Per Pavel Florenskij, la Madre di Dio era la cosa più bella del creato, la cosa più gloriosa del mondo, il fiore più bello e delicato di tutta la terra, in altre parole il più grande capolavoro di Dio. Se è vero, infatti, che l’incarnazione, il sacrificio salvifico e la risurrezione di Cristo, è esclusiva e straordinaria opera divina, non meno rilevante è la funzione centrale che ella sarebbe venuta assumendo e assolvendo nel quadro dell’universale processo redentivo del genere umano. Erano stati due esseri umani a rompere l’equilibrio su cui si fondava la Creazione, e due persone, una di natura teandrica ovvero il Cristo, l’altra di natura interamente umana ovvero Maria, sarebbero stati chiamati a ricomporre quell’originario dissidio e a cooperare al ripristino della coabitazione dell’umano con il divino non in un regno di peccato e di morte ma in un regno di santità e di vita eterna.
Questa volta, però, i coprotagonisti con Dio della sua opera redentiva, hanno qualcosa di cui Adamo ed Eva erano stati in possesso in misura ridotta, perché il Cristo, pur essendo uomo, è diretta e increata emanazione del Logos divino, parte originaria, integrante e sostanziale della realtà divina, componente costitutiva e coessenziale della complessiva e unitaria identità di Dio, mentre Maria, la cui natura dovrebbe risultare intaccata e quindi indebolita dal peccato originale, ne viene invece esentata per essere degna e capace, nella sua verginale illibatezza, di essere madre del Figlio unigenito di Dio e di Dio tout court. Se Cristo è il Logos incarnato di Dio, Maria è l’incarnazione dello spirito materno di Dio stesso. Maria, come Theotòkos, è il «primo luogo di contatto ontologico del Logos e dello Spirito Santo», cioè la figura umana in cui viene ad incarnarsi in modo unico ed originale l’unione tra il divino e l’umano, ovvero l’Immacolata Concezione di Dio, la creatura più perfetta e più preziosa di Dio, colei che umanamente avrebbe potuto peccare come Eva ma che non avrebbe voluto peccare, perché, a differenza di Eva, innamorata esclusivamente di Dio-Padre che ne avrebbe contraccambiato preventivamente l’amore generando attraverso di lei, per mezzo del suo Santo Spirito, il suo unico Figlio.
Solo una cosa Maria non potette avere sin dall’origine dei suoi giorni terreni: la divinità, l’eternità, che tuttavia avrebbe acquisito in virtù dell’opera e dei meriti salvifici di Cristo. Ma Florenskij vede in Maria la figlia prediletta di Dio analogamente al Cristo che è il figlio prediletto del Padre: in entrambi i casi il tramite sovrannaturale dell’amore divino è lo Spirito Santo che notoriamente è anche mediazione tra Dio-Padre e Dio-Figlio. Vede non solo una creatura prediletta predestinata a collaborare attivamente al piano redentivo di Dio, e già per questo meritevole del più alto amore divino, ma anche una creatura dotata ab aeterno di un potere cosmico che trascende l’ambito umano fino ad intersecarsi con le dimensioni più misteriose dell’intera creazione. Se Cristo è, in quanto Dio-Uomo, colui che, con il suo sacrificio oblativo ed espiativo, rende possibile la purificazione del mondo e del genere umano, la loro liberazione dal peccato originale, Maria, in quanto semplice creatura investita da Dio da una missione in parte umana e in parte sovrannaturale, è colei che genera umanamente Dio, accettando di condividerne con il Padre il destino storico e sovrastorico, il destino d’amore e di sangue.
