Carl Gustav Jung
Secondo Jung, la nostra anima è chiamata ad operare nel corso di un’intera esistenza, con dinamiche inconsce e consce ad un tempo che le sono costitutive, una sistematica reintegrazione del senso della vita. Nel 1917, pensa ancora che Dio non sia dimostrabile razionalmente, per cui esso corrisponde a una funzione psicologica di origine e natura cosmica, una funzione di architettura del senso, in virtù della quale la psiche ha bisogno di creare qualcosa che resta al di fuori della vita personale dell’io1. Negli anni successivi, ovvero tra gli anni venti e trenta, sostiene tuttavia di non credere nell’esistenza di Dio ma di sapere che Dio stesso esiste, di saperlo per via di esperienza personale e professionale, allorché egli avrebbe avuto innumerevoli volte modo di notare quel che succede ai pazienti e alle persone in genere, quando di fronte a momenti di crisi, di grave smarrimento, qualcosa in loro chiede, cerca, propone, al di là della loro sfera razionale o volitiva, una nuova organizzazione, nuove possibilità di significato o architettura del vivere. Proprio in occasione di una celebre intervista, antecedente appena di un anno la sua morte, ebbe a dire: “Adesso lo so. Non ho bisogno di credere“, argomentando che non avrebbe mai potuto “credere” alcunchè sulla base dell’autorità e dell’insegnamento della tradizione, ma semplicemente per via empirica e scientifica, e, nel caso specifico, sulla base dei fatti e delle prove che veniva osservando e raccogliendo come medico tra i suoi pazienti, che sono portati generalmente, all’indomani di vicende particolarmente dolorose e traumatiche, a desiderare, ben oltre il ragionevole e il possibile, il recupero o il ripristino di stati oltremodo soddisfacenti di vita2.
Per la sua mentalità scientifica, questo atteggiamento, a metà strada tra il conscio e l’inconscio, doveva essere interpretato come una tensione individuale verso una realtà e un’energia trascendenti fortemente connaturati nella stessa energia della parte inconscia e conscia dell’io. In questo senso, diceva di non avvertire alcun bisogno di credere in un’esistenza divina, ma semplicemente di doverne prendere atto nel quadro dei processi di guarigione o di liberazione del soggetto dai suoi disturbi patogeni e dell’obiettivo clinico di riportarlo alla realtà, alla riappropriazione del Selbst, del Sé. Jung, pertanto, affermava di sapere con certezza che Dio corrispondesse ad una necessità psichica profonda, integrante e costitutiva della sua stessa esistenza personale senza che ciò, contrariamente alla posizione frediana, dovesse essere spiegato come sintomatico di una più ampia fenomenologia psico-patologica. Lo scienziato, per lui, doveva limitarsi a registrare il fenomeno osservato, il dato di fatto, senza caricarli di interpretazioni soggettive scientificamente inverificabili o inconfutabili3. Egli questo intendeva nel dire che sapesse di Dio per esperienza personale. Questo genere di “sapere”, tuttavia, era pur sempre personale e “gnostico”, e, benché ispirato da intenzioni di probità scientifica, anche in tal caso non verificabile o confutabile scientificamente.
Sembra esserne consapevole lo stesso Jung quando spiega il significato della relatività del simbolo: «Per relatività di Dio io intendo una concezione secondo la quale Dio non esiste come “assoluto” e cioè staccato dal soggetto umano e al di là di tutte le condizioni umane, ma in base alla quale egli in un certo senso dipende dal soggetto umano, sussistendo un rapporto reciproco e necessario fra uomo e Dio, cosicché da un lato l’uomo può essere inteso come una funzione di Dio e dall’altro Dio come una funzione dell’uomo. Per la nostra psicologia analitica, in quanto essa è una scienza che bisogna intendere dal punto di vista empirico, l’immagine di Dio è l’espressione simbolica di uno stato psichico o di una funzione caratterizzata dal fatto che essa si sovrappone assolutamente alla volontà cosciente del soggetto e può quindi imporre o rendere possibili atti e realizzazioni che la coscienza con i suoi sforzi non sarebbe in grado di attuare. Questo impulso strapotente – allorché la funzione di Dio si manifesta nel comportamento attivo – o questa ispirazione che trascende l’intelletto cosciente proviene da un’accumulazione di energia nell’inconscio. Una tale accumulazione di libido dà vita a immagini che l’inconscio collettivo possiede come possibilità latenti; fra queste si trova l’immagine di Dio, che dall’origine dei tempi si è venuta coniando quale espressione collettiva delle più forti e assolute influenze esercitate sulla coscienza da concentrazioni inconsce di libido. Per la nostra psicologia che, in quanto scienza, deve limitarsi all’esperienza entro i confini imposti alle nostre capacità conoscitive, Dio non è perciò neppure relativo, ma è una funzione dell’inconscio, cioè la manifestazione di una quantità di libido divenuta autonoma, la quale ha attivato l’immagine di Dio. Per la concezione metafisica Dio è naturalmente assoluto, cioè esistente di per sé. Con ciò si esprime anche un distacco completo dall’inconscio, il che psicologicamente significa che non si è consapevoli del fatto che l’azione divina scaturisce dalla propria interiorità. … Questo fu il caso dei mistici»4.
