I nemici interni dello Stato italiano

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Lo Stato italiano ha nemici esterni e nemici interni. I nemici esterni sono tutti quei Paesi europei che, approfittando della sua posizione geografica, vorrebbero scaricare su di esso tutto il peso della politica migratoria, 

trattandolo come una sorta di spazio europeo riservato all’accoglienza e magari all’integrazione di tutti i migranti che tocchino, legalmente o illegalmente, le coste italiane, nel nome di un diritto internazionale  e di trattati europei che, di fatto, sembrano condannare al momento l’Italia a farsi carico di tutti i disperati del mondo. Ma i nemici interni sono molto più temibili e ben più corrosivi, per il semplice fatto che un organismo ancora integro riesce ancora a difendersi adeguatamente da pericoli o attacchi esterni, mentre un organismo già minato all’interno e sottoposto quindi ad uno stress elevato specie se prolungato, ha maggiori difficoltà a resistere efficacemente a minacce di origine esterna su esso incombenti. Continua a leggere

Al Sindaco di Cosenza

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Al Sindaco di Cosenza sulle pratiche mortuarie di tumulazione nel cimitero cittadino.

Non so se il sindaco di Cosenza si sia mai trovato nella condizione di dover aspettare 15 giorni, un mese, due mesi o tre mesi, prima che la salma di un suo congiunto particolarmente stretto fosse trasferito, per trovare degna sepoltura, dall’obitorio cimiteriale al suo loculo o nella sua cappella privata. Ma per i cittadini comuni di Cosenza si stanno delineando ormai da diverso tempo situazioni e attese intollerabili di questo genere. Per questa ragione, come uomo e cittadino, gli rivolgo domande non solo opportune ma necessarie e doverose,con la speranza che egli avverta il bisogno di rispondere celermente con provvedimenti adeguati e indilazionabili.

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Berlusconi e i vigliacchi d’Italia

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C’è poco da fare: dopo la sparata filorussa e filoputiniana dello stupido e corrotto cavaliere milanese, adesso gli intellettuali italiani, accademici, studiosi, giornalisti di diversa taglia ed estrazione ideologica o politico-culturale, favorevoli alla cessazione delle ostilità in Ucraina per paura di una escalation militare e nucleare, ma anche per  consentire al criminale di San Pietroburgo di cavarsela a buon mercato e all’Europa più cinica, egoista ed indifferente a valori universali di prossimità e solidarietà, di tornare tranquillamente ai suoi affari, alle sue redditizie attività economiche, alle sue speculazioni finanziarie sempre più lesive dei diritti di popoli e di povera gente comune, ai suoi ipocriti proclami di intangibili princìpi di libertà, eguaglianza e fratellanza, come anche a cospicua parte del mondo cattolico pacifista di ritenere finalmente esaudita la sua incessante e miserevole richiesta di pacificazione a tutti i costi, devono prendere atto, volenti o nolenti, di appartenere alla stirpe antropologica dei Berlusconi, cioè di soggetti megalomani, abitati unicamente da un malsano desiderio di successo e di potere a tutti i costi, da un maligno spirito di appartenenza a perverse logiche di tornaconto personale, da irrefrenabili pulsioni asociali e immorali di prevaricazione nei confronti degli altri, dalla patologica propensione ad utilizzare una cultura del tutto improvvisata e superficiale a scopi meramente decorativi o ornamentali. Continua a leggere

Gli intellettuali e il problema della globalizzazione

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La società globale è una società in cui le ideologie, ufficialmente dissoltesi e inesistenti, sopravvivono tuttavia nell’inconscio di politici e intellettuali relativamente giovani che si guardano bene tuttavia dal manifestare in forma pubblica antichi rimpianti, nostalgie di idee e modelli sociali ormai anacronistici, tradizionali esigenze teorico-pratiche di natura organicistica e totalizzante. Ormai, è sempre più difficile trovare partiti che siano organici alla base sociale di riferimento se non per ragioni prevalentemente strumentali ed elettorali, e politici e intellettuali disposti a rendersi gramscianamente funzionali ad un’opera di educazione o rieducazione intellettuale e morale delle masse.

