Cesare Luporini ebbe molto a cuore e sottolineò ripetutamente il ruolo della soggettività umana nella vita e nella storia degli uomini. Prima come esistenzialista, poi come marxista, egli non avrebbe mai parlato della soggettività umana solo come di una astratta e sia pure essenziale categoria filosofica, ma come elemento costitutivo della natura umana e delle strutture oggettive della realtà storico-sociale. Ne avrebbe sempre fatto uso, altresì, in relazione a specifiche e concrete forme storiche di soggettività: quella del movimento femminile e femminista, dei movimenti giovanili, ambientalisti, antimilitaristi e pacifisti, oltre quella dello stesso partito comunista alla quale le altre forme di soggettività non sarebbero mai risultate riducibili. La classe operaia non era più l’unico soggetto della storia, in quanto ad essa si aggiungevano ora nuovi soggetti dell’antagonismo teorico-culturale e della lotta sociale e politica, e ognuno di essi si presentava con un suo specifico modo di pensare, sentire, agire, essere, in rapporto a concrete, determinate, cogenti situazioni dell’esistenza. Continua a leggere
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Il vezzo accademico della complessità
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Si tratta in vero di un vezzo umano, che si manifesta tuttavia in forma tipica particolarmente nell’atteggiamento mentale e nel gergo dell’accademico. Se voi parlate con un logico professionista, con uno di quei logici accademici che leggono montagne di libri, di saggi, articoli specialistici, atti convegnistici e seminariali, non tanto per capire quel che dicono e pensano altri studiosi della loro stessa disciplina quanto per non restare quantitativamente arretrati rispetto alle conoscenze e alla novità del settore, vi sentite spiegare virtualmente, perché molto di quel che dicono non sempre risulta poi così chiaro e incontrovertibile come essi pensano, che, quando la gente comune o mediamente istruita viene proponendo ragionamenti in qualsiasi campo dello scibile umano, in realtà il valore logico del suo argomentare è molto scarso e inefficace rispetto alle più sofisticate ed evolute acquisizioni teorico-linguistiche della logica. Continua a leggere
Husserl: una lezione per l’oggi*
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Husserl sapeva che la scienza fosse strumento teorico e pratico di avanzamento civile e culturale per il genere umano e non ne avrebbe mai messo in discussione l’insostituibile funzione rischiaratrice ed emancipativa. Ne avrebbe denunciato, però, le ricorrenti crisi, in particolare quella del Novecento, letta come espressione della radicale crisi di vita dell’umanità europea. La scienza nasce dalla vita, dal mondo-della-vita, da un mondo di esperienze intuitive e precategoriali, che essa, nello sforzo astraente di tradurle in oggetti di formalizzazione logica, tende a dimenticare e a rimuovere dal contesto etico-esistenziale da cui muove e in cui trova le sue stesse finalità il lavoro scientifico. Tale contesto è quello della soggettività e, al tempo stesso, della intersoggettività, e la scienza viene assumendo di conseguenza un duplice movimento: quello della curiosità, dell’esperienza e dell’interrogazione soggettive di singoli individui, e quello della partecipazione collettiva di gruppi umani sempre meglio organizzati ad una elaborazione teorico-sperimentale quanto più possibile precisa e attendibile dei dati, delle intuizioni, degli studi, delle semplici congetture di volta in volta emergenti da ricerche embrionali o non ancora formalizzate suscettibili di convertirsi in proposizioni, teorie, ipotesi, di acclarato e specifico valore scientifico. Continua a leggere
Michela Murgia, una forma molto dubbia di cattolicesimo
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Solo ora che è morta, apprendo che Michela Murgia sarebbe stata una credente di fede cattolica. Non è una battuta sarcastica, che sarebbe di pessimo gusto, ma la pura e semplice verità. Non ho mai sospettato che Murgia potesse sentirsi cattolica, e dico sentirsi perché, lo dico con molto rispetto, cattolica oggettivamente non è stata, né sul piano dottrinale, né su quello teologico, né su quello etico e culturale, mentre ho sempre sospettato che, tra le principali cause del suo antiautoritarismo viscerale e della sua esibita trasgressività, si dovesse includere il pessimo rapporto che ella, come lei stessa riconosce, avrebbe avuto con la figura paterna1 (Intervista di S. Marchetti, Addio a Michela Murgia, l’ultima intervista: “il tempo migliore della mia vita”, in “Vanity Fair” del 10 agosto 2023). Il giudizio ultimo, come al solito, spetta al Signore, e spero di cuore che sia antitetico al mio, ma, per quel che mi è consentito di capire e testimoniare in qualità di battezzato in Cristo, non mi pare sussistano elementi che autorizzino a considerarne il pensiero e la vita come fedelmente conformi alla dottrina e ai valori del cattolicesimo.
