Questo non è un libro di mariologia se non nel senso ristretto che vi ricorrono indubbiamente, in forma diretta o indiretta, nozioni, posizioni, suggerimenti e suggestioni di natura mariologica, ma essenzialmente un libro di testimonianza e devozione spirituale e religiosa in onore di colei che ha cooperato con Dio, nel nome e per volontà di Dio, alla salvezza dell’umanità. E’ un libro privo di un esplicito apparato bibliografico e contenente solo sporadiche citazioni, seppur dotato di una rigorosa, anche se forse non sempre “canonica” impostazione critico-teologica, che racconta un modo personale di vivere, di percepire e sentire la figura di Maria di Nazaret sia pure nel quadro della oggettiva narrazione storico-evangelica e della elaborazione teologica che se ne è venuta facendo in due millenni di civiltà cristiana. La percezione che di essa si delinea e si propone nelle pagine che seguiranno è quella per cui Maria, da una parte, resta realmente una donna “irraggiungibile”, con buona pace di coloro che la vorrebbero invece imitabile al pari delle altre donne, in quanto donna speciale e non ordinaria, antropologicamente normale ma capace di esplicare le sue funzioni psico-fisiche, la sua attività intellettuale e morale, la sua vocazione spirituale e religiosa, in modi ottimali e compiuti di contro alle forme generalmente difettose, incomplete, carenti, contraddittorie della fenomenologia antropologica di uomini e donne comuni; ma dall’altra ella esprime l’anima passionale più nobile e generosa dell’umanità, in quanto donna votata a servire la causa di Dio con la stessa spontaneità, con la stessa partecipazione interiore, con la stessa energia esistenziale, con cui un essere umano profondamente motivato può disporsi a servire qualunque causa ideale egli ritenga degna di essere abbracciata e propugnata.
In questo senso, si può dire che Maria, lungi dal relazionarsi con Dio in modo puramente passivo, contemplativo o riflessivo, viene instaurando con lui un rapporto attivo, interattivo, e basato sull’amore e sull’azione. Quella tra Maria e Dio è una comunicazione bidirezionale molto intima e intensa che coinvolge la preghiera, l’amore reciproco, l’azione e la partecipazione alla vita spirituale e attiva del mondo, là dove la vita spirituale non è mai separata dalla vita attiva, dalle quotidiane preoccupazioni per i problemi reali del mondo e per le più profonde aspettative esistenziali degli esseri umani. La contemplazione che orienta la vita attiva e la preghiera come mezzo di comunicazione portano la giovinetta di Nazareth a un coinvolgimento concreto e appassionato nelle pratiche di fede e nell’amore per il prossimo. La fede di Maria non è una fede intellettuale, solo pensata, o semplicemente acquisita per educazione o astratta formazione culturale e religiosa, ma è una fede impegnata, militante, vissuta ardentemente attraverso parole e atti spesso unilaterali che denotano una precisa scelta di campo e un atteggiamento di lotta per obiettivi o scopi duramente avversati nel mondo storico-umano.
E’ una fede coraggiosa che non si limita a proclamare l’unità fraterna tra individui e popoli ma che pone quale condizione di tale unità un principio di verità indiscutibile, inequivoca, assoluta, e quale suo strumento di attuazione, in uno spirito di libertà e carità vicendevole, per l’appunto la lotta, il quotidiano combattimento evangelico con se stessi e con i falsi valori del mondo. E’ dunque anche una fede divisiva anche se funzionale al perseguimento di una concezione e di valori unitari e condivisi di vita, una fede che punta alla liberazione dell’uomo dalle peggiori strutture di oppressione da cui è terribilmente condizionata la sua vita e la sua storia. La fede di Maria è, in sostanza, una fede partigiana, e Maria è la grande combattente di Dio, la partigiana di Cristo-Dio.
Si può sostenere che Maria sia una creatura, una donna antropologicamente perfetta e perfettamente sintonizzata con il piano sovrannaturale della grazia e dell’amore di Dio. Maria è Eva appena uscita dalle mani di Dio, ancora capace di usare la sua libertà in adesione alla divina volontà e non in contrasto con essa. Il valore antropologico di Maria, almeno in un’ottica credente, consiste essenzialmente nella chiara, umile e rigorosa consapevolezza dei suoi limiti creaturali ma anche nella coscienza di essere stata privilegiata da Dio in funzione del suo universale piano salvifico e nella ferma e risoluta volontà di onorarne in tutto e per tutto gli insegnamenti e le aspettative. Il suo valore antropologico consiste in questo e non certo nel cedimento interiore, pur umanissimo, a generiche debolezze, a improvvise e traumatiche congiunture di vita, a tentazioni passionali o seduttive di vita. Maria è una donna che ha sempre voluto e saputo lottare a testa alta contro ogni avversità, senza mai cedere allo sconforto e alla delusione momentanea di situazioni apparentemente disperate e senza mai optare per soluzioni sostitutive della sua incrollabile fede in Dio.