In un mondo in cui le politiche sono ormai asservite all’economia di mercato e la cultura è un calderone di tendenze critico-tematiche in apparenza distinte e variegate ma sostanzialmente omogenee e sottoposte ai criteri grevemente uniformi di quel dominante “pensiero unico” secondo il quale il mondo in cui viviamo, con il suo impersonale dirigismo politico-finanziario, la sua democrazia e il suo pluralismo eterodiretti, le sue libertà civili e culturali costantemente sorvegliate e regolamentate, è l’unico mondo possibile, ad eccezione del mondo puramente simbolico o immaginario di poeti, letterati, filosofi, artisti e, verrebbe di dire, innocui deviati mentali, in un mondo siffatto gli intellettuali, ben lungi dal rischiare di sentirsi “funzionari dell’umanità”, secondo la celebre definizione di Edmund Husserl, si mettono al servizio ben remunerato di piccoli e grandi potentati accademici, mediatici ed editoriali piuttosto che di impegnative scelte filosofiche, etico-religiose e politiche di fondo1. Continua a leggere

L’apostolato laico dell’intellettuale cattolico

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La principale funzione che Leonardo Sciascia molto candidamente attribuiva all’intellettuale era quella di «dire la verità», che era quello che diceva anche Chomsky durante la guerra americana in Vietnam e che, comunque, è un concetto anche abbastanza ovvio. Dire la verità sembrerebbe la cosa più facile del mondo, anche se in realtà, sia sotto l’aspetto conoscitivo ed interpretativo che sotto quello etico e religioso, è verosimilmente l’operazione logica e psicologica più difficile e complessa cui un essere umano, semplice e ingenuo o evoluto che sia, possa dar luogo. Per quale motivo? Perché tale funzione, non già in contesti particolarmente semplici ed elementari di vita e di vita familiare o sociale ma in contesti relazionali, sociali e storico-istituzionali, già abbastanza complessi e ingarbugliati, che sono propriamente quelli in cui l’intellettuale è chiamato ad operare, viene il più delle volte esercitandosi su una realtà opaca e non agevolmente riducibile allo schema binario vero-falso, giusto-ingiusto, razionale-irrazionale. Continua a leggere

La lezione di Sabino Cassese sugli intellettuali

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Sarà opportuno riflettere a lungo sulla interessante e articolata lezione tenuta da Sabino Cassese nel suo recente libro sugli intellettuali1. L’imperante populismo avrebbe messo in crisi gli intellettuali che già prima, con l’avvento della cultura del web, temendo di sparire dagli orizzonti del grande pubblico e di perdere ogni possibilità di influenza sociale, si erano valsi dell’aiuto e dell’ospitalità dei media, al fine di poter continuare a comunicare prima e di poter contrapporre poi il proprio sapere, certo non improvvisato, al sapere contestativo ma generico e qualunquistico di quelli che sarebbero presto diventati i teorici dell’ ”uno vale uno” o dell’ “uno vale l’altro”, cercando così di abolire il tradizionale confine tra chi sa e chi non sa, tra il sapiente e l’ignorante, tra l’intellettuale e il volgo incolto2.   Continua a leggere

Il trionfo di Giorgia Meloni e l’intolleranza antidemocratica dei “democratici”

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Io sono, come i lettori sanno, un cattolico democratico di ispirazione personalistica e comunitaria. In passato, ma circa 30-35 anni or sono, mi presentai alle elezioni regionali della Calabria, nelle file di Democrazia Proletaria, come indipendente di sinistra. Fu un insuccesso, ma non è questo il punto. Oggi penso di conoscere bene l’anima della sinistra e di molti democratici, ed è per questo che non temo di considerare il recente successo politico-elettorale di Giorgia Meloni come un segno di speranza, come motivo di fiducia in un futuro politico nazionale migliore.