La “psicologia analitica”, per il grande clinico svizzero, doveva servire a ricostruire l’accesso all’anima, alle capacità di creazione di senso, di quel senso che il nostro mondo, la nostra storia, la nostra ragione stavano perdendo5. Bisognava andare al di là della ristrettezza del nostro io, dove si incontra la natura, il mondo, la società, il totalmente sconosciuto e non ancora sperimentato, tutte cose che trascendono l’io e da cui l’io stesso, la sua vita, dipendono indissolubilmente. In questo consisteva il bisogno psichico di trascendenza nell’interpretazione junghiana. Ma, obiettivamente, esso non appariva così pregnante da potersi valutare come sufficientemente idoneo a giustificare l’ambigua generalizzazione contenuta nella proposizione junghiana: Dio esiste. E, in realtà, come si evince molto chiaramente dal brano sopra riportato, per Jung Dio esiste solo in quanto principio archetipico dell’inconscio umano e della stessa attività mentale dell’uomo. Il fatto è che, proprio sul piano della sua struttura psico-genetica, l’uomo non può sopportare una vita priva di senso, e allora appare molto più innaturale la tendenza umana a cedere alla tentazione, indotta da diversi condizionamenti storico-culturali, di non ammettere alcuna ulteriore possibilità di vita dopo la fine della vita biologica che non l’inclinazione non meramente istintuale ma mentale e razionale a confidare in una vita oltre la vita. Il fatto che la fede e tutto ciò che essa implica, Dio, la risurrezione, la vita eterna, siano proiezioni dello spirito umano, non significa, contrariamente a quanto sosteneva Freud, che esse siano semplici illusioni conseguenti al bisogno dell’individuo, letteralmente atterrito dall’idea della morte e dalla consapevolezza della sua ineluttabilità, di coltivare certezze o semplicemente speranze esistenziali rassicuranti6. Che lo spirito umano senta o percepisca la presenza di qualcosa di esterno o estraneo ad esso e tuttavia non al punto di risultare totalmente impercettibile in esso, non riduce il valore di questa sua attività proiettiva, dal momento che anche la spiritualità è una delle tante possibili fonti di energia che, sia pure in quantità diverse, agiscono creativamente e simbioticamente nell’universo concorrendo a costituire, per così dire, i terminali del suo complessivo funzionamento. In questo senso, le proiezioni della psiche, dell’inconscio, dello spirito o dell’anima, non possono essere né banalizzate, né semplificate7.
A differenza di Freud, Jung coglie, attraverso la mediazione dell’inconscio collettivo, un legame tra anima individuale e anima mundi e questo vale per tutta una serie di processi emozionali e premonizioni annidate funzionalmente, al pari degli organi di senso e non alla stregua di dati surrettiziamente importati dall’esterno o di interne distorsioni psichico-emotive, nei meandri più impenetrabili della mente umana nella quale vengono sedimentandosi e modellandosi in modi diversi non solo i dati acquisiti in una vita individuale, nella propria vita individuale, ma i dati di altre vite, di altre e più estese esperienze di vita che l’abbiano preceduta, quali quelle dei propri genitori, dei propri educatori, dei propri maestri di cultura, dei propri pastori o guide spirituali, di tutta una serie più o meno ampia insomma di sorgenti informative che concorrono a fare di un soggetto umano quel particolare soggetto umano sia pure accomunato a tutti gli altri soggetti da strutture o da funzioni aprioristicamente presenti in tutti gli esseri umani. E così si spiega perché, lungi dal doversi attribuire a semplici paure inconsce di natura irrazionale e a connessi meccanismi psichici di proiezione ipostatica, la tendenza a parlare di peccato, di espiazione, di male, di morte o di redenzione e di salvezza, ha una sua specifica ragion d’essere nel quadro delle attitudini funzionali ontogenetiche e filogenetiche di compenetrazione della psichicità individuale e collettiva con le strutture complessive e universali della realtà cosmica8.
Il male, il peccato, l’idea di un redentore, non potrebbero essere rimossi da semplici azioni storico-culturali, in quanto fanno parte della natura umana e, per questo, è inevitabile che l’uomo ne parli, a meno che non si imponga di non parlarne in violazione del suo stesso modo naturale di essere. Si tratta di realtà psichiche che abitano nel fondo più arcano della mente collettiva dell’umanità, che è perfettamente naturale vengano a manifestarsi e che sarebbe invece innaturale rimuovere o reprimere. Si crede in una vita ultraterrena perché è connaturato al vivere il sentirlo come destinato non a finire ma a durare, a rinnovarsi, a perpetuarsi attraverso continue rinascite, e si crede in un redentore perché la psiche non può fare a meno di coltivare l’aspettativa di qualcuno o di qualcosa che, così come l’ha fatta esistere una volta rispetto al suo precedente non essere, continui a farla esistere anche rispetto all’apparente non essere cui sembra evolvere in modo ineluttabile. Dio stesso esiste nella psiche: indipendentemente dal fatto che esista o non esista come Ente oggettivo e radicalmente altro da essa, esiste comunque in essa come sua funzione costitutiva e ineliminabile e, in tal senso, se la vita è reale, Dio, in quanto ad essa funzionalmente necessaria, è altrettanto reale. Tutto questo accade perché la psiche non è obbligata a vivere esclusivamente nello spazio e nel tempo, dunque non è soggetta a categorie spazio-temporali, non almeno in modo univoco o esclusivo, né si può logicamente respingere che l’idea che si annida in essa, quella di una continuazione della vita oltre la morte, sia garantita dalla percezione funzionale di Dio. Ciò non implica, peraltro, che sia possibile sapere che esiste questo o quel Dio, un determinato Dio, Zeus piuttosto che Yahweh, Allah piuttosto che il Dio trinitario, ma che sia possibile sapere che, come scrive lo stesso Jung, «sono palesemente confrontato con un fattore in sé sconosciuto e che chiamo Dio in consensu omnium… In quanto so di una collisione con una volontà superiore nel mio proprio sistema psichico, so di Dio, e se volessi tuttavia usare l’ipostatizzazione in sé illegittima della mia idea, direi: so di un Dio al di là del bene e del male che è altrettanto in me quanto in ogni luogo al di fuori di me»9.
