Antonio Scurati e l’ossessione della visibilità politico-mediatica

A me la gente supponente e stolta non è mai piaciuta, pur essendo anch’io, come ogni essere umano, “un legno storto”. Sono tentato di pensare che Antonio Scurati, pur celebratissimo da media e confraternite giornalistico-letterarie di sconosciuto spessore morale e intellettuale per quanto disseminate in alcuni particolari ambienti culturali, possa farne parte a pieno titolo. Se accademici come Luciano Canfora e Donatella Di Cesare rivendicano per se stessi, in quanto “intellettuali”, non solo la facoltà di censurare offensivamente una donna politica come Giorgia Meloni, inducendo alcuni osservatori a ritenere che ciò sia dovuto esclusivamente ad un incontrollato e livoroso sentimento di invidia per i sensazionali riconoscimenti internazionali riscossi in poco tempo da quest’ultima in qualità di capo del governo italiano, ma anche una speciale indennità giudiziaria rispetto a procedimenti penali intentati contro di essi, uno scrittore come Scurati, il cui valore intellettuale ed etico-civile non può ritenersi universalmente acclarato solo perché riconosciuto da pur estese corporazioni letterarie, presume di avere una penna così incisiva, tagliente e destabilizzante, da costringere addirittura il governo in carica a “silenziarne il pensiero”.  

Ora, è paradossale che questo signore, solo in virtù dei numerosi premi letterari ottenuti, giunga al punto di considerarsi un antifascista così temibile da dover essere osteggiato quasi nella stessa misura in cui venne perseguitato Antonio Gramsci. Paradossale, dal momento che la nostra democrazia repubblicana è impregnata di un antifascismo storico, filosofico, morale, di un antifascismo reale e di vita realmente vissuta, ben più sofferto, solido e concreto di quello meramente immaginario ed estetizzante di un personaggio che ha sempre inteso pescare nel torbido di un periodo drammatico della storia italiana solo per sia pur leciti motivi di lucro e con l’ambizione di celebrare se stesso. Scurati pensa di essere intoccabile e soprattutto presume di essere una specie di eroe del libero pensiero, al pari di Canfora e Di Cesare, anche se lo storico e filologo pugliese è incomparabilmente superiore sotto l’aspetto specificamente intellettuale agli altri due, semplicemente per i premi che ha vinto e per la discreta popolarità di cui, a ragione o a torto, gode, senza rendersi conto che i criteri dell’umana grandezza non dipendono dall’applauso delle folle piccole o grandi e che i veri intellettuali sono solo coloro che, persino ove siano negletti nel loro tempo, costringono tuttavia i loro posteri a riesumarli e ad interpretarli, talvolta a rimpiangerli. Dubito che questo possa essere il destino di un letterato come Scurati.

Ma, per restare alla questione da questi formalmente sollevata, ovvero che al governo sarebbero andati, per via elettorale, i fascisti e che costoro continueranno ad ammorbare la democrazia repubblicana fino a quando non si dichiareranno apertamente antifascisti, non si può che controbattere in modo verosimilmente legittimo che, a rigor di logica, per essere antifascisti è sufficiente professarsi fedeli ai princìpi e agli ideali della costituzione repubblicana e democratica, senza ulteriori specificazioni, e soprattutto agire conformemente ad essi. Non solo perché potrebbe dichiararsi antifascista anche uno stalinista o un fiero ammiratore di Putin, oppure qualunque individuo affetto da cronico qualunquismo libertario, ma soprattutto anche e perché su Giorgia Meloni non tutti gli avversari dell’attuale governo condividono il giudizio astioso, ottuso, ideologico e ipocrita di Antonio Scurati, che non riesce proprio a sopportare che, almeno per ora, una piccola donna come Giorgia Meloni riceva in tutto il mondo, a cominciare da quello democratico-occidentale, apprezzamenti incompara-bilmente superiori a quelli che vengono riservati a lui.

Per esempio, un uomo certamente non sospettabile di simpatie fasciste, non destrorso, non conservatore, né reazionario come Luciano Violante, nel suo discorso di insediamento alla Presidenza della Camera dei deputati nel 1996, aveva affermato: «Mi chiedo se l’Italia di oggi – e quindi noi tutti – non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà. Questo sforzo, a distanza di mezzo secolo, aiuterebbe a cogliere la complessità del nostro paese, a costruire la liberazione come valore di tutti gli italiani, a determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno. Dopo, poi, all’interno di quel sistema comunemente condiviso, potranno esservi tutte le legittime distinzioni e contrapposizioni», mentre, in occasione del 25 aprile dello scorso anno, egli non esitava a riconoscere che «nel Dopoguerra tutti i leaders politici, compreso Almirante, si impegnarono positivamente per costruire un nuovo rapporto tra lo Stato e masse popolari che non avevano mai conosciuto la democrazia. Giorgia Meloni … è estranea al fascismo e sta lavorando per costruire un partito conservatore italiano. Non sarà mai il mio partito, ma spero che ci riesca. Supererà le nostalgie retrograde esistenti a destra. E a sinistra, spero, ci si dovrà decidere a costruire un grande partito riformatore».

