosofico-politiche e giuridiche della moderna e contemporanea laicità non confessionale o non religiosa, è difficile escludere la fede cristiana da tutte quelle fedi laiche o laiciste che fanno del dubbio il principio stesso della loro attendibilità teorica e della loro vitalità pratica. Niente, infatti, più della fede religiosa, evangelica, cristiana e cattolica, proprio mentre muove da princìpi dogmatici, che però non compromettono in nessun modo la possibilità di indagare criticamente la realtà storico-sociale e culturale, viene assolvendo la funzione di suscitare dubbi di carattere logico e metodologico, di tenere sempre aperta la ricerca, di approfondire indefinitamente il senso della verità e della giustizia tra gli uomini. E perché questo accade se non per il fatto che essa è radicata profondamente e indissolubilmente nella natura stessa dell’essere umano? Continua a leggere

Per una ricognizione critica e demistificante del concetto di laicità

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Che la Chiesa ortodossa russa benedica l’aggressione di Putin all’Ucraina, che il regime teocratico iraniano autorizzi violente repressioni poliziesche contro il movimento femminile interno di emancipazione, che in diverse aree del mondo alcune minoranze religiose, tra cui quella cristiana e cattolica, abbiano ancora a subire frequenti persecuzioni, o che tra estesi gruppi di fondamentalismo religioso di segno contrapposto sussista ancora un rapporto di latente ma esplosiva conflittualità, sono tutti segni, come ha ben dimostrato in un recente libro Augusto Barbera (Laicità. Alle radici dell’Occidente, Bologna, Il Mulino, 2023), di come la laicità occidentale sia decisamente sotto attacco. Ora, Barbera individua nella laicità le radici della civiltà occidentale, là dove però il passo successivo da compiere, ma che non tutti e non molti sinora hanno compiuto, è costituito dal deciso riconoscimento che le stesse radici laiche dell’Occidente trovano il loro humus storico, religioso e culturale nel cristianesimo. Benché ancora molto discussa e talvolta variamente contestata, più sul piano emotivo e ideologico che su quello storico e logico-argomentativo, il presupposto da cui qui si muove e ampiamente evidenziato in tanta parte di storiografia nazionale e internazionale, è che la rivendicazione delle radici cristiane della laicità sia una rivendicazione pienamente legittima. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio, sono le celebri parole di Gesù, con cui egli intendeva riconoscere, rispetto a qualunque ordine di potere spirituale e religioso costituito e organizzato secondo propri princìpi e strutture associative interne, la legittimità e l’autonomia del potere politico e dello Stato in quanto organizzazione politica e giuridica di una determinata comunità territoriale, ma al tempo stesso la non estraneità umana, morale, religiosa, delle leggi civili, degli ordinamenti economici e giuridici, delle norme e degli apparati repressivi dello Stato, non tanto ad una data giurisdizione ecclesiastica ed ecclesiale quanto alla superiore legge di Dio1. Cesare doveva essere ritenuto libero di provvedere, nel modo più responsabile e lungimirante possibile, alla sicurezza materiale e al benessere sociale ed economico del popolo da lui amministrato, senza tuttavia pretenderne l’asservimento a credenze e a modi di vita incompatibili con la fede nell’unico e vero Dio annunciato e servito dal Cristo. In questo senso, non si sarebbe trattato di riservare trattamenti privilegiati alla sua Chiesa e a coloro che, presbiteri o diaconi, sarebbero stati incaricati di ufficiarne le funzioni ma di rispettarne l’esistenza e la funzione spirituale nel quadro del normale svolgimento della vita associata. I laici sarebbero stati tutti gli appartenenti al popolo, e quindi tanto i credenti che i non credenti, ed essi sarebbero rimasti distinti dai chierici, ovvero dai membri del clero di una qualunque confessione religiosa e dalle specifiche pratiche religiose da essi esercitate, ma ciò non ne avrebbe giustificato condotte manifestamente immorali e oltraggiose nei confronti dei comandi divini e della dignità stessa comune a tutti gli esseri umani.   Continua a leggere