In questo senso, Maria fu e resta “irraggiungibile”, ma proprio la sua esemplarità morale e spirituale, non incompatibile con stati d’animo, ansie, turbamenti del tutto naturali e costitutivi della comune struttura antropologica, funge da potente sprone consolatorio e fortificante, e non già deprimente e scoraggiante, per una grande moltitudine di creature umane. Se si vuole, ancor più irraggiungibile è il Cristo, in quanto non solo uomo ma anche vero Dio, e tuttavia l’essere consapevoli di quel che egli sia stato disposto a patire per la salvezza del genere umano, non può certo indurre alcuno a disperare della opportunità di tendere ad una vita non solo di peccato ma anche di riscatto, non solo di smarrimento e disperazione ma anche di conversione e di speranza.
Maria resta umanamente perfettibile come ogni altro essere umano e tuttavia la sua perfettibilità viene manifestandosi, molto più concretamente e coerentemente di quanto non accada nella vita di tanti altri pur virtuosi credenti in Dio, come reale capacità di raggiungere, senza soluzione di continuità, traguardi spirituali ed evangelici sempre più elevati: è precisamente per questo motivo che la sua congiunzione e la sua intesa con Dio sono sostanzialmente perfette, onde l’amorevole e ammirata disponibilità divina a farne la delegata del suo eterno regno di giustizia e d’amore. Ne consegue che ella, pur rendendo Dio particolarmente vicino alla nostra umanità, alla nostra carnalità, alle nostre debolezze e alle nostre stesse miserie, non lo avrebbe mai concepito e vissuto in funzione di una aprioristica o scontata giustificazione divina delle nostre colpe ma in funzione di una comprensione divina volta a scuotere paternamente la coscienza dei peccatori per orientarla verso la via della salvezza.
E’ certamente vero che Maria, in quanto madre dell’umanità, non può che amare indistintamente tutte le creature di Dio e trattare con identico trasporto materno ognuna di esse, a prescindere dai loro meriti o demeriti e dal loro individuale stato spirituale, ma il suo amore è volto a proteggere i suoi figli e figlie principalmente dal peccato e dal male morale che sempre incombono sulle loro vite potenziandone la volontà di bene e di vita santa e non indulgendo a forme di comportamento immorali o perverse. Maria è sempre intenta a creare le condizioni affinchè ogni creatura usi della sua libertà nel modo più corretto e santo possibile e si ponga nella condizione di resistere alle tentazioni della carne e delle passioni più insane dello spirito. Il mondo, l’umanità, hanno assoluto bisogno di questa madre, che rappresenta il manifestarsi del paterno spirito divino d’amore nella donna e nella madre, il rivelarsi della viscerale tenerezza di Dio-Padre in modo specifico come Madre che ne porta nel grembo verginale il Figlio. Maria consente al Padre di creare o ricreare l’universo per il Figlio, nel momento stesso in cui consente a quest’ultimo di incarnarsi in lei, nella sua umanità fragile e finita ma anche nel suo assoluto bisogno di Dio, di servire Dio e collaborare con Dio per la salvezza delle anime.
Il mondo e il genere umano hanno bisogno di questa madre santa, immune dal peccato e da ogni genere di iniquità, votata ad eseguire per l’eternità il volere del suo salvatore e del salvatore dell’umanità, e preposta in tal senso a soccorrere gli esseri umani nelle loro molteplici infermità esistenziali e a favorirne l’elevazione spirituale, pur sempre nel rispetto della libertà di ciascuno. Ora, le donne in generale sarebbero chiamate in un’ottica divina a testimoniare nel mondo l’atteggiamento spirituale di questa donna, speciale ed ordinaria ad un tempo, assumendone quanto più profondamente possibile l’integrità del pensare e dell’agire, la santità dei costumi, la disponibilità ad esercitare proficuamente il proprio spirito di carità in relazione a Dio e ai propri simili. Per questa ragione, alla domanda posta, in modo probabilmente ambiguo, da papa Bergoglio, ovvero se possa darsi «un mondo senza madri», senza chi accolga la vita e lasci spazio alla vita, occorre dare una risposta corretta, inequivoca, puntuale: non può darsi un mondo senza madri, solo se si tratti di buone madri, non necessariamente di madri già e sempre buone e virtuose, ma almeno di madri sensibili e responsabili, capaci, al momento opportuno, di fare scelte sensate e salutari per se stesse e i propri figli e, attraverso loro, per il mondo intero. In un’ottica cristiana e sovrannaturale, il mondo ha bisogno di conversione, di propositi santi, di opere non semplicemente filantropiche o umanitarie ma specificamente evangeliche e caritatevoli. E ha bisogno di madri, che implorando la Madre, si impegnino a veicolare nella vita di persone vicine e lontane i suoi valori e non qualunque valore, le sue idealità etiche e religiose e non qualunque idealità religiosa o non religiosa, la sua fede nell’unico e vero Dio ovvero nel Dio di Gesù Cristo e non la fede in false o distorte rappresentazioni della divinità.