Etica senza metafisica? Una questione aperta
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E’ di tutta evidenza che l’etica, incentrata sullo studio delle possibili condizioni di sussistenza e di perseguibilità del bene in relazione al comportamento dell’uomo considerato sia nella sua individualità isolata che nel suo essere relazionalità comunitaria o collettiva, non possiede una struttura logico-metodologica e una potenza euristica come quelle di cui appare dotata la scienza. Questo però non significa che l’etica non possa e non debba avere rapporti significativi con la scienza stricto sensu e, soprattutto, con gli effetti epistemici che il suo sviluppo storico viene di continuo producendo, anche perché la scienza non costituisce una realtà chiusa in se stessa ed autosufficiente ma è pur sempre un’emanazione, certo complessa, articolata e oltremodo sofisticata, dell’umana razionalità, per cui non sarebbe mai possibile ridurre quest’ultima a pura razionalità scientifica.
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Wittgenstein, la pluralità dei linguaggi e il problema del senso
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Ludwig Wittgenstein scrive nel Tractatus che avrebbe potuto comprendere le sue riflessioni solo chi avesse già avuto «pensieri simili», ammettendo così implicitamente che la sua comunicazione filosofica potesse rischiare di apparire o risultare incomunicabile. Non era propriamente un modo di proporsi quale ortodosso interprete dello spirito scientifico moderno, che ha il suo fulcro, com’è ben noto, nel principio per cui le osservazioni, le interpretazioni, le scoperte della scienza, devono poter risultare tanto accertabili e riproducibili quanto comunicabili e condivisibili con tutti i membri della comunità scientifica internazionale, indipendentemente dalle convinzioni già acquisite da ognuno di essi. La conoscenza diventa scientificamente universale allorchè essa, pur nel quadro di posizioni ancora o provvisoriamente diverse e contrastanti, finisce per essere condivisa e acquisita come ipoteticamente plausibile da tutti gli scienziati, sia pure non senza che essi possano esprimere precisazioni e riserve di carattere logico-metodologico o procedurale. Solo in tal modo, ovvero attraverso la comunicabilità del sapere scientifico e una scienza estensibile a chiunque, una scienza pubblica condivisa, può evitarsi il rischio di una “scienza privata”, meramente individuale, non confrontabile, non riscontrabile, non integrabile, da cui non potrebbe derivare alcuna forma oggettiva di conoscenza. Continua a leggere
Cambiamenti climatici. La scienza divisa.
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Parlo di scienza divisa perchè quello enunciato nel titolo è un tema su cui la scienza, o meglio gli scienziati, sono divisi, a dispetto delle polemiche cosiddette antinegazioniste che vengono oggi muovendo dogmatici e fanatici sostenitori dell’idea che la natura si stia vendicando dei reiterati misfatti contro di essa compiuti dagli uomini, che è ciò che solo in una certa misura si può tranquillamente accettare. Bisogna dire chiaro e tondo, secondo questi sacerdoti di una natura senza Dio, che fenomeni sempre più frequenti e costanti di riscaldamento globale con cambiamenti climatici ad essi associati sono dovuti prevalentemente ad azioni dannose che gli uomini esercitano sulla natura. Se tali cambiamenti fossero stati prevalentemente naturali, argomentano, e quindi legati a processi ciclici di cambiamento naturale del clima, gli uomini avrebbero potuto solo difendersi dalle leggi di una ‘natura maligna’, mentre la certezza scientifica che essi siano prodotti da improvvidi e scellerati comportamenti umani, a loro volta determinati da avidità di guadagno, da semplice incuria ambientale e, spesso, da semplice stupidità, offre ancora la possibilità di agire sulle cause umane di tanti disastri naturali per contrastarne l’irreversibilità o, almeno, limitarne gli effetti. Continua a leggere
Per un’idea radicalmente alternativa di diversità