La fede, in altri termini, diversamente da quel che prevede la teoria psicoanalitica freudiana, non consegue ad una sublimazione della dura realtà biologica ma appartiene costitutivamente e irriducibilmente alla condizione umana. I dati religiosi, di conseguenza, nascono originariamente all’interno di esperienze interiori individuali, pur essendo soggetti a processi secolari di rielaborazione culturale che tendono ad uniformare tali esperienze e a renderle assimilabili da parte di una collettività più o meno ampia di persone. Ciò detto, bisogna affermare con molta chiarezza che il Dio junghiano, per quanto teoreticamente intrigante o avvincente, è tuttavia un Dio arzigogolato, decisamente difficile da capire non solo in un ordinario linguaggio filosofico e teologico ma persino in quello specifico ambito mistico-esoterico verso cui Jung avrebbe mostrato particolare interesse. Il nucleo tematico intorno a cui gravita l’intera disamina junghiana della divinità è quello di un Dio puramente interiore anche se personalmente o soggettivamente esperito non come puramente immanente ma in una sua trascendenza, e in ogni caso percepito indipendentemente dalla sua ipotetica realtà ontologica e trascendente: «Se poniamo un Dio fuori di noi, ci strapperà al nostro Sé, perché il Dio è più forte di noi. Allora il nostro Sé si troverà in grave difficoltà. Se invece il Dio si insedia nel Sé, ci sottrarrà alla sfera di ciò che è fuori di noi. (…) Nessuno ha il mio Dio, ma il mio Dio ha tutti quanti, me compreso … Devo liberare da Dio il mio Sé, poiché il Dio che ho conosciuto è più che amore, è anche odio; è più che bellezza, è anche ripugnanza; è più che sapienza, è anche assurdità; più che forza, è anche impotenza; più che onnipresenza, è anche la mia creatura»10. Certo, il Sé, di cui l’io è solo una parte, avverte la netta discrepanza tra la sua finitezza e i suoi imperiosi bisogni psichici e l’infinità di un Dio autore di una legislazione da cui non è disposto a derogare, ma proprio questa è una ragione in più perché il Sé, in una progressiva espansione spirituale alla quale vengano gradualmente annesse tutte le fallaci pretese dell’io, faccia in modo che il Dio resti sempre in esso e con esso e non lo trascini verso disumani e abietti orizzonti di smarrimento e di morte.
Questa immagine psicoanalitica della fede, evidentemente, non poteva che allontanare Jung dai principali contenuti dogmatici della fede cristiana, quali l’oggettività storica e quindi l’irriducibilità della Rivelazione al soggetto e alla semplice analisi psicologica, la natura realistica e non meramente simbolica della risurrezione di Cristo, l’esistenza di un mondo di là da venire, l’origine misteriosa ma non mitica del peccato e del male che, pur riscontrabili in sede storica, non possono essere interpretati come semplici manifestazioni di disordine mentale, di deviazione o disagio psichico. A dire il vero, Jung, che è molto critico verso «le persone che sono paghe di una vita prosaica e avulsa dalla meditazione introspettiva» in quanto «confinate in un orizzonte spirituale troppo angusto; la loro vita non ha sufficienti contenuti, non ha significato»11, non nega la possibile attendibilità di tali contenuti, semplicemente si astiene dal pronunciarsi al riguardo: «Non so dire se questi pensieri siano veri o falsi, ma so che ci sono, e che possono manifestarsi, se non li soffoco per qualche preconcetto. La prevenzione paralizza e danneggia la piena manifestazione della vita psichica, che conosco troppo poco per presumere di poter correggere. La ragione critica ha apparentemente eliminato, insieme con altre concezioni mitiche, anche l’idea della vita dopo la morte. Ciò può essere accaduto solo perché oggi gli uomini per lo più si identificano quasi esclusivamente con la loro coscienza, e credono di essere solo ciò che conoscono di se stessi. Eppure quanto questa conoscenza sia limitata può capirlo chiunque possegga anche solo un’infarinatura di psicologia. Il razionalismo e il dottrinarismo sono malattie del nostro tempo: pretendono di saper tutto. Invece ancora molto sarà scoperto di ciò che oggi, dal nostro limitato punto di vista, riterremmo impossibile. I nostri concetti di spazio e tempo hanno solo validità approssimativa, e lasciano perciò vasto campo a discordanze relative o assolute. In considerazione di tutto ciò io porgo un orecchio attento a tutti gli strani miti dell’anima e osservo i vari avvenimenti che mi capitano senza considerare se essi si adattino o no alle mie premesse teoriche»12.