Maria insegna che tutti sono amati da Dio ma che non tutti sono capaci di accoglierne l’amore con un’esistenza volta ad onorarne gli insegnamenti e i comandamenti e meritevole di essere salvata in paradiso. Proprio Maria è janua coeli, la porta del cielo, una porta sempre aperta per tutti ma non in modo indiscriminato bensì, nell’assoluto rispetto della volontà divina, per tutti coloro che si saranno sinceramente sforzati di ottenere il perdono e la salvezza di Dio. Maria, come il Regno di Dio e la stessa Chiesa che in lei trovano un punto centrale e sovrannaturale di riferimento, accolgono, indistintamente ma non indiscriminatamente, tutti coloro che, sia pure tra contraddizioni e drammatiche cadute, abbiano sempre desiderato di appartenere a Cristo con pensieri e opere conseguenti anche se talvolta discontinui e accompagnati da prolungati momenti di stanchezza spirituale.
Che, per sottolinearne l’umanità e la comunanza di pensieri e di sentimenti che la legano a tutti i suoi simili, si sia avvertito il bisogno di precisare che Maria non è solo «la Madre di Dio» ma anche «la Madre nostra», e quindi una Madre capace di capire e perdonare sempre tutto ciò che è umano e dunque anche qualunque errore e peccato le creature vengano commettendo, non può non stupire quei cristiani ben consapevoli del fatto che il nucleo centrale della predicazione evangelica e cristiana è costituito dall’appello alla continua conversione della propria vita e quindi dall’esigenza che i peccati, per quanto talvolta comprensibili e degni di essere perdonati, non possano essere mai accolti, giustificati, trattati alla stessa stregua di accadimenti normali, naturali, o addirittura di sentimenti nobili e atti virtuosi e santi. La comprensione materna di Maria non può essere scambiata per una sorta di assoluzione generalizzata e aprioristica verso qualunque forma di peccato, di iniquità, di turpitudine, anche perché, se si può assolvere tutto e a qualunque condizione, nulla è più realmente peccato. Il processo di liberazione dai peccati commessi non è un processo scontato, lineare e indolore, ma un processo interiore impegnativo che comporta sforzo, combattimento spirituale, reiterata volontà di pentimento e di conversione. Maria sollecita i peccatori a cambiare vita, accoglie i peccatori pentiti ma non anche i peccatori impenitenti, perdona il male commesso a condizione che chi lo compie se ne dolga realmente e faccia di tutto per allontanarlo dalla propria mente e dal proprio cuore. La sua umanità non può essere confusa con forme di vago o generico umanitarismo, misericordismo, solidarismo, perché non c’è niente di meno evangelico della manomissione, della manipolazione, volontaria o involontaria, del significato biblico originale della Parola e delle parole di Dio.
Spiace che papa Bergoglio abbia non di rado equivocato su questo fondamentale aspetto della dottrina e della catechesi cattoliche: perché è vero che Maria resta punto di riferimento obbligato per tutte le madri di questo tempo, e che «una società senza madri sarebbe non soltanto una società fredda ma una società che ha perduto il cuore, che ha perduto il ‘sapore di famiglia’. Una società senza madri sarebbe una società senza pietà, che ha lasciato il posto soltanto al calcolo e alla speculazione. Perché le madri, perfino nei momenti peggiori, sanno testimoniare la tenerezza, la dedizione incondizionata, la forza della speranza» (Papa Francesco, Santa Messa nella solennità di Maria Ss. Madre di Dio, LIII Giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2020) ma non si possono affermare queste cose senza precisare doverosamente che le madri in generale e le madri di questo tempo non sono tutte eguali e non amano Maria allo stesso modo e, anzi, non tutte sono minimamente disposte a seguirne l’esempio. Esistono anche padri degeneri e non nel senso moralistico della parola ma nel senso più ampiamente etico di deliberata e recidiva scelta di vita corrotta, immorale o dissoluta, come esistono, nello stesso senso, madri degeneri molto più vicine e sensibili all’immagine della prima Eva che non a quella di Maria, madre della vita e di ogni vera forma di vita. Ci sono madri e caricature di madri, madri serie e madri superficiali, madri virtuose e oneste ma anche madri scientemente peccatrici, madri socialmente rispettabili ma irredimibilmente e deliberatamente traviate e prive di senso morale.
Ma intorno a Maria ormai gravita una insopportabile retorica religiosa femminista che viene sinistramente coniugandosi con lo spirito più sciatto e permissivo del cosiddetto “pensiero unico”. Sul tema della violenza contro le donne, per esempio, il pontefice Francesco riteneva di esternare un pensiero saggio e ispirato nel dire che la violenza contro le donne è profanazione di Dio, quasi che a profanare Dio non fosse anche la violenza contro uomini, vecchi, bambini di ambedue i sessi, vale a dire contro gli esseri umani in generale; nel sostenere poi che «la capacità di “custodire le cose nel cuore”, ovvero prendersi cura, “prendere a cuore la vita”» (Ivi), che sono notoriamente caratteristiche della santa Vergine, sarebbero in realtà un atteggiamento tipico della donna in quanto tale, dal momento, egli affermava, che «la donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa ‘vedere dentro’: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto» (Ivi). Ora che la donna sia sicura o unica o principale depositaria di questa elevata prerogativa spirituale è un’affermazione molto impegnativa e per niente sostenuta da dati storico-empirici univoci e incontrovertibili. E tanto più problematica quanto più si pensi che per il papa proprio questo sarebbe il motivo per cui le donne in genere andrebbero particolarmente tutelate e quindi ben più di tanti uomini, sembra voler dire Bergoglio, pure soggetti a feroci angherie, ad arbitrarie e violente restrizioni di libertà e diritti, a forme subdole di oppressione ed emarginazione che ne neghino la dignità personale.