Immagini della fede tra modernità scientifica e modernità religiosa

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1. Volti conflittuali della fede nell’epoca di papa Bergoglio

Chi, ben consapevole del sempre più accentuato fenomeno di desensibilizzazione religiosa oggi in atto soprattutto in occidente e di crescente e vistosa riduzione della ritualità religiosa comunitaria ad esso connessa, abbia a cuore lo stato di salute e il futuro destino della fede cristiana e cattolica nel mondo, prima o poi non potrà non porsi le domande assai di recente formulate dal sociologo Franco Garelli: «Il cattolicesimo italiano sta perdendo il senso della ‘domenica’? La riduzione dei praticanti regolari è una nuova tappa del processo di secolarizzazione delle coscienze? Oppure la disaffezione dalla pratica religiosa ha perlopiù cause interne, è dovuta ad una liturgia ormai diventata afona, non più in grado di attrarre e interpellare i credenti? Inoltre, si tratta di una tendenza destinata ad inasprirsi o ad ammorbidirsi nel tempo?»1 La maggior parte dei fedeli, lungi dal cogliere e dal vivere la religiosità e la stessa ritualità eucaristica e sacramentale nel loro intrinseco e perenne significato sacrificale e salvifico, tende ormai a trasformarne la stessa dimensione comunitaria in una opportunità di evasione da una dura e sofferta quotidianità oppure in un’occasione di sia pure fuggevoli anche se talvolta gratificanti incontri relazionali. Non sono più tanto le contrarietà o i drammi esistenziali ad essere offerti in sacrificio per la purificazione e la redenzione della propria vita interiore, ma è piuttosto l’esperienza religiosa che, pur pensata come esperienza di comunione fraterna con Dio e il prossimo, viene tuttavia sentita e vissuta fondamentalmente, e in modo solo in parte legittimo, in funzione del soddisfacimento delle proprie necessità esistenziali. Continua a leggere

Papa Francesco vuole migranti in Italia ma non in Vaticano

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Da “Libero Quotidiano” del 20 gennaio 2025

Dice Francesco che «in Italia l’età media è di 46 anni: non fa figli», dunque «faccia entrare i migranti». Il Papa fa il Papa, il suo magistero non si discute, ma questa non è una questione teologica, è un appello che aspira a diventare una linea di “policy” per il governo, allora diventa discutibile. Bergoglio è un uomo dalle idee spesso spiazzanti, ma quando dipinge un mondo “no border”, senza confini, aperto alle ondate migratorie – e ai trafficanti di esseri umani – mette sul tavolo un tema che passa dal Vangelo al Governo, dal Disegno divino al Disegno di Legge. Se l’idea di Francesco potesse diventare prassi, sarebbe già realtà, ma il problema dell’ingresso dei migranti e della loro integrazione è il numero uno nell’agenda delle democrazie e delle società secolarizzate, si sta complicando proprio perché molti Stati hanno spalancato i confini senza pensare alle conseguenze inattese. Continua a leggere

Il pensiero cristiano tra croce e spada*

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1. L’antica immagine della fede cristiana tra pressioni storico-epistemiche e interne fratture o scissioni dottrinarie e teologiche.

