E’ vero che la madre degli imbecilli è sempre incinta, ma nel caso di un imbecille come Marco Travaglio, quella povera madre, sia pure aposteriori, forse avrebbe voluto abortire. Questo signorino torinese, dall’aria aristocratica e sussiegosa, dai modi esteriormente garbati ma sogghignanti, dall’eloquio elegante e suadente ma sempre sottilmente sarcastico e canzonatorio, dallo sguardo perennemente sospettoso e arrogante, ha fatto del potere giudicante della magistratura il punto di forza, anzi un vero e proprio feticcio, della sua carriera giornalistica. La sua specifica area di competenza è costituita dai costumi corrotti del mondo politico in generale, anche se molto meno del mondo politico progressista e sinistro-populista.
Non è che, in molti casi, le sue spietate requisitorie siano prive di fondamento e non assolvano correttamente la funzione deontologica di adempiere in modo veritiero ai doveri della professione giornalistica (per esempio, sull’era Berlusconi, sia pure con qualche esagerazione e qualche insulto di troppo, ha sempre avuto ragione da vendere), ma è altrettanto indubbio che il principale bersaglio del suo lavoro intellettuale sia sempre stato e continui ad essere pregiudizialmente la famiglia politica centrista e di destra. Che, peraltro, è ciò che lui stesso ha implicitamente enfatizzato come un particolare titolo di merito, visto che, nel professarsi di destra anche se solo in senso ideale, aveva dichiarato nell’intervista riportata nel libro “Il rompiballe”, scritto con Claudio Sabetti Fioretti e pubblicato con l’editore Aliberti nel 2008, che «in Francia voterei a occhi chiusi per uno Chirac, un Villepin», mentre «in Germania voterei Merkel sicuro. Mi piacevano molto Reagan e la Thatcher».Dichiarazioni non particolarmente esaltanti, direbbe qualche critico imparziale!
Ma tutto questo non toglie che Travaglio sia soprattutto, per indole, un provocatore e un opportunista. Provocatore e opportunista sorretti indubbiamente da una grande furbizia intellettuale, che è solo la degenerazione dell’intelligenza critica e che appare chiaramente finalizzata ad una smodata voglia di successo e di visibilità mediatica. Provocatore, perché gli basta pochissimo per montare interminabili filippiche contro chicchesia, anche in mancanza di una intelocuzione diretta con le persone prese di mira, e opportunista, perché l’aggressione giornalistica al prossimo, anche quando non fosse motivata da oggettive ragioni etiche, tende sempre a catalizzare, a ragione o a torto, l’attenzione e l’interesse di molta gente, dando così a chi ne sia artefice la possibilità di accrescere la propria audience ed eventualmente di vendere molti più giornali e libri di quanti se ne venderebbero se critiche e polemiche giornalistiche, per quanto accese e documentate, fossero meno preconcette e più misurate.
Se si vuole, Montanelli aveva in parte ragione quando scriveva di lui: «È un Grande Inquisitore, da far impallidire Vyšinskij, il bieco strumento delle purghe di Stalin. Non uccide nessuno. Col coltello. Usa un’arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l’archivio» (Prefazione di I. Montanelli al suo libro Il pollaio delle libertà. Detti, disdetti e contraddetti, Firenze, Vallecchi Editore, 1995). Già, l’archivio! Non sempre però, anche se, quando viene talvolta condannato dai suoi amici magistrati, Travaglio non si preoccupa più di tanto delle pene pecuniarie che gli vengono inflitte, dal momento che a pagare è solo il suo giornale o, comunque, coloro che direttamente o indirettamente ne finanziano l’attività. Non sempre l’archivio è l’imprescindibile presupposto dei suoi attacchi critici e/o diffamatori. Non per esempio nel caso del rientro in Italia di Chicco Forti, dove la sua indole prevenuta e sospettosa, direi malvagia e denigratoria, ha preso nettamente il sopravvento sulla sua indole raziocinante.