Jung stesso riconosce che, sin da adolescente, ebbe la tentazione di pensare che il simbolismo eucaristico fosse espressione di cannibalismo13, e, più in generale, egli fu sempre succube di un Dio percepito come ossessivo, non solo impenetrabile ma anche invadente, ingiuntivo, angoscioso e minaccioso, di un Dio più da temere che da amare e in cui confidare. Questo modo così intellettualistico, iperanalitico e contorto di porsi il problema di Dio, questo modo così diffidente e scoraggiante di riflettere sul rapporto tra Dio e la creatura, peraltro in parte caratteristico di un approccio protestante all’esperienza di fede, non poteva che sospingerlo gradualmente verso quello che lo stesso Jung, nel capitolo su “Gli anni di scuola” del testo in parola, chiama “il mio scetticismo religioso”, precisando che quel Dio «insieme buono e terribile» poco per volta aveva incrinato il suo bisogno di fede, tanto che «la prospettiva religiosa, che ritenevo costituisse la mia unica relazione significativa col mondo, era svanita; non potevo più a lungo partecipare alla fede comune, ed ero prigioniero del mio ineffabile segreto, che non potevo dividere con nessuno»14. Si può ben dire che, nella riflessione junghiana, Dio sia stato oggetto di un vero e proprio accanimento inquisitorio piuttosto che di fiducioso abbandono alle sue paterne prerogative di comprensione e di amore per le sue deboli e travagliate creature, anche se, a ben riflettere, il Dio preso di mira era probabilmente quello codificato negli schemi pretenziosi e astratti di certa pur gloriosa speculazione filosofico-teologica cristiana. Sempre nel capitolo dedicato ai suoi anni di scuola si leggono i seguenti, non completamente ingiustificati, giudizi: «Solo in Meister Eckhart – anche se non lo capivo del tutto – avvertii un soffio di vita. Gli Scolastici mi lasciarono freddo, e l’intellettualismo aristotelico di S. Tommaso mi sembrò più arido di un deserto. Pensavo: “Tutti costoro vogliono che per forza risulti qualcosa dai loro giochetti di logica, qualcosa che non è stato dato loro e che in realtà non conoscono. Vogliono provare a se stessi una fede quando in effetti è solo questione di esperienza vissuta”. Mi parevano simili a gente che, sapendo per sentito dire che esistono gli elefanti, senza mai averne visti, volesse provare con argomentazioni logiche che animali del genere devono esistere e devono esser fatti così come sono in realtà. La filosofia critica del secolo XVIII, per ovvie ragioni, a tutta prima non mi attrasse affatto, e dei filosofi del secolo XIX Hegel mi sconcertò con il suo linguaggio pretenzioso quanto complicato, e lo considerai con non celata diffidenza. Mi pareva che fosse prigioniero delle sue stesse parole, e che si agitasse boriosamente nella sua prigione»15.
Ma, in definitiva, era la maniacale esigenza junghiana di attivare una indefinita proliferazione mentale di quesiti di difficile se non impossibile risoluzione razionale, di misurare quasi le sue capacità investigative in relazione ai più fitti e intricati misteri della divinità, a compromettere non solo l’integrità ma la stessa possibilità della sua fede, giacché chi crede può anche ricevere la grazia divina di comprendere, per via razionale, una grande quantità di cose inaccessibili ai comuni mortali, ma non sino al punto di poter violare persino i sacri e impenetrabili confini dell’omniscienza divina, come si evince in modo indubitabile dal capitolo sugli «ultimi pensieri» in cui Jung sfodera una impressionante serie di obiezioni filosofico-teologiche che, se ne dimostrano la vasta e profonda cultura religiosa, finiscono anche per farne uno sfidante talmente ostinato e puntiglioso di Dio da poter essere assimilato alla figura biblica di chi, diversamente da Giobbe, intende contendere con l’Onnipotente in modo arrogante e irriverente.
Jung distingue tra Dio, per definizione ineffabile e quindi indicibile, e immagine di Dio, tra l’idea metafisica di Dio, per cui questi è privo di un’immagine o di determinate immagini definite, e l’immagine o rappresentazione psicologica di Dio. Dio corrisponde junghianamente al noumeno kantiano mentre l’immagine di Dio corrisponde al fenomeno, a ciò che si manifesta come esperienza e nei limiti dell’esperienza. Così, pur potendosi dare diverse immagini o volti di Dio, corrispondenti alle modalità relazionali in cui Dio viene ponendosi rispetto alle creature, l’essenza di Dio, il suo vero e unico volto, restano oggetto di indefinibilità, inesprimibilità, rappresentabilità16. Nell’occidente cristiano, l’immagine di Dio viene a coincidere con Cristo17. E questo, certo, significa che l’ineffabilità divina possa essere rappresentata solo nei limiti del suo manifestarsi, del suo farsi carne, del suo farsi esperienza, del suo rendersi visibile, cioè nei limiti dell’immagine. Ora, questo comporta, per lo psicologo svizzero, che il Dio cristiano altro non è che ciò che resta della sua riduzione ad immagine, ma un Dio ridotto alla sua immagine è, in effetti un Dio decapitato della sua trascendenza, per cui se Dio è Cristo, Dio perde la sua trascendenza, Dio cessa di essere tale. Ragionamento abbastanza macchinoso e per niente irresistibile, dal momento che il Dio cristiano è un Dio che si rivela, che si fa conoscere nei limiti della Rivelazione, nella quale continua tuttavia ad essere ribadita la trascendenza di Dio, di Dio-Padre e di Dio-Spirito Santo, nonché la natura divina di Cristo e costitutivamente destinata alla trascendenza.