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Ad Ernest Hemingway viene attribuita una massima: «il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia». Penso che alcune persone, piuttosto poche in vero, la applichino alla e nella loro vita molto frequentemente, non in modo deliberato, ma quasi in modo spontaneo, istintivo, probabilmente per un bisogno psicologico innato di stabilire con i propri simili rapporti disinteressati e sinceri di comunicazione umana, intellettuale e morale. Anche per quel che mi consta personalmente, posso dire, con un margine soggettivo sufficientemente ampio di oggettività, che, in molti, troppi casi, tale bisogno non solo non sia soddisfatto ma ne esca profondamente frustrato. Ma ci si può chiedere da che cosa, da quali cause possono essere provocati, nel corso di una vita, tanti insuccessi interpersonali, tanti fallimenti relazionali: con semplici conoscenti, talvolta con sconosciuti, ma anche con persone più vicine e amichevoli a seguito di una lunga e consolidata frequentazione, con compagni di classe e di gioco, con un numero via via crescente di parenti, e poi, molto spesso, con figure più istituzionali: preti e parrocchiani, funzionari istituzionali e politici di diversa estrazione, professionisti di diversi settori, insegnanti e presidi delle scuole medie inferiori e superiori, accademici, colleghi liceali, insomma soggetti di varia e complessa umanità, senza includere nell’elenco i rapporti spesso difficili con i propri genitori che rientrano, tuttavia, tra i casi più universalmente fisiologici di conflittualità umana. Continua a leggere
L’altro Leopardi: l’inquieta, informale teoresi
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Giacomo Leopardi ebbe una forma mentis filosofica e una vocazione poetica: per questo motivo, pur non scrivendo mai né trattati né saggi di taglio tradizionalmente e specificamente filosofico, avrebbe riversato nei suoi musicalissimi e ispiratissimi versi, come nelle sue stesse riflessioni anticonformistiche in prosa, un non comune acume critico e una inconsueta potenza speculativa. D’altra parte, il caso Leopardi, se si vuol dir così, non sarebbe stato privo di qualche illustre precedente: mi viene in mente, per esempio, il padre della filosofia dell’essere, quel Parmenide di Elea che parlava e scriveva intorno alla verità dell’essere per l’appunto in versi, senza che per questo subisse obiezioni e polemiche da parte dei suoi più illustri contemporanei. Peraltro, anche oggi non mancano filosofi, come Giorgio Agamben, che sostengono la perfetta compatibilità, e anzi un rapporto di necessaria integrazione, tra pensiero filosofico, ovvero «il puro senso», e pensiero poetico, ovvero «il puro suono»: «Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia»1 (A. Gnoli, Giorgio Agamben: «credo nel legame tra filosofia e poesia. Ho sempre amato la verità e la parola», in “La Repubblica” del 15 maggio 2016), dove si dà naturalmente per scontato che il “puro senso” e il “puro suono” siano effettivi e non semplicemente spacciati o scambiati per tali. Continua a leggere
L’Europa nella teoresi di Edmund Husserl
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Se Heidegger, in concomitanza con l’ascesa nazista al potere, parla e scrive solo di Germania e filosofia tedesca, Husserl, un paio di anni dopo, nel ’35, lungi dall’identificare il destino della filosofia con la cultura tedesca, ritiene di doverne ampliare la prospettiva storica e teorica scrivendo esclusivamente di “Europa” e “umanità europea” (E. Franzini, Fenomenologia. Introduzione tematica al pensiero di Husserl, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 95. Cfr. anche S. Pasetto, L’ “Europa” secondo Husserl: l’enigmatica sfida del filosofo, in “InCircolo”, Rivista di filosofia e culture, Dicembre 2016, n. 2, pp. 1-18). Questa evidente differenza ideologica tra le posizioni dei due grandi filosofi tedeschi si doveva sia a vicende esistenziali che a motivazioni filosofiche e culturali: il primo nasce cattolico anche se nel tempo si convertirà al protestantesimo restando comunque cristiano almeno sino alla morte di Husserl, avvenuta nel ’38, e sempre saldamente inserito nel mondo germanico anche sotto il nazismo; il secondo è ebreo e questo gli avrebbe fatto perdere, con l’avvento del nazismo, la cittadinanza tedesca dopo essersi molto impegnato perché Heidegger gli succedesse sulla stessa cattedra friburghese che aveva occupato per tutta la vita. Continua a leggere