Ma cosa vogliono i giornali di mezzo mondo, le cancellerie europee, le cosiddette democrazie occidentali? Cosa vogliono, soprattutto, tutti quei giornalisti “progressisti” italiani che, all’indomani della vittoria elettorale di Giorgia Meloni, ritengono di poter e dover reiterare, sul piano della comunicazione mediatica, il loro tradizionale diritto di veto nei confronti di un partito sempre tacciato di essere erede della tradizione politica fascista? Cosa vogliono tutti quei dotti benpensanti che preferirebbero vedere al governo del Paese i soliti partiti che, lungi dal voler fasciare le sanguinanti ferite di un popolo costantemente mal governato durante il primo ventennio del terzo millennio, continuerebbero a sfasciare la già debole economia nazionale e la sua già molto frammentata struttura sociale, piuttosto che assistere alla trionfale e meritata ascesa al governo nazionale di colei che, senza alcun dubbio, ha dato negli anni amplissima dimostrazione di sagacia e lungimiranza politiche, di pregevole preparazione culturale e di intelligenza tattico-strategica, di abilità mediatico-comunicativa e soprattutto di passione etico-civile e di eminente fede patriottica? Continua a leggere

Gli intellettuali di ieri e la crisi intellettuale di oggi

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Non so se e fino a che punto sia vero che, morti tanti grandi maestri del passato, la società italiana di questo inizio di terzo millennio sia ormai rimasta orfana di luminosi fari culturali, di importanti guide spirituali, di significativi punti morali e civili di riferimento, anche se, appartenendo ad una fase avanzata della vita in cui generalmente si diventa più saggi ed equilibrati, confesso di non ricordare specifici periodi storici del secolo scorso e del primo ventennio di questo secolo, in cui, pure nel quadro di impegnativi e talvolta infuocati dibattiti culturali ed etico-politici, qualcuno di quei rimpianti maestri riuscisse in qualche modo ad egemonizzarli o, più semplicemente, ad esercitare una speciale influenza sulla pubblica opinione. Credo che, morto Benedetto Croce, e per motivi beninteso del tutto contingenti, papi della cultura nazionale, non ve ne siano più stati. E forse è stato un bene perché la cultura, a differenza della vita religiosa, non può svolgersi, non può svilupparsi e progredire se vi siano papi a dirigerla ma anche a regolamentarla, disciplinarla, limitarla. Continua a leggere

Metamorfosi e profilo identitario dell’intellettuale.

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Non so se avesse completamente ragione Bauman nell’affermare che, nel periodo di transizione dalla modernità alla postmodernità, gli intellettuali, in quanto specifica categoria storico-sociologica nata nel contesto illuministico e meglio caratterizzatasi poi sul finire dell’800 per la sua specifica e duplice funzione di critica sociale e critica del potere, sarebbero venuti gradualmente smarrendo la loro originaria e universalistica funzione di “legislatori”, termine a mio avviso usato impropriamente dal sociologo polacco (meglio sarebbe stato limitarsi ad usare un termine come “giudice culturale”), ovvero la funzione di affrontare e dirimere con indiscussa autorevolezza critica le grandi e generali questioni della verità, dell’eticità e dei costumi sociali della loro epoca, per assumere un più dimesso ruolo di “interprete”, consistente nel ridurre il grado di incomprensione e di incomunicabilità tra tradizioni diverse di pensiero e di cultura e nel descrivere, quanto più analiticamente possibile, la problematicità, la contraddittorietà, la complessità dei processi in atto, anche se la natura per così dire “tecnica”, neutrale, imparziale, di questo approccio programmaticamente non più valutativo, ideologico e politico ma, per  l’appunto, basato su giudizi avalutativi, descrittivi, ermeneutico-esplicativi, si sarebbe presto rivelata illusoria1.  