Di conseguenza, la famosa frase junghiana “non credo in Dio, ma so che esiste”, che tanto scalpore avrebbe suscitato, in realtà non solo conteneva un significato più modesto di quel che era stato ipotizzato (cioè so che Dio esiste solo come immagine o nella sua immagine), ma implicava la tesi della falsità o non autenticità del Dio cristiano semplicemente sulla base di una diversa immagine della divinità, quella per cui la trascendenza di quest’ultima possa essere salvaguardata solo a condizione che essa resti rigidamente al di fuori dell’immanenza, di ogni contatto con l’immanenza, il che sia concettualmente che teologicamente è semplicemente falso. Trascendente è, infatti, qualcosa di ulteriore, di superiore a questo mondo, di irriducibile alla sua immanenza, ma questo non significa affatto che non possa manifestarsi almeno parzialmente nella stessa immanenza storico-mondana. Jung, più che un mistico, come tante volte è stato considerato, sembra essere più semplicemente un eretico, una persona non disposta ad accettare quella che la Chiesa definisce come l’immagine ortodossa, l’unica immagine possibile, di Dio. Anzi, più che un eretico, un intellettuale decisamente ateo che disconosce la funzione radicalmente ed esistenzialmente salvifica della fede e assegna all’onnipotenza divina una realtà solamente psichica18. Che la sua critica al cristianesimo possa essersi talvolta dimostrata intelligente ed efficace, può esser vero ma questo deve essere letto solo come conferma del fatto che l’unica fede che possa essere attribuita a Jung è esclusivamente quella «nella scienza e nei dati dell’esperienza empirica»19. Poi, ognuno è libero di appiccicargli un’etichetta forzata di religiosità come accade nel caso di chi ritenga che «Jung è religioso, e profondamente religioso a nostro giudizio, … per tutt’altro motivo: per essersi fatto assertore di una religione che ripone nell’individualità la ragione suprema dell’esistere, e rientra quindi nel novero delle moderne religioni umanistiche»20. Che dire se non che anche certi colti e meditati giudizi siano ormai figli di un imperante relativismo scettico a sfondo prettamente soggettivistico? La verità è che l’interesse junghiano per la religione in generale fosse di natura esclusivamente psicologico e professionale ed è in quest’ottica che avrebbe osservato come il declino dei valori religiosi nella società occidentale ne avrebbe spinto la popolazione a sostituirli con nuove e terribili forme di fede come quella nei totalitarismi nazifascisti e comunisti e in un annesso e connesso senso di nichilismo, edonismo materialistico e infelicità21.
Ma non si può non rilevare e non sottolineare l’incongruenza dell’atteggiamento junghiano in rapporto al fatto religioso: da una parte, si mostra formalmente rispettoso dei dogmi religiosi, non essendo compito della scienza medica esercitare una critica della loro interna struttura contenutistica, anche perché tale critica spetta al teologo e non allo scienziato della psiche, e non potendosi d’altro lato negare la loro funzione terapeutica nelle malattie depressive del malato; dall’altra, però, in relazione alla psicologia religiosa, cioè al modo psicologico in cui l’individuo percepisce il divino nell’insieme dei suoi attributi e delle sue prerogative ontologiche, esso si mostra ancorato alla convinzione che certi contenuti dogmatici, nella concreta esperienza psicologica di fede, vengano in qualche modo alterati o almeno adattati alle concrete capacità percettive, immaginative o rappresentative del soggetto credente, come per esempio nel caso della sua immagine di Dio, definita teologicamente in termini assoluti (Dio come assoluto bene e assoluta assenza di male), ma percepita psicologicamente pur sempre come una totalità in cui non può esserci solo il bene ma anche il male, non solo luce ma anche oscurità, non solo assolutezza ma anche relatività: così, «secondo Jung, Cristo rappresenta un equivalente psichico del Sé, “il mito ancora vivente della nostra cultura”, ma la sua perfezione luminosa non può dirsi completa, poiché non comprende intrinsecamente la sua controparte oscura, rescissa e confluita interamente nella figura del Diavolo» e, ancora, a proposito della dottrina trinitaria che esclude il male dalle relazioni intra-divine (tra Padre, Figlio e Spirito Santo), proprio la definizione del male come privatio boni è una verità metafisico-archetipica che «mal si concilia con l’evidenza empirica. Nella realtà psicologica, infatti, non si dà alcuna verità assoluta, e bene e male rappresentano la coppia inseparabile di opposti alla base dei giudizi morali che scaturiscono dall’uomo … La Trinità, quale immagine di Dio, è dunque per Jung in contrasto con la realtà psicologica che esprime la totalità mediante simboli»22.
Jung sa che Dio esiste in base alla sua esperienza clinica perché ha potuto constatare, nel corso della sua lunga attività professionale, che, così come la natura è rivelativa di una grandezza e sapienza divine, anche il cuore dell’uomo, e in particolare delle persone malate e sofferenti, parlano di Dio con il sentire, l’immaginare, il percepire, il sognare. In sostanza, il suo Dio è, o meglio esiste come un Dio puramente psicologico e simbolico, non ontologico, non sovrannaturale, non eternamente ma solo terapeuticamente salvifico. Non solo: è un Dio di cui l’esperienza psicologica tende a far emergere le ambiguità, le incongruenze delle definizioni teologiche che ne vengono date sul piano metafisico e dogmatico, là dove, di fatto, il rispetto formale pure junghianamente dichiarato verso il sapere teologico viene a convertirsi contraddittoriamente in una critica sistematica delle principali verità della fede. Il pretendere di conoscere Dio senza fede è tipica espressione di un approccio gnostico ai problemi della fede e della teodicea23, ma, detto con estrema franchezza, è anche sintomatico di patologica puerilità intellettualistica. Al contrario, la fede in Dio e nel Dio evangelico e cristiano, non richiede necessariamente il sacrificio aprioristico della ragione ma l’esaltazione critica e religiosa ad un tempo di una ragione capace di dilatarsi criticamente in modo indefinito ma anche capace di riconoscere i suoi costitutivi limiti creaturali.