Ma, per quanto attiene alla violenza troppo spesso esercitata sulle donne, argomentava il pontefice, non si può non considerare che «esse sono “fonti di vita”, eppure “sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo”. “Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità”» (Ivi). Anche qui non si può non eccepire e non esplicitare che le donne sono certo “fonti di vita” pur potendo essere tuttavia anche fonti di morte, e indipendentemente da responsabilità altrui ma esclusivamente o prevalentemente per responsabilità proprie, e che, se dal corpo di una donna di nome Maria è derivata la salvezza per l’umanità, dal corpo di altre donne, non sintonizzate con l’intimo sentire di Maria, potrebbe pur sempre scaturire la dannazione dell’umanità. Infine, è indispensabile precisare che noi comprendiamo il nostro livello di umanità non solo dal modo in cui i maschi trattano il corpo della donna ma anche dal modo in cui le donne trattano il loro stesso corpo e lasciano che il loro corpo venga trattato. Analogo ragionamento deve farsi anche per la strenua difesa della maternità, difesa necessaria non solo per protestare genericamente contro lo sfruttamento del corpo femminile in ambito pubblicitario, finanziario, consumistico, pornografico, ma per coinvolgere anche in modo specifico e in questa stessa critica le donne comuni, reali, normali, non solo quelle celebri, quelle della carta patinata o della ribalta televisiva, ormai troppo spesso propense ad utilizzare e ad ostentare il proprio corpo per fini disdicevoli e perversi.
Se non si affonda il bisturi nella carne viva della donna e delle donne contemporanee, nelle responsabilità personali dei soggetti femminili, oltre che maschili e istituzionali, potranno continuare a farsi discorsi critici quanto si vuole, forse in parte coinvolgenti, ma certo non così sconvolgenti e destabilizzanti da favorire una reale presa di coscienza della esatta entità morale, spirituale e religiosa, del problema relativo alla difesa integrale della maternità nel mondo. Anche la perorazione ormai consueta di una più estesa presenza femminile nei posti di comando della società, di una partecipazione mai abbastanza adeguata del genere femminile all’esercizio del potere nelle principali sedi istituzionali di qualsivoglia indirizzo specialistico, ancorchè legittima e giusta, troppo spesso sembra risultare funzionale più ad una battaglia propagandistica di natura ideologica che non ad una istanza etica di reale emancipazione femminile e di inequivocabile valore religioso.
Proprio perché più emancipata rispetto a precedenti periodi storici, la donna ormai non può più essere trattata solo come un soggetto da proteggere umanamente, socialmente e giuridicamente ma deve essere chiamata anche, in termini generali e al pari del genere maschile, ad assumersi più precise e concrete responsabilità morali in ordine ad atteggiamenti di pensiero, modelli comportamentali e stili di vita, che appaiono sempre più spesso antitetici a princìpi o criteri etici adeguati e realmente funzionali al bene individuale e collettivo della società. Che ormai il comportamento morale del genere femminile vada generalmente dissociandosi, talvolta in forme particolarmente vistose, da convinzioni e sentimenti di natura religiosa e cristiana, è peraltro una realtà fin troppo conclamata per poter essere negata. Ed è per questo motivo che un approccio retorico e approssimativo, soprattutto in ambito specificamente religioso e cattolico, alla figura di Maria, appare sempre più fuorviante e imperdonabile, rendendo necessario il contrappeso di un recupero rigoroso dei lineamenti biblici e spirituali originali della madre di Cristo.
In realtà, il modo mariano di vivere e amare, pur essendo molto inclusivo ed accogliente verso tutti, è molto più esigente di quanto venga frequentemente evidenziato, e risulta finalizzato a potenziare progetti virtuosi e spiritualmente evangelici di vita, non certo ad abbracciare ecumenicamente ogni e qualunque condizione o orientamento morale ed esistenziale, ma a valorizzare le esperienze umani e morali di ciascuno e di tutti in funzione di un orizzonte reale e non immaginario di fede e vita cristiana. In particolare, se da un lato è vero che la storia della donna, pur non essendo affatto lineare e priva di contraddizioni regressive, si presenta come un processo tanto sofferto quanto ricco di conquiste civili e sociali molto significative, dall’altro essa sembra non decollare mai abbastanza verso uno status femminile di sicura e compiuta dignità umana, morale e spirituale. E non solo, come troppo disinvoltamente si ha ormai la tendenza a sostenere, per esclusiva responsabilità degli uomini, dei maschi, le cui colpe storiche al riguardo sono ormai facilmente ammissibili, ma anche, e non di rado in modo ugualmente scandaloso e deprimente, per gli irresponsabili, superficiali e lascivi comportamenti pubblici e privati del genere femminile. Da questo punto di vista, la storia umana e quella specificamente femminile sono o restano all’anno zero, restano un intreccio di libertà e perversione, di possibili diversi e contrastanti usi della libertà ma pur sempre in opposizione alla suprema volontà di Dio.