Non so se e in che misura Bauman avesse ragione, ma d’altra parte è naturale che storicamente anche le forme dell’intellettualità, dell’essere intellettuali, siano soggette a mutare, pur senza necessariamente perdere la loro costitutiva vocazione all’universalità. Per esempio, non si può dire che un giornalista postmoderno e postcomunista come Piero Sansonetti sia un intellettuale più descrittivo, più obiettivo e imparziale di quanto non lo fossero certi eminenti intellettuali del primo novecento, magari solo per via di un linguaggio più leggero, agile ed essenziale, anche se meno analitico, meno problematico, meno esauriente ed esaustivo, quale dev’essere quello di chi scrive quotidianamente articoli per i giornali. Ora, proprio un “interprete”, direbbe Bauman, come l’intellettuale democratico-libertario  Sansonetti, si chiedeva sarcasticamente, sulle colonne di “Liberazione”, che fine avessero fatto, all’indomani dell’elezione pontificia di Joseph Ratzinger, tutti quei cattolici democratici che per tutta la seconda metà del ’900 avevano contribuito attivamente allo sviluppo della società civile e del sistema democratico, spesso ponendosi come mediazione sensibile e intelligente tra società laica e società religiosa, tra comunità sociale e Chiesa gerarchica, oscurantista e totalitaria, lamentando che quegli stessi intellettuali assistessero ora pavidamente, sotto il pontificato di un papa “reazionario” come Benedetto XVI (questo, in sostanza, era il giudizio che ne dava), allo smantellamento di quella che era stata, negli anni sessanta, la grande costruzione conciliare. E, per contrasto alla pochezza intellettuale che caratterizzava la scena dei cattolici italiani nell’era del papa tedesco, sciorinava tutta una serie di nomi di famosi intellettuali cattolici del bel tempo andato, da Ernesto Balducci a Lorenzo Milani, da Adriani Zarri a padre Turoldo, dai più moderati Pietro Scoppola e Achille Ardigò a sindacalisti combattivi come Livio Labor o Pierre Carniti e, infine, a parlamentari, filosofi ed economisti come Franco Ròdano, Giuseppe Gozzini, Claudio Napoleoni. Tutti nomi noti, se si vuole anche celebri e popolari, più che altro per le frequenti celebrazioni giornalistiche loro dedicate per via del particolare piglio caratteriale e di una certa carica critico-contestativa non identica per tutti indistintamente, che ne caratterizzavano gli studi e le prese di posizione spesso polemiche su questioni culturali o di quotidiana attualità, e che soprattutto riempivano i giornali a causa di quel loro cattolicesimo talvolta controcorrente o antistituzionale. Continua a leggere

Felice Balbo e la filosofia del lavoro

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1. L’intellettuale cattolico tra critica del sistema e riforma del sistema.

Accademico solo per collocazione professionale, non certo per mentalità e metodologia di lavoro, intellettuale atipico e anticonformista ancora oggi abbastanza misconosciuto e sottovalutato. Di scrittura non sempre chiara, lineare e ordinata, benché significativa ed originale su temi essenziali, ma teoricamente e concettualmente lucido; militante cattolico alieno da ogni forma di bigottismo e di ideologia religiosa, ma dedito a servire la causa evangelica con uno spirito missionario talvolta sin troppo zelante e inquieto. Intellettuale imparziale ma non neutrale, realista ma controcorrente e inattuale. Un uomo di fede con la passione del finito e del sociale ma con l’ansia esistenziale dell’infinito e dell’eterno, un apostolo laico e un pensatore cattolico con la vocazione a indagare le corde più sensibili e vitali dell’esistenza personale e a produrre conoscenza in funzione di una piena ma realistica emancipazione dell’uomo-operaio nel quadro di comunità piccole ma solidali di lavoro.

Questo fu Felice Balbo, che, dopo aver individuato l’intellettuale solo in chi si riveli «anticipatore», cioè capace di «vedere e capire i significati del tempo», avrebbe avuto a precisarne epigraficamente il ruolo in questi termini: esso «non deve appartenere a coloro che decidono, o che muovono le masse, ma a coloro che propongono, che sollecitano, che ideano e aprono nuove vie, che portano a verità l’opinione confusa e contraddittoria, che scoprono ed enunciano nuovi bisogni, nuovi doveri, che determinano, in una parola, il primo atto in ogni processo di umanizzazione degli uomini» 1. Continua a leggere