Se il pensiero moderno è frutto in non trascurabile misura anche della vasta e articolata eterodossia religiosa che sarebbe venuta generandosi nel cuore della tradizione cristiana, soprattutto a partire dalla riforma luterana e dal particolare influsso che sulla moderna riflessione filosofica avrebbe esercitato la teologia sociniana, di una cosa si può essere ragionevolmente certi: del fatto che non la modernità, persino con il suo carico inestimabile di studi storico-filologici capaci di portare alla luce tante sepolte o incomprese verità della storia delle idee anche religiose,  potrà mai assurgere ad esclusivo e oggettivo criterio interpretativo dell’originario e originale senso veritativo e spirituale del cristianesimo evangelico, ma semmai il depositum fidei gelosamente custodito dalla Chiesa apostolica e romana bisognerà pur sempre non perdere di vista per poter discernere tra il grano e la zizzania delle rumorose novità della storia umana: giacché non tutte le ricostruzioni, le riscoperte delle primitive forme della religiosità e della cultura cristiane, rese possibili dal sapere moderno, sono frutto di pura e rigorosa acribia filologica quanto, principalmente, di pregiudiziale distorsione cognitiva che finisce per oscurare non di rado lo stesso significato di rilevanti dati conoscitivi venuti faticosamente alla luce da lavori pure complessi e faticosi di scavo. Peraltro, appare immediatamente improbabile che da tutti i fenomeni ereticali generatisi nel corso dei secoli da un confronto con la tradizione religiosa e l’ortodossia cristiana, possano essere emersi solo contributi preziosi e idonei a ripristinare il volto autentico della fede cristiana, liberandolo dalle deformazioni intervenute nei secoli, e non anche o soprattutto interpretazioni erronee o arbitrarie e in grado di alterarne i tratti essenziali. Che poi, da eventi ereticali quali il protestantesimo luterano e la filosofia teologica sociniana, con cui sarebbero venuti interagendo riflessioni filosofiche del movimento scettico e libertino seicentesco e settecentesco, o, su posizioni completamente antitetiche, una certa teologia islamista, e persino, talvolta, geniali sensibilità scientifiche come quella di Newton o Joseph Priestley, possano essere derivati essenziali contributi chiarificatori alla genuina rappresentazione della fede cristiana, è da ritenersi semplicemente spropositato e decisamente fuorviante1. Continua a leggere

La morte tra fede e miscredenza

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Altro è morire credendo in Dio e nell’unico, vero Dio, che è il Dio di Gesù il Cristo, altro è morire non credendo né al Dio cristiano, né a qualunque altra divinità. Nel primo caso, si muore con una fondata speranza di risurrezione, fondata in quanto ancorata alla promessa di una persona storica che, con la sua vita e la sua opera, sarebbe parso degno a intere generazioni di essere amato e adorato come Signore assoluto della storia del mondo e dell’umanità; nel secondo caso, si muore in ogni caso consapevoli di non poter più vedere la luce né per assistere alla conversione di una vita terrena di sofferenza e rinuncia in una vita perennemente appagante e festosa, né per scoprire che la vita vissuta nel quadro della precedente esperienza terrena venga eventualmente tramutata in una vita inestinguibilmente oscura e infelice. Tuttavia, la morte esiste solo come concetto non sperimentato e non sperimentabile, con la sola eccezione di Cristo. Essa è un’astrazione, mentre solo la vita è reale, eterna e immutabile1.  In via ipotetica, la morte, per il cristiano, è la fine di un ciclo di vita ma non della vita tout court, è anzi l’immersione battesimale in un misterioso e oscuro varco trasformativo di nuova nascita, mentre per il non credente è semplicemente l’ingresso in una terra cimiteriale di non ritorno alla vita. Quanto ai credenti non cristiani, il loro stesso Dio resta giudice del destino di vita o di morte immortali di cui essi potranno essere resi eternamente partecipi.  Continua a leggere

Quale morte?