In un mondo ormai globalizzato, il modo di discutere di felicità, di benessere, di libertà, non pare essere molto difforme dallo spirito in cui verosimilmente tali temi venivano concepiti e vissuti ai tempi delle figure archetipiche di Adamo ed Eva. La percezione antagonistica del proprio simile, la sete di predominio e il culto esasperato del proprio io, la ricerca irrazionale e sfrenata del piacere, la rivolta esistenziale contro un ordine divino dato, sono oggi come ieri all’ordine del giorno della crisi sistemica dell’umanità contemporanea. Si parla di amicizia, di amore, di solidarietà e pace nei termini ambigui in cui se ne parlava probabilmente nel momento in cui l’umanità uscita dalle mani di Dio si rivoltava contro la sua autorità reclamando la propria libertà anche rispetto a quest’ultima. Mentre uomini e donne rivendicano in egual misura diritti soggettivi largamente soverchianti il riconoscimento delle proprie responsabilità e l’amore viene coniugato in teoria e pratica con le forme più esasperate ed equivoche di un sentire amorale e di un individualismo edonistico e sessuale, anche la predicazione e la testimonianza religiose, più segnatamente cattoliche, appaiono sempre più incapaci di proporsi come strumento di denuncia diretta ed esplicita degli interiori processi corruttivi che sono alla base di un modo carente, ipocrita, pavido e omissivo, di affrontare i problemi della morale, della vita affettiva sentimentale e sessuale, della cosiddetta vita di coppia, dell’educazione genitoriale, insomma di tutte quelle questioni attinenti la vita più intima e personale che costituisce la fonte stessa dell’agire comunitario e sociale.
Non è possibile capire l’odierna crisi di genere, educativa, economica, politica, istituzionale, a prescindere dal disconoscimento dell’origine spirituale e religiosa delle diverse forme della crisi stessa. La verità è che tutto ciò che di sbagliato, immorale, turpe o perverso si radica stabilmente nella coscienza dei singoli non può non riflettersi e non creare ripercussioni all’interno dei rapporti interpersonali, delle relazioni sociali, degli stessi processi di formazione del pensiero collettivo e dei modelli costitutivi del dibattito civile e culturale. In sostanza, si continua a ignorare gli avvertimenti di nostro Signore, secondo cui il male viene sempre dall’interno dell’uomo, e a parlare dei mali del consumismo, del capitalismo, dell’imperante permissivismo, della corruzione dei costumi, dei conflitti politico-istituzionali, delle guerre, come se tutti questi fenomeni non avessero la loro radice primaria nei mali che agiscono nel privato, nella mente e nel complesso, contraddittorio e lacerante vissuto di ogni singolo. Quando si seppelliscono i migliori costumi, le tradizioni, gli ideali più nobili, la fede in Dio e ogni speranza di salvezza ultraterrena, cos’altro può rimanere se non un pensare umorale, strumentale, pragmatico e del tutto avulso da solidi princìpi evangelici, se non un agire e un progetto esistenziale del tutto privo di senso? Come impedire che il sesso libero, la guerra tra i sessi, l’apparire, la competizione, la concorrenza, la retorica umanitaria e perbenistica di vaga intonazione religiosa finiscano per essere i nostri unici obiettivi?
Maria resta accanto al suo Signore non per offrire conforto al nostro mondo di peccato, di trasgressione e di morte ma per spronarci a reagire, a ripudiarlo, ad uscirne quanto più possibile in modo risoluto e definitivo. E, per quanto riguarda le donne, non è lì per sostenerle in qualunque loro condotta, progetto, scopo, ma solo nello sforzo umile e responsabile di non rinchiudersi nelle gabbie solipsistiche e utilitaristiche di un’etica di comodo e di una religiosità meramente consolatoria. Maria, fino alla fine dei tempi, resterà sempre al posto assegnatole in un giorno terreno dall’Onnipotente, per ricordare a tutti il nostro destino trascendente e sovrannaturale e per ricordare in particolare alla donna che la sua funzione è principalmente quella di dare completamento al disegno divino, non di operare al di fuori di esso, giacché non riconoscere tale compito corrisponderebbe ad un voler degradare l’umanità ad una semplice escrescenza della vita biologica, mentre, almeno in un’ottica evangelica, si è umani al di là dei bisogni biologici, non a prescindere da essi ma al di là di essi. E, nel sostenere che la novità evangelica consisterebbe nel rigettare lo stato di soggezione, di emarginazione, di pura e semplice ancillarità in cui storicamente la donna appare spesso confinata rispetto ad una costante o ricorrente mentalità maschilista della società, si afferma certo una cosa giusta solo ove poi si abbia l’accortezza biblico-evangelica di precisare che l’autonomia, la libertà, la dignità delle donne debbano essere intrinsecamente finalizzate a perseguire non già fini emancipativi di dubbio o equivoco valore morale ma fini virtuosi, onesti, puri, santi nel quadro di una continua purificazione spirituale e di una permanente conversione evangelica di vita.