Tuttavia, Jung riconosce l’importanza della fede religiosa nella vita degli individui e nella storia dei popoli e, come già accennato, la progressiva rimozione dei valori cristiani dall’immaginario collettivo gli appariva molto destabilizzante spiritualmente e anche deleteria ai fini del perseguimento o del mantenimento della pace nella società e nel mondo. Egli aveva dinanzi a sé la società europea della metà degli anni trenta che vedeva colpita da una profonda crisi storica e spirituale le cui radici affondavano in una morte collettiva del divino, nel materialismo, nello scientismo, in una mentalità tecnocratica ed economicistica dominanti. In sostanza, si trattava di una società intaccata da un insieme caotico di forze pulsionali prive di governo etico-razionale, di uno spirito religioso capace di frenare o neutralizzare esasperati egoismi e forme estreme di aggressività alimentate da istinti di annientamento e da vere e proprie pulsioni omicide. Una mentalità distruttiva e autodistruttiva era quella europea di quegli anni che sarebbe sfociata in una seconda guerra mondiale ancora più orribile di quella del 1914-1918. Era uno di quei momenti in cui la crisi riguardava una spiritualità collettiva e non forme circoscritte di spiritualità individuale, donde il venir meno di spazi spirituali comuni, di riti collettivi, di momenti catartici sociologicamente rilevanti. Occorreva dunque trovare il modo di ridare senso alle esistenze di tutti attraverso una grande mobilitazione spirituale e religiosa collettiva da cui potessero scaturire nuove motivazioni e nuovi valori in grado di dare conforto, consolazione e sostegno in tante situazioni di dolore e disperazione24.
Quale figura più e meglio di quella di Cristo e della Risurrezione avrebbe potuto indicare in quella drammatica situazione una concreta possibilità di rinascita?25 La coscienza dell’uomo novecentesco, che tende a ritrarsi di fronte alla complessità del mondo moderno, ha bisogno di rassicurazioni spirituali non effimere, e questo scarto che si crea tra le sue paure e le sue profonde necessità psichiche è alla base delle sue nevrosi. Benché molta scienza sostenga che, al di là della materia, non esiste alcun Dio, tale uomo è portato a cercare nella propria interiorità qualcosa, qualcosa di stabile e di solido che non trova all’esterno o al di fuori di essa e, in considerazione del processo di crescente secolarizzazione e del declino di tutte le Chiese e le confessioni religiose, sarebbe stato di grande utilità un rifiorire di fede religiosa, soprattutto della bimillenaria fede cristiana almeno per quanto riguarda l’Occidente, in quanto nessuna fede più di quella cristiana esercita sui credenti una funzione di compensazione psichica, di difesa psichica dalle incertezze e dalle realtà instabili del mondo, benché Jung, sulla scia di Nietzsche, colga il principale aspetto psicologico del cristianesimo nella dissociazione in cui gli elementi morali verrebbero esaltati a scapito degli istinti distruttivi rimossi e quindi suscettibili di tradursi in forme “metafisiche” di vendetta26.
Qui, però, bisogna stare attenti a non confondere l’interesse di Jung per la religione e in particolare per quella cristiana con un suo personale interesse spirituale e religioso e, anzi, va precisato con grande nettezza che il suo misticismo gnostico ed esoterico solo in apparenza è meno aggressivo del pansessualismo freudiano, giacché egli usa il vasto e complesso repertorio biblico-teologico cristiano non già come un orizzonte di sapere integrativo del sapere psicologico, non come fecondo strumento integrativo della scienza del profondo o dell’inconscio, ma, al contrario, come un universo simbolico e spirituale talmente solido e variegato, talmente coinvolgente e stimolante nel quadro di uno studio dell’interiorità umana, da poter essere abilmente e perfidamente saccheggiato e insieme demolito a tutto vantaggio, anche o soprattutto propagandistico, della sua psicologia analitica. Egli, in altri termini, non fa altro che usare concetti cristiani per svuotarli del loro significato dottrinario e teologico ortodosso e delegittimare in modo mirato il cattolicesimo. Egli punta, più esattamente, a dimostrare che Dio e tutti i valori e le norme che ne esprimono la sapienza, la potenza e l’amore, lungi dall’esistere in senso oggettivo, esistono solo nelle forme simboliche create dalla psiche e in cui essi vengono rappresentati. Ad esistere, in altri termini, non sono Dio, il vero, il bene, il giusto, l’immortalità dell’anima e dei corpi, la vita eterna, nella loro oggettività, ma semplicemente nella loro rappresentazione soggettiva elaborata dalla psiche umana. Non Dio, ma l’immagine di Dio, non la verità divina ma solo la soggettiva rappresentazione di essa, e così via. Ma se si applica il simbolo al dogma, ne consegue evidentemente uno svuotamento ontologico del dogma e la sua funzione puramente simbolica, soggettiva e immaginaria. La fede, in tal modo, viene altresì destituita di ogni fondamento oggettivo e reale e ridotta a funzione puramente psicologica, emozionale, sentimentale. Nella Lettera al dr. Paul Maag del 20 giugno 1933 lo scrive chiaramente: la fede è “estremamente soggettiva”, e nello scritto “La Vie symbolique: Psychologie et vie religieuse“27, afferma senza incertezze: «non posso capire perché una religione dovrebbe possedere la verità unica e perfetta», che esprime il suo relativismo metafisico e teologico di fondo. Ma, più in generale, tutti gli studi junghiani appaiono finalizzati ad una desacralizzazione radicale del cristianesimo e ad una laicizzazione soggettivistica della fede nel trascendente e nel sovrannaturale28.
