
Giacomo Leopardi ebbe una forma mentis filosofica e una vocazione poetica: per questo motivo, pur non scrivendo mai né trattati né saggi di taglio tradizionalmente e specificamente filosofico, avrebbe riversato nei suoi musicalissimi e ispiratissimi versi, come nelle sue stesse riflessioni anticonformistiche in prosa, un non comune acume critico e una inconsueta potenza speculativa. D’altra parte, il caso Leopardi, se si vuol dir così, non sarebbe stato privo di qualche illustre precedente: mi viene in mente, per esempio, il padre della filosofia dell’essere, quel Parmenide di Elea che parlava e scriveva intorno alla verità dell’essere per l’appunto in versi, senza che per questo subisse obiezioni e polemiche da parte dei suoi più illustri contemporanei. Peraltro, anche oggi non mancano filosofi, come Giorgio Agamben, che sostengono la perfetta compatibilità, e anzi un rapporto di necessaria integrazione, tra pensiero filosofico, ovvero «il puro senso», e pensiero poetico, ovvero «il puro suono»: «Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia»1 (A. Gnoli, Giorgio Agamben: «credo nel legame tra filosofia e poesia. Ho sempre amato la verità e la parola», in “La Repubblica” del 15 maggio 2016), dove si dà naturalmente per scontato che il “puro senso” e il “puro suono” siano effettivi e non semplicemente spacciati o scambiati per tali. Continua a leggere
Se Heidegger, in concomitanza con l’ascesa nazista al potere, parla e scrive solo di Germania e filosofia tedesca, Husserl, un paio di anni dopo, nel ’35, lungi dall’identificare il destino della filosofia con la cultura tedesca, ritiene di doverne ampliare la prospettiva storica e teorica scrivendo esclusivamente di “Europa” e “umanità europea” (
L’educazione sessuo-affettiva si configura inevitabilmente come ideologia educativa o piuttosto pseudoeducativa e profondamente distorsiva dei naturali meccanismi di crescita del bambino e della bambina, tutte le volte che si pretende di affidarne in modo esclusivo e unilaterale la titolarità, la responsabilità, ai genitori piuttosto che alla Chiesa, alla Chiesa piuttosto che alla famiglia, all’asilo o alla scuola, a specifici insegnamenti piuttosto che a dirette e non controllate o pilotate esperienze di vita quotidiana, a strategie educative innovative o “alternative” piuttosto che a preesistenti, tradizionali e non necessariamente insane strategie pedagogiche
Può sembrare un’espressione pleonastica ma non lo è. Parlare di intellettuali intelligenti non è affatto pleonastico, non è affatto un’affermazione scontata, ovvia, magari banale, perché l’intelligenza degli intellettuali non sempre ha a che fare con l’intelligenza critica, anzi con l’intelligenza tout court. Non si intende dire, naturalmente, che gli intellettuali sono intelligenti solo in quanto non commettano errori e non abbiano limiti, non assumano posizioni discutibili o atteggiamenti provocatori e irrazionali, ma semplicemente che non sono intelligenti tutti quegli intellettuali che, pur dediti ad innalzare torri di pensiero apparentemente possenti e impenetrabili, siano inclini a ridurre e a risolvere la ricerca dei significati e dei valori di una realtà e di una vita multidimensionali e complesse, che si tratta appunto di indagare con tutti gli strumenti e le facoltà di cui dispone l’umana razionalità, in un cumulo meramente o prevalentemente logico-linguistico di costruzioni, segni, simboli di natura teoricistica che dovrebbero poi fungere da fonte di legittimità conoscitiva per qualsivoglia genere di tematica affrontata.