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Il tempo degli universali, sembra decretare il pensiero postmoderno, è finito per sempre. Non c’è più nulla, né conoscenze, né sentimenti, né valori, che possa sussistere al di fuori dei suoi condizionamenti storici, politico-sociali, culturali, per cui tanto la conoscenza che l’etica o la stessa fede religiosa continuano ad assolvere una funzione pragmaticamente ed esistenzialmente critico-orientativa nei limiti di una autoreferenzialità soggettivistica, relativistica, pluralistica, ormai eretta a paradigma egemonico, corrosivo di qualsivoglia genere di certezza metafisica o epistemologica, della razionalità contemporanea. Di conseguenza, non sembra poter avere più senso interrogarsi sul senso della vita o della storia, ma al più sui sensi possibili che, per via soggettivistica, potrebbero essere conferiti all’una e all’altra, benché anche in tal caso non perderebbe la sua incisività esistenziale la massima nietzscheana per cui, se vivere è soffrire, sopravvivere è trovare un senso nella sofferenza1. Se il mondo non ha più, come in passato, un senso predeterminato o predeterminabile, si ricreano per gli esseri umani le condizioni di una loro reale libertà d’azione, in quanto ognuno potrà decidere di vivere e agire in conformità a significati e a valori individualmente e liberamente scelti. Dal senso ai sensi della vita e della storia: questa è la traiettoria che caratterizza la cultura del nostro tempo2. Come dire, e non in senso necessariamente polemico: che ognuno abbia facoltà di pensare e di vivere come meglio gli aggrada! Continua a leggere

Dio non tollera altri olocausti dopo quello ebraico: né contro altri popoli né, ancora una volta, contro Cristo

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Se non sono criminali un capo di stato e i suoi più diretti collaboratori che non esitano ad affamare letteralmente la popolazione di uno Stato ostile, peraltro da sempre virtualmente in guerra con lo Stato da essi rappresentato, e ad ostacolarne l’assistenza umanitaria, non astenendosi infine da attacchi reiterati e intenzionali contro i civili, allora bisogna riscrivere il dizionario della lingua italiana e di tutte le lingue del mondo. Con tali accuse, la Corte penale internazionale ha giustamente ritenuto di considerare Benjamin Netanyahu e il capo dell’esercito israeliano “criminali di guerra” spiccando contro di essi un ordine di cattura in tutti gli Stati in cui essi dovessero metter piede. Per me, credente cattolico e seguace del vangelo di Cristo, non sussistevano dubbi, anche prima di questa sentenza, circa le gravissime responsabilità etico-civili, politiche, religiose e penali, dello Stato d’Israele che, per quanto oggettivamente assediato dal terrorismo palestinese e islamico, non è evidentemente legittimato dalla pur tragica esperienza storica dell’Olocausto, a ricorrere all’arma dello sterminio e della vendetta sacrificale a danno dei suoi nemici. Mi spiace per Giorgia Meloni che ha fin qui dimostrato, a dispetto dei puerili e isterici attacchi ricevuti dall’inetto fronte democratico-progressista e da istituzioni statuali con questo collusi, di essere uno dei capi di governo più capaci, risoluti e lungimiranti della storia repubblicana italiana dal dopoguerra ad oggi, ma la sua pur comprensibile prudenza diplomatica nei confronti dei vertici politici israeliani è assolutamente ingiustificata e anche politicamente dannosa, checché se ne possa invece pensare al riguardo, soprattutto alla luce dell’odierna condanna penale dell’Aia. Netanyahu è un criminale come Putin: l’unica attenuante del primo rispetto al secondo, è che la Russia semina terrore e morte in Ucraina da circa due anni dopo aver unilateralmente e ingiustificatamente invaso l’Ucraina, mentre lo Stato israeliano semina da circa un anno distruzione e morte in Palestina, violando tutte le regole del diritto internazionale oltre che basilari princìpi di umanità, dopo aver subito l’efferato e inescusabile attacco dei terroristi palestinesi, pur spinti a compiere un’orribile strage di persone innocenti da ragioni storiche non certo incomprensibili di odio profondo verso un popolo che dal ’48 ad oggi, attraverso i suoi governi legittimi, non fa altro che esercitare una volontà spietatamente imperialistica a danno della popolazione palestinese. Ma tale attenuante, se la si voglia considerare tale, non giustifica affatto il piano di “soluzione finale del problema palestinese” che Netanyahu, non meno di Hitler, oggi vorrebbe attuare in pieno XXI secolo. Continua a leggere