In questo senso, ella non sarebbe appartenuta semplicemente alla storia del mondo e del genere umano, alla stessa storia della Chiesa, ma a qualcosa di molto più ampio, ovvero alla eterna e misteriosa storia di Dio. Maria, perciò, non ha solo la funzione di comunicare e trasmettere il favore dell’Altissimo e le grazie divine, per il tramite dello Spirito Santo, alle creature che ad essa si affidano come alla loro Madre celeste, e tale voluta dal Figlio divino, ma assolve anche una funzione ontologicamente subordinata e tuttavia coessenziale alla dinamica interna e costitutiva della unitaria e trinitaria struttura divina. Essa, per il poliedrico intellettuale e religioso russo, è in sostanza un’icona viva e concreta della realtà misteriosa della grazia e la sua persona esprime la perfetta congiunzione di una antichissima Sapienza mistica con l’oggettiva realtà materiale e immateriale del mondo terreno e dell’intero universo. Ed è altresì il cuore spirituale e cosmico della Chiesa, l’inesauribile fonte di spiritualità e di etica ecclesiale presso cui la Chiesa viene attingendo e rinnovando fedelmente la sua fede, la sua vocazione missionaria, il suo spirito di servizio e comunitario, attraverso i secoli.
Tuttavia, il misticismo teologico e mariologico florenskijano, sembra presentare dei punti critici difficilmente superabili, almeno in apparenza, sul piano ermeneutico. Una criticità è quella che si riferisce al rapporto tra l’icona, tra l’immagine e ciò che viene rappresentato, scolpito, dipinto, descritto, insomma rappresentato in vari modi o forme nell’immagine. Volendo esemplificare concretamente, per Florenskij, dinanzi ad un’icona, cioè ad una immagine di Dio, noi non percepiamo semplicemente una figura che somiglia a quella di Dio, che evoca la divinità, ma percepiamo Dio stesso o, almeno, il senso o l’essenza della divinità. Come è stato ben scritto da una studiosa italiana di Florenskij, l’icona è sì immagine di Dio, ma non nel senso di rappresentazione umano-soggettiva di Dio, e quindi verosimilmente fallace, ma nel senso di una presenza reale e presupposta della divinità che viene generando o producendo degli effetti di sé nello sguardo di chi la venga rappresentando, per cui l’icona «non è rappresentazione dell’uomo su Dio, ma Dio che si rappresenta nell’uomo; se in essa appare il divino, il senso di questo apparire è quello di presentare la cosa reale e non un suo surrogato o un suo semplice riflesso sbiadito», allo stesso modo di come l’osservatore non ingenuo ma riflessivo, al cospetto dell’icona di Maria, non può che ragionare nei seguenti termini: «Ecco, osservo l’icona e dico dentro di me: — È Lei stessa — non la sua raffigurazione, ma Lei stessa, […] . Come attraverso una finestra vedo la Madre di Dio, la Madre di Dio in persona, e Lei prego, faccia a faccia, non la sua raffigurazione; è una tavola con dei colori ed è la stessa Madre del Signore» (C. Cantelli, Florenskij e l’icona come simbolo: tra regressione e attualità, sintesi riportata in Rivista on line “Mondodomani.org”, 15 agosto 2014, dove la citazione qui riprodotta è tratta da P. A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano, Adelphi, 1981, p. 65).
Ma intendere la rappresentazione non come immagine somigliante a Dio-Cristo o a Maria, bensì proprio come immagine identitaria di entrambi, come purissimo riflesso della divinità e della Vergine Santa stesse, significa rischiare molto concretamente l’accusa di idolatria, peccato gravissimo tanto nel cristianesimo ortodosso orientale quanto nel cristianesimo cattolico occidentale. Ma, in realtà, il mistico pensatore russo intende dire che la rappresentazione in se stessa, in quanto cioè concepita come spiritualmente separata dalla presupposta presenza reale della divinità, non vale assolutamente niente, non riveste alcun significato, mentre la rappresentazione assume una importanza fondamentale in relazione alla funzione che le si voglia conferire: se tale funzione è quella di rappresentare il sacro o il divino, essa sarà appunto capace di stabilire un contatto reale, non fittizio ma identitario, tra l’umana soggettività e la divina trascendenza. In altri termini, ridurre l’icona «a essere una semplice tavola di legno con dei colori significa snaturarla nella sua identità di icona, perché essa non è inerte materia priva di vita, ma materia animata dall’azione divina, non morta immagine di Dio ma vivo corpo di Dio» (Ivi). Lo stesso ragionamento era così applicabile all’iconografia della Santissima Madre di Dio.