Infatti, dov’era l’archivio quando qualche giorno fa il signorino torinese, si dice di fede cattolica, ha autorizzato la pubblicazione sul suo giornale di un articolo intitolato Benvenuto assassino, con allusione al ritorno di Chico Forti in Italia e al suo sbarco nell’aeroporto di Pratica di Mare, dove, ad accoglierlo, era anche il Presidente del Consiglio, onorevole Giorgia Meloni. Quale archivio ha consultato l’integerrimo giornalista di Torino per ritenere che fosse necessario, doveroso o, quanto meno, legittimo usare certi appellativi oltraggiosi verso un uomo rimasto per 24 anni nelle carceri americane a seguito di vicende processuali semplicemente contraddittorie e di una sentenza a dir poco lacunosa e omissiva, e senza che lo stesso Forti abbia mai cessato di proclamarsi innocente? E’ informato il dottissimo paladino del diritto nazionale e internazionale sulla natura e sul funzionamento del sistema poliziesco di Miami, sui ricatti cui tale sistema è solito sottoporre tutti i sospettati di aver commesso un delitto in quel distretto della Florida, sul fatto che qualche membro della giuria che aveva condannato Forti, avrebbe dichiarato, anche all’indomani della sentenza, di aver sempre sostenuto l’assoluta mancanza di prove a carico dell’imputato e di essere stata tuttavia “costretta” ad uniformare il suo voto a quello degli altri giurati? Lo sa Travaglio che agli organi polizieschi, inquirenti e giudiziari di Miami, Forti, prima del fatto delittuoso in cui sarebbe rimasto coinvolto, aveva dato sempre fastidio con quella sua reiterata volontà di far luce sulla morte, o meglio sull’assassinio di Gianni Versace? Le sa queste cose o le ignora? Ma, se le sa, a cosa gli è servito andare a rovistare tutte le carte del relativo archivio?
Come si deve definire il modo di lavorare e di agire di questo sapientone della carta stampata e della stampa parlata, se non superficiale, inattendibile, fazioso? Se uno di noi si fosse trovato al posto di Chico Forti, nel momento in cui avesse letto su un giornale di aver ricevuto un benvenuto in qualità di assassino, come avrebbe reagito sapendo di non aver commesso alcun delitto e di essere stato imprigionato ingiustamente, se non, come minimo, contraccambiando il saluto con un “bentrovato imbecille!”, e riservandosi poi di sporgere anche querela contro il suo calunniatore? Si dirà: ma se c’è una condanna per omicidio passata in giudicato, è del tutto lecito dare dell’assassino a chi l’abbia subìta, non ce n’é certo da vergognarsene! Se su quella condanna, su quel verdetto di colpevolezza, non pesassero né dubbi procedurali, né incongruenze formali, né mancanza sostanziale di prove a carico dell’imputato, né più che probabili pressioni esercitate sulla giurìa giudicante, né incertezze oggettive circa il fatto che la colpevolezza dell’imputato sia stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio, allora quell’appellativo potrebbe anche essere lecito, sebbene un principio elementare di umanità imponga a chiunque di moderare il linguaggio e i toni se, come in questo caso, si abbia a che fare con una persona che si sia sempre dichiarata innocente.
Non è che tutte le condanne giudiziarie siano fondate, legittime, plausibili. Quella di Forti, per esempio, lo è, in base a tutti i dati oggettivi disponibili, molto meno rispetto a quella di Ilaria Salis, verso cui Travaglio si è per ora mostrato più benevolo. Dovrebbe saperlo il giornalista torinese e, proprio per questo, dovrebbe sapere che, almeno in casi non particolarmente eclatanti di colpevolezza, sia segno di maturità morale e di saggezza l’astenersi dal pronunciare parole offensive. Se, gramscianamente, la verità è sempre rivoluzionaria, è molto complicato includere Travaglio tra i giornalisti rivoluzionari, cioè, nell’intenzionalità lessicale di Gramsci, veramente amanti della verità. La verità è, invece, quella per cui Travaglio ha inteso colpire Forti per colpire Meloni, per colpire quella piccola, grande donna, che è riuscita a conseguire, in breve tempo, un successo stellare inimmaginabile che molte grandi firme del giornalismo italiano, non sopportano e non le perdonano. In pratica, l’accusa di assassinio, formalmente rivolta da Travaglio e soci a Forti, è indirizzata al governo presieduto da Giorgia Meloni, per sottintendere ancora una volta che, al governo dell’Italia, si trovano oggi pericolosi fascisti, attratti come ieri più da viscide forme di immoralità contrabbandate come forme esemplari di amore patriottico e di solidarietà verso cittadini italiani ingiustamente perseguitati che non da reali sentimenti di adesione ad un ordine di indiscutibili valori morali.
Ho scritto “per sottintendere”, ma fino ad un certo punto, perché, nell’articolo in oggetto, la disonesta e ignobile accusa a Meloni è molto chiara e abbastanza esplicita: «Nordio & C. festeggiano. Un’accoglienza da capo di Stato dopo aver ucciso un uomo a sangue freddo». Questo è quel che si legge. Ma anche l’esimio prof. Cacciari, quando afferma che sia incomprensibile l’accoglienza riservata a Forti, all’aeroporto di Pratica di Mare, da Giorgia Meloni in persona, esprime un giudizio almeno filosoficamente e moralmente indegno della cultura accademica di cui è fiero rappresentante. E, se non dovesse capire il senso di questa critica, me lo faccia sapere tramite televisione o giornali, perché sarei ben lieto di spiegarglielo. Qualcuno, tempo fa, aveva definito Travaglio una “salma mediatica”: il professor Cacciari, nonostante tutta la sua avvedutezza teoretica, deve stare attento a non seguirne il destino.
Francesco di Maria