Che il movimento femminile o femminista che dir si voglia sia venuto diffondendosi in tutto il mondo, non costituisce certo una prova indiscutibile della sua asserita carica liberatoria e civilizzatrice. Bisognerebbe cominciare a capire, anche tra i dotti teologi cattolici, che oggi non si tratta solo di liberare le donne dalla «plurisecolare prigione androcentrica in cui erano state relegate», ma di liberarle dalla cultura androcentrica per evitare che esse siano poste nella condizione di ereditarla e appropriarsene a loro volta e di utilizzarla per fare di se stesse e della propria sessualità il centro della società, della cultura e del linguaggio, a scapito non solo e non tanto del genere maschile ma anche di quel resto di genere femminile non disposto a lasciarsi etichettare, codificare, manipolare, caratterizzare in modi parziali, ambigui, vergognosamente unilaterali. Maria, al di là degli usi strumentali di diverso segno che oggi se ne fanno, resta la fedele custode della Parola di Dio, a cominciare dal significato originario assunto nella logica creazionale dal rapporto tra maschio e femmina. Tale rapporto non è quello per cui la femmina, pur essendo umanamente tutt’uno con il maschio, possa essere rivale del maschio o ad esso alternativa, ma quello per cui essa debba essere semplicemente complementare del maschio, non certo in senso strumentale o edonistico ma in senso affettivo, morale e spirituale. Qui il diritto alla propria libertà è inseparabile dal dovere di usarla con profondo senso di responsabilità. D’altra parte, il diritto femminile alla libertà non può non coniugarsi, in una dimensione biblico-evangelica della vita, con l’obbligo di pensare e vivere secondo verità, non secondo una qualunque e soggettiva verità, ma secondo la verità e le verità pronunciate da Cristo.
Maria non rappresenta soltanto la libertà della donna da ogni pregiudizio e discriminazione ma anche e soprattutto la responsabile libertà della donna di voler obbedire alla volontà divina, di voler prestare fedeltà agli insegnamenti non fraintesi del divino Maestro. La libertà evangelica è capacità di discernimento, è esercizio di bene morale, è ricerca di santità attraverso vicende di vita sempre difficili, dolorose o drammatiche, non è un principio di legittimazione di tutte le voglie del mondo. La maternità di Maria è, pertanto, al servizio di tutti coloro che si riconoscono figli di Dio e da Dio adottati a caro prezzo, di tutti coloro che amano Dio e ne riconoscono l’autorità, di tutti coloro che, pur tra continue cadute e contraddizioni interiori, si sforzano realmente di onorarne i comandi. Maria condivide certamente una comune umanità e una comune sensibilità femminile, non è speciale rispetto alle altre donne per capacità di pensare, di sentire, di agire, ma lo è certamente, con buona pace di coloro che avversano aprioristicamente qualunque meritocrazia spirituale, per il modo di pensare, di sentire, di agire e per la qualità degli scopi esistenziali che tende a perseguire. E’ speciale non perché privilegiata da Dio nel farne la sua principale collaboratrice, non indipendentemente dal suo essere donna come altre, dai suoi limiti, dalle sue paure, ma semplicemente per il modo di fronteggiare la sua povertà, le sue insufficienze, la sua finitezza. E’ speciale semplicemente in quanto come donna comune avrebbe saputo essere tuttavia speciale agli occhi di Dio e in mezzo ai suoi simili.
Quindi, ella potrà sembrare pure “irraggiungibile”, come scrive qualche teologa americana, ma le creature hanno bisogno di percepire come irraggiungibile anche qualcosa che non lo sia per decreto divino bensì semplicemente per una umana capacità di avvertire intensamente il senso del divino in tutte le dimensioni della propria vita. L’essenziale lectio evangelica consiste nel promuovere lo sforzo creaturale di elevarsi a Dio, di tendere cioè a quell’irraggiungibile di cui Maria è il più perfetto riflesso umano, senza dimenticare che, se ella è amica di Dio, lo è solo in quanto capace di essere perfetta “serva di Dio”: ciò che, forse, donne e teologhe femministe non riusciranno mai a comprendere! Maria avrebbe esercitato la sua libertà per rinunciare a fare cose cui generalmente tutte le altre donne e le altre madri non rinunciano: per esempio, contrariamente a tutte le altre donne, non avrebbe esitato a rischiare di essere additata e lapidata quale prostituta per amore dell’Onnipotente, e contrariamente a tutte le altre madri, non avrebbe potuto fare progetti per il suo bambino. Non c’è madre che non sogni un futuro radioso per i propri figli, anche se poi non dovesse realizzarsi, e nessuna madre, mentre lo culla e lo coccola, conosce il destino terreno del proprio bambino. Maria accettò invece di non poter sognare un futuro radioso per il suo Gesù e di dover assai presto intuire che quella stessa spada di separazione tra la verità e la menzogna, tra la giustizia e l’iniquità, che il figlio avrebbe rappresentato nel corso della sua pur breve ma intensa opera salvifica, si sarebbe potuta presto trasformare anche per lei in una croce di condanna e di morte. Maria, in altri termini, avrebbe dovuto rinunciare ad una normale, consueta maternità, per rispettare i progetti pensati ab aeterno dal suo Dio, benchè ella, ben istruita e profonda conoscitrice delle Sacre Scritture, conoscesse, sia pure sommariamente, la sorte che sarebbe toccata al Servo di Jahvè, suo figlio, preconizzata da Isaia.