Di sicuro, ancora non è stato costruito un grande partito riformatore a sinistra, mentre è quanto meno in itinere, e del tutto rispettabile, il tentativo di Giorgia Meloni di costruire un serio partito conservatore italiano, anche se il significato di fascismo che ha in testa lo scrittore in parola è così ampio, possiede un raggio di applicazione talmente vasto, da potersi confondere persino con la più normale delle democrazie. Egli, infatti, cercando di premunirsi da probabili critiche politologiche e di comune buon senso,  ha precisato, in data 21 aprile 2024 a Napoli, che «è sbagliato e fuorviante aspettare la camicia nera. Ci sono altre forme di violenza, non fisica, ma verbale, intimidatoria, nuove forme di aggressione alla democrazia che hanno radici lontane. E dunque “non aspettate il ritorno delle squadracce fasciste”: “non marciano su Roma, arrivano a Roma vincendo libere e democratiche elezioni”».

Ma se si riconosce che oggi, all’indomani dell’ascesa di Giorgia Meloni all’esercizio del potere governativo, non si può parlare né di camicie nere, né di squadracce fasciste, né di marce su Roma, ma solo di libere e democratiche elezioni che hanno decretato il successo politico di un centro-destra guidato da Meloni, in cosa consisterebbe l’identità neofascista del nuovo regime meloniano? Già, c’è pur sempre da considerare che oggi si danno «altre forme di violenza, non fisica, ma verbale, intimidatoria, nuove forme di aggressione alla democrazia che hanno radici lontane», ma queste ulteriori forme di violenza, aggressione, intimidazione e sopraffazione, di cui anche la più perfetta delle democrazie continua ad esser colma, e che personalmente, in circa 75 anni di vita e in forme quasi sempre incruente, ho sperimentato diverse volte, hanno certamente “radici lontane”, ma lontane non fino a risalire solo alla storia del fascismo italiano, ma alla storia biblica di Caino, alla storia antropologica della specie umana ovvero alla storia di una congenita predisposizione dell’umanità all’uso della violenza e della sopraffazione. In questo senso, ognuno di noi, per quanto dotato di razionalità e volontà, è virtualmente esposto a esercitare e a subire violenza. Lo stesso Scurati, nella circostanza della sua impennata strumentale e polemica nei confronti del presidente del Consiglio, ha dato prova di poter essere a sua volta un mistificatore violento e irresponsabile. Ma, soprattutto, tutto quel che si è venuto dicendo fin qui dovrebbe bastare a dimostrare l’inconsistenza intellettuale e morale di chi, sebbene non dotato, a giudizio di molti privati cittadini, di eccelse qualità etico-culturali, proprio non si rassegna all’idea che vi siano stagioni della storia in cui sia necessario imparare a vivere da invisibili come tutti i comuni mortali.

Dopodiché, anch’io mi associo volentieri al grido patriottico di Scurati: «Viva l’Italia antifascista», pur aggiungendo immediatamente: «Viva l’Italia anticomunista», non perché non sappia distinguere tra fascismo e comunismo ma perché l’effettualità storica è lì a dimostrare che l’incompatibilità teorico-storica tra comunismo e democrazia non è certo inferiore a quella tra fascismo e democrazia. E chi vuol capire, capisca!

P.S. Daltra parte, affinché sia chiaro lo spirito di questo intervento, non ritengo affatto che, se un giornalista-conduttore radiofonico chiede, in apertura di trasmissione, alla senatrice di Fratelli dItalia Ester Mieli se sia ebrea, questa domanda debba essere ritenuta “inquietante” da chicchessia, a cominciare da Ignazio La Russa. Mi sembra doveroso che un personaggio pubblico renda preliminarmente nota la sua identità personale, non semplicemente anagrafica, soprattutto quando sia chiamato presumibilmente a trattare temi oltremodo delicati e divisivi come era, nel caso specifico, la persecuzione e lo sterminio israeliani di tutto il popolo palestinese. Capisco che Giorgia Meloni, per comprensibili motivi di politica internazionale, abbia difficoltà a trattare adeguatamente questo nodo, ma da una donna combattiva e risoluta come lei, ci si aspetterebbe ormai una presa di posizione più netta in difesa dei diritti del popolo palestinese. Peraltro, tale precisazione non è da intendere come funzionale alla giustificazione dei disordini e degli scontri provocati in questo periodo in alcune università italiane da gruppi di giovani squadristi che il “pacifico” Scurati, sostenitore di tecnocrati come Mario Draghi, non dovrebbe esitare a condannare.

Francesco di Maria

   

 

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