L’icona, pertanto, in Florenskij ha la funzione metafisico-simbolica di rinviare al significato dell’oggetto o dell’immagine rappresentata, e, nel caso specifico, alla loro dimensione invisibile, eidetica e prototipica. Per quanto riguarda Maria, nella sua immagine fisica come nella sua rappresentazione estetica o artistica, egli scorgeva la bellezza nella sua compiutezza e nella sua eterna e perfetta immutabilità, una bellezza degna sia di ammirazione celeste che di ammirazione terrena, e nella sua parola calma e misurata ma sempre intensamente vibrante di fede vissuta coglieva un riflesso purissimo della universale Sapienza divina e dello stesso sentire materno di Dio, così come nella impegnata quotidianità del suo agire non poteva che riconoscere i segni immanenti di una giustizia e di un amore sovrasensibile. Il genio russo applicava anche a Maria quello che in fondo era l’approccio mistico-epistemico al reale e al numinoso ovvero alla sua esperienza del sacro. Infatti, come è stato scritto, «Egli come cristiano e sacerdote, marito e padre, scienziato e filosofo, è prima di tutto uomo della contemplazione di ciò che sta oltre, del noumeno che si manifesta nel fenomeno, dell’universale che si manifesta nel particolare, dell’insieme che si manifesta in una sua (seppur piccolissima) parte, dell’essere che si manifesta nell’apparire, di un altro mondo che si manifesta in questo mondo, dell’angelo che — seppur da noi ignorato e, spesso, tradito — abita il cuore di ogni uomo, anche quello del peggiore criminale e assassino» (Pavel A. Florenskij, Il cuore cherubico. Scritti teologici, omiletici e mistici, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni 2014, Introduzione di N. Valentini, p. 13).
Florenskij usa una parola, celomudrie, non facilmente traducibile in lingua italiana, e composta dal termine Celo, integrità, interiorità e Mudrie, sapienza, saggezza, donde se ne potrebbe inferire all’incirca un concetto equivalente a sapienza interiore, saggezza spirituale o integrità etica, spirituale e religiosa. Con questa parola allude a quella vera e propria virtù che sarebbe stata donata, ritiene Florenskij, a coloro che appaiono predisposti a guardare, a pensare e a vivere il mondo con una sensibilità, una tenerezza, uno sguardo penetrante e misericordioso, di natura divina. Florenskij definisce queste persone “stirpe di Maria”: «si tratta delle persone che, quasi da angeli terrestri, risplendono già dalla giovinezza “della mite luce del non terrestre e dell’immacolato. E’ come se fossero sottratte alla legge del peccato, come se venissero a noi direttamente dall’Eden quali figli della copia primordiale e immacolata. Esse compiono senza sforzo ciò che agli altri costa il sudore della fronte, senza fratture si perfezionano e ascendono di grado in grado, come si dischiude un fiore profumato senza errare, incedono dalla nascita con passo fermo “agli onori della vocazione suprema”» (Ivi, p. 39, dove il pensatore religioso russo viene citato dal suo celebre testo: P. A. Florenskij, La Colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2010, p. 371). Forse qui Florenskij tende a sottovalutare lo sforzo che questi ipotetici “angeli terrestri”, proprio perché severamente e costantemente portati a detestare il peccato anche o proprio in essi di continuo risorgente, devono produrre, nel corso della loro breve o lunga esistenza terrena, per tenere a bada la perfidia di una interna voce istintiva, controllata a fatica, che invita talvolta alla diserzione dallo spirito di verità e di giustizia. Questi “angeli terrestri”, tuttavia, sembrano assolvere nel religioso russo la stessa funzione spirituale, educativa e formativa, dei santi cattolici, che di tutte le parole umanamente in uso, privilegiano in particolare le parole della preghiera.
Se le parole hanno la funzione di rendere possibile la comunicazione tra esseri