La Madre di Dio non avrebbe mai rivendicato la libertà di fare tutto quel che potesse passarle per la testa, anche nei momenti in cui più facile e naturale sarebbe stato per lei abbandonarsi allo sconforto, alle reazioni più colleriche e vendicative, o alle imprecazioni più virulente. In lei si sarebbe incarnata la figura del perfetto cristiano, che non può fare a meno di vivere senza Gesù, anche o soprattutto nei momenti più critici o turbolenti della propria esistenza, senza un intimo e ininterrotto colloquio esistenziale con lui, senza preoccuparsi minimamente di chiedersi se le proprie azioni gli siano realmente gradite, senza affidare a lui le proprie debolezze, ansie, angosce. Quanti di noi, quante donne del nostro tempo, sono capaci di fare del Cristo, nel bene e nel male, nell’avvilimento e nella gioia, la persona più insostituibile e preziosa della propria vita?
Maria è “irraggiungibile”? Lo è solo per questo motivo, ma, in realtà, sarebbe cristianamente normale che tutti o molti agissero e vivessero come lei ha agito e vissuto. I propositi dei comuni mortali sono troppo spesso momentanei o passeggeri, durano quanto un fuoco di paglia: possiamo anche commuoverci pensando ai nostri errori, alla nostra incapacità di operare stabilmente in una prospettiva evangelica, possiamo dolercene sentimentalmente, ma facciamo molta fatica a muoverci, a comportarci di conseguenza sul piano operativo. Questo è il punto in cui Maria appare forse più “irraggiungibile” a femministe, a teologhe e teologi molto remissivi e concilianti verso le presunte esigenze umanitarie e un’effimera e ingannevole mentalità sentimentalistica del mondo. Ma il Cielo non si conquista in virtù di un giustificazionismo etico-religioso secondo cui Dio non potrebbe che comprendere e perdonare le sue creature, quali che siano le loro manchevolezze, i loro cedimenti, la qualità spirituale della loro ricerca di Dio stesso, della sua misericordia e della sua grazia.
Anche Maria avrebbe avuto i suoi personalissimi sentimenti, le sue particolari emozioni, le sue più variegate e conflittuali esperienze intime, ma tutto ciò sarebbe sempre rimasto in lei sotto il governo della sapienza divina, della fedeltà amorevole alla Parola di Dio, della fiducia incrollabile nell’amore dell’Onnipotente. Pur intimamente straziata dall’orribile e iniqua morte del Figlio, avrebbe trovato la forza di restare vicina agli apostoli, facendosene catechista e maestra di vita: li avrebbe confortati, consolati, ne avrebbe ricostruito la fiducia reciproca, distogliendoli dalla tentazione del fallimento, dell’abietta pavidità nella quale pensavano di essere caduti, e sforzandosi di non farli dubitare dell’amore misericordioso del suo Gesù anche per indurli a riflettere sulla missione che li attendeva. Si sarebbe sforzata, infine, di ravvivare in essi la certezza della prossima risurrezione del Figlio, in virtù della quale sarebbe venuta spalancandosi un’inedita e inimmaginabile dimensione di speranza nella storia dell’umanità. Avrebbe in tutti i modi cercato di tenere desta la loro attenzione per ciò che in diverse circostanze, seppur non compreso, aveva detto e promesso loro il divino Maestro: la sua personale risurrezione avrebbe sconfitto per sempre la morte. E, per continuare ad onorare il Signore della vita e della morte, ritroviamo Maria, anche dopo l’ascensione di Gesù, nel cenacolo in compagnia degli apostoli e della prima comunità cristiana, in attesa dell’infusione dello Spirito Santo.
Da quel momento, da quando lo Spirito Santo scende sul cenacolo di Gerusalemme e su tutti coloro che vi sono riuniti, la Chiesa fondata da Cristo verrà riunendosi nel suo nome, nei secoli a venire, per celebrarne i misteri e proclamarne la Parola di salvezza, ma non senza la presenza e la materna, feconda, indispensabile assistenza spirituale di colei che lo Spirito avrebbe resa pregna di divinità e grazia divina per l’eternità. Da tale presenza-assistenza spirituale che veicola nella vita e nella storia degli uomini un permanente profumo di sovrannaturalità e santa umanità, discendono concrete possibilità per uomini e donne di tutte le epoche di pensare e agire in funzione di un senso sicuro, stabile, solido, perenne, di vita, pur tra inevitabili incertezze, contraddizioni, debolezze, inadempienze e violazioni dello spirito umano individuale e collettivo. Se la Chiesa, per volontà di Cristo, ha il compito di promulgare e testimoniare attraverso i secoli e i millenni la fede nelle immutabili e salvifiche verità annunciate da Cristo, la missione di Maria è quella di allevarne, sostenerne, incoraggiarne, guidarne tutti coloro che ne fanno parte nei complicati e spesso tortuosi processi della loro vita interiore perché quelle stesse verità essi si sentano sempre più profondamente sollecitati ad intendere e ad applicare nel faticoso cammino della loro esperienza terrena. Cristo annuncia i contenuti e i modi della salvezza; Maria, così come aveva accettato di collaborare con Dio nell’accoglierne il divino Messia nella sua stessa carne, allo stesso modo offre ancora una volta tutta se stessa, in totale ossequio a quanto disposto sulla croce da quest’ultimo, per ispirare, potenziare o rinnovare fedelmente nel mondo terreno, specialmente nel torpore o nelle crisi spirituali dei suoi momenti più oscuri, la funzione apostolica della Chiesa, e per educare i singoli ad un coraggioso e ostinato esercizio di vita virtuosa e resiliente in uno spirito di pentimento, verità e carità.