E’ pertanto evidente che Jung non cerca di saggiare la tenuta scientifico-terapeutica della psicologia analitica alla luce del cristianesimo così com’è, ma cerca piuttosto di depotenziare la tenuta ontologico-dogmatica del cristianesimo alla luce della relativistica psicologia analitica29. Ne scaturisce un’immagine tutta psicologica e immanentistica della fede a scapito di quella tradizionalmente vocazionale e sacramentale della fede cristiana e cattolica. E non è improbabile che «il tentativo di fondare il suo sistema sull’esperienza religiosa personale, indipendentemente da codificazioni teologiche, corrisponde a certe esigenze della cultura del secolo XX e non stupisce il fatto che egli rappresenti uno degli autori più apprezzati nell’ambito della nuova religiosità del New Age»30. Anzi, si può ritenere che attraverso una destrutturazione psicologica degli impianti dogmatici del “religioso” in genere e, più segnatamente, di quello cattolico, Jung voglia giungere a fare della sua stessa psicologia analitica una religione, un corpus di credenze e aspettative trascendenti solo nell’ambito del vissuto psichico ma privo di rinvii ad enti esterni di natura ontologica e metafisica. Infatti, da una parte sembra proporre un cognitivismo psicologico possibilista, escludendo che «il linguaggio della psicologia analitica» sia «un corpo di conoscenze definitive, vincolanti e conclusive» e che esso possa pretendere di penetrare l’alone di mistero che avvolge l’atto di fede. Nulla, né in positivo né in negativo, si può dire circa l’esistenza di una realtà al di fuori della coscienza: «Siamo del tutto coscienti che noi non abbiamo una conoscenza dei fenomeni inconsci superiore a quella che un fisico ha dei processi sottostanti i fenomeni fisici. Di ciò che c’è oltre il mondo fenomenico noi non abbiamo assolutamente alcuna idea»31. E, d’altra parte, egli riconosce che «non mi sono mai liberato completamente dall’impressione che questa vita sia solo un frammento dell’esistenza che si svolge in un universo tridimensionale, disposto a tale scopo»32. Tuttavia, proprio questo, per Jung, non consente di conoscere alcunché di ciò che è estraneo alla coscienza, specialmente in relazione all’ipotesi-Dio, ma «a porre dei limiti ben definiti alla conoscenza che noi possiamo avere di Dio. Noi possiamo fare l’esperienza dell’immagine di Dio nella psiche, — egli dice, — immagine che chiamiamo il Sé, ma non possiamo andare al di là di questa esperienza, e fare delle generalizzazioni sulla natura della realtà ultima dell’universo»33.
Ma, al tempo stesso, Jung sostiene che esiste un’analogia tra fede religiosa e analisi scientifica, in quanto, così come la fede esige che, per credere, ci si lasci “prendere”, coinvolgere, afferrare da Dio, allo stesso modo, l’analisi conoscitiva, volta a cogliere la realtà della psiche, esige che lo scienziato si lasci “prendere”, coinvolgere, afferrare dalla psiche, procurando in tal modo una reciproca interferenza tra quest’ultima e la coscienza indagante che vorrebbe acquisirne meccanismi e leggi di funzionamento. Ma questo coinvolgimento, nel caso della fede religiosa come in quello della conoscenza psicologica e scientifica, comporta l’attivazione di una fede in qualcosa che può essere conosciuto non per via puramente intellettuale, bensì per via intuitiva, emozionale, sentimentale: ecco perché, alla fine, quello che legittima la psicologia analitica è un atto di fede molto simile a quello che giustifica le credenze religiose, a cominciare da quelle che riguardano i contenuti dogmatici, i valori spirituali, la prospettiva soteriologica ed escatologica del cristianesimo. La psicologia analitica, in sostanza, finisce per essere una religione tra religioni, anche se una religione simmetrica e opposta soprattutto alla religione cristiano-cattolica. Come è stato notato in modo molto oculato: «Tutta la conoscenza proviene dall’esperienza. Ma alcune esperienze sono il risultato dell’intrusione della psiche nella coscienza. Queste esperienze “stringono” o afferrano la mente cosciente, alterano la sua condizione, e producono un atteggiamento emotivo affine alla fede biblica. Il limite del modello epistemologico scientifico è di non lasciar spazio a esperienze di questo tipo. La psicologia analitica, se da una parte si serve del pensiero scientifico e critico, dall’altra dipende necessariamente dai tipo di esperienze che sono avviate dalla psiche, per i fenomeni su cui si basa la sua conoscenza. E’ questo che conferisce un carattere religioso alla psicologia analitica, e ne fa la custode di un particolare corpo di conoscenze o di rivelazioni, nella misura in cui i fenomeni in questione non sono alla portata di tutti, ma solo di coloro che sono “iniziati”. Questa non è una deficienza della psicologia analitica, ma semplicemente il riflesso di un fatto: e cioè che in ultima analisi solo coloro che sono stati iniziati ai misteri della psiche sono in grado di conoscerla»34.