E così come Gesù aveva insegnato a Maria, prima che ai suoi discepoli storici, che, in un’ottica sovrannaturale di integrale salvezza dell’umano, il criterio della qualità della vita resta contrapposto e subordinato al criterio della dignità della vita, anche Maria, all’indomani della morte e dell’ascensione in cielo di Gesù, non avrebbe fatto altro che reiterarne l’avvertimento più assillante e decisivo: che non ci si salva semplicemente osservando comandamenti e precetti religiosi, ma ci si salva solo in base al modo e alle motivazioni per cui comandamenti e precetti vengano osservati, solo in base allo sforzo reale di porli in essere con sincerità e nell’umile consapevolezza dell’inevitabile inadeguatezza persino degli sforzi più proficui. Maria resta l’interprete più fedele della cultura evangelica della vita, di una cultura in cui la rinuncia, la sofferenza, il sacrificio, e persino la morte, non siano sempre e comunque considerati come realtà negative e come negazioni della vita ma siano viste, al contrario, anche nella prospettiva di una condivisione esistenziale di quell’etica evangelica e santificante del servizio verso il prossimo e verso Dio che, al di là di ogni uso retorico o strumentale, è e resta il fulcro stesso di ogni sana concezione spirituale e religiosa della vita. Purtroppo, non solo sul versante laico non credente ma talvolta anche su quello religioso, cristiano e cattolico, viene elaborata e celebrata una cultura disattenta, negligente e omissiva della vita, ovvero dimentica delle peculiarità costitutive di una visione realmente evangelica e cristiana della vita. Tutte le volte che, nel nome della libertà umana, si viene disconoscendo e oltraggiando la dignità della persona umana, si viene in realtà proponendo, consapevolmente o inconsapevolmente, non una cultura della vita ma una cultura della morte o, al più, una cultura di vita talmente mutilata da non poter risultare preferibile alla morte stessa.
Ma, in senso generale, se il rapporto tra vita e morte è presentato in modo piuttosto schematico, unilaterale, conflittuale e radicalmente oppositivo nella cultura non cristiana, esso appare invece molto più complesso, dialettico, articolato in una cultura cristiana e cattolica non ancora arrendevole e succube di istanze umanitarie apparentemente veritiere e seducenti ma sostanzialmente false, ipocrite, ingannevoli. Come è stato efficacemente spiegato, «la relazione tra la cultura della vita e la cultura della morte deve essere compresa alla luce della “dialettica” che si rivela a Pasqua, in cui appare sia l’opposizione tra la morte e la vita (“mors et vita duello conflixere mirando” 25) sia l’assunzione e il superamento della morte nel mistero della vita (“Dux vitae, mortuus, regnat vivus” 26). E questo a diversi livelli. In primo luogo, è lo stesso mistero di Cristo a rivelare tale dialettica. Lo stesso Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae aveva letto in chiave cristologica il rapporto tra vita e morte, in cui la dimensione della “lotta” tra le due ‘culture’ lascia intravedere anche che per i cristiani la morte (la Croce) acquista uno “splendore” che la rende “centro” della vita umana. Gli eventi del venerdì santo diventano “il simbolo […] di una immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte”. Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la “cultura della morte” e la “cultura della vita”. Ma da questa oscurità lo splendore della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana (EV 50). E nel vangelo è insita la necessità di “morire” per seguire Gesù. L’invito a spingere il discepolo a “perdere la vita” per guadagnarla è centrale per Gesù, visto che è attestata da tutti e quattro gli evangelisti: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24-25; cf. Mc 8, 34-35; Lc 9, 27-28; Gv 12, 25). In un frammento attribuito a Ireneo da Lione si sostiene in maniera icastica che “l’opera del cristianesimo non è nient’altro che imparare a morire”» [A. Langella, Cultura della vita e della morte con Maria. Una riflessione spirituale e pastorale, in “Ephemerides mariologicae”, 2023, n. 73, pp. 25-27].
Maria è l’esempio più alto e autorevole di come cristianamente si viva e si debba vivere per imparare a morire e a morire agli allettanti richiami o alle più ricorrenti tentazioni di una vita illusoria e fugace, per poter realmente sperare di poter accedere ad un mondo eterno di vita, al mondo della vita che resta sempre vita ed è anzi più vita oltre questa vita, ad un mondo di vita immortale.
Francesco di Maria