La psicologia analitica, sembra pensare Jung, non potrà mai smarrire il suo senso religioso perché sarà sempre al servizio della salute psichica dei singoli individui, del loro bisogno di trascendere i loro ricorrenti stati esistenziali di crisi, così come un tempo, e per molti secoli, il cristianesimo era stato funzionale ad un’istanza di integrale liberazione individuale da molteplici fattori di oppressione e alienazione. Ma il cristianesimo ormai, in pieno novecento, appare segnato da una crisi molto più profonda delle crisi che pure aveva conosciuto nel corso della sua lunga e travagliata storia, in quanto ora sembra che si sia perduta ogni percezione della sua necessità e non si sappia più a che cosa serva esattamente, mentre, sia pure nei limiti di un orizzonte storico-temporale, la psicologia può ancora aiutare la gente, i pazienti ma anche tanti individui provati da un’esistenza dura e angosciante, a ritrovare le ragioni di una rinascita, di una rinnovata ricerca di senso per la propria vita. La psicologia analitica junghiana vorrebbe essere una razionalizzazione gnostica del cristianesimo, in particolare del cristianesimo cattolico, espressione più universale della religione del Logos divino attraverso un azzeramento della trascendenza di tutti i principali dogmi di fede ovvero attraverso una radicale immanentizzazione intramondana e una interiorizzazione intrapsichica delle realtà trascendenti e sovrannaturali gravitanti intorno alla figura del Logos incarnato. Lungi dall’esprimere, quindi, apprezzamento spirituale verso il cattolicesimo, Jung tenta solo di decostruirlo criticamente, di destrutturarne radicalmente lo spirito costitutivo, ovvero il senso di alterità o alternatività radicale, il senso della trascendenza, della sovrannaturalità35.
E’ questo lavoro decostruttivo, destrutturante che alcuni studiosi junghiani sono venuti scambiando con un desiderio di rivitalizzazione del cristianesimo e della sua visione simbolica della realtà di cui criticava la natura dualistica, ritenendo che lo psicologo svizzero avrebbe inteso non già demonizzare ma valorizzare il cristianesimo, senza rendersi conto che togliere o anche semplicemente attenuare la dualità tipicamente evangelica e cristiano-cattolica tra umanità e divinità, tra terra e cielo, tra immanenza e trascendenza, tra storia ed eternità, significasse in realtà privarlo della sua originalità e della sua grande forza di coinvolgimento spirituale. Il superamento degli opposti può risultare possibile solo in una omnisciente mente divina ma non nella mente finita e limitata dell’uomo il quale non ignora che, dietro le apparenze del mondo e le conoscenze che può acquisirne, si cela una realtà totalmente misteriosa in cui si nascondono le risposte che da sempre egli ha cercato e continuerà a cercare fino alla fine della sua storia terrena. L’uomo, per sua natura, ha bisogno di credere non in una semplice possibilità di rinascita in questo mondo ma in un mondo altro in cui la rinascita non sia solo possibile in quanto soggettiva, parziale e pur sempre temporanea ma garantita in quanto oggettiva, integrale e definitiva36, anche se può imporsi di non dare retta al suo istintivo bisogno di una vita immortale. Per Jung, Dio è solo una produzione della psiche, è solo un archetipo dell’inconscio, per cui la croce e la risurrezione per lui non costituiscono eventi storici né rivestono alcun reale valore salvifico. La stessa dimensione ecclesiale e sacramentale della vita cristiana sarebbe poco più di un’invenzione teologica37.
Ma, del resto, che Jung sia interessato esclusivamente alla funzione psicologica e terapeutica della religione e della fede religiosa e non alla loro funzione ecclesiale e sacramentale, si evince inequivocabilmente dalla sua preferenza non già per la derivazione etimologica classica, o più generalmente accettata e condivisa, della parola religione dal termine latino religare usato dai Padri della Chiesa per sottolineare lo sforzo umano di rinnovare (legarsi di nuovo o riallacciarsi) il legame con Dio, ma per la derivazione da un termine latino usato da Cicerone, quello di re-ligere, che significa leggere di nuovo, riflettere, riconsiderare, e che rinvia semplicemente ad un esame di ciò che accade nella psiche, del puro fenomeno psichico dell’immaginazione religiosa, al di là della quale non sussiste, se non come mera ipotesi, alcun ente ontologico, alcuna reale entità divina38. Le nuove nascite, le albe, le luci, i ritrovamenti, che interessano a Jung, non hanno niente a che fare con il contesto salvifico-sacramentale, extrastorico e sovrannaturale, dell’annuncio evangelico, cristiano e cattolico, ma solo con quei recuperi o risanamenti psico-fisici, quelle riprese post traumatiche o quelle guarigioni dovute a processi e mezzi terapeutici particolarmente efficaci, che non hanno tuttavia niente di taumaturgico, di miracoloso o di sbalorditivo. Per Jung la messa evoca simbolicamente processi interiori di rigenerazione, di conoscenza e autocoscienza, integrazione dell’inconscio nel conscio, individuazione e svelamento del Sé39, così come per lui si risorge, se o quando si risorge, da una morte psichica nei limiti di una vita biologica non ancora cessata, non certamente dalla morte della vita biologica e cerebrale.
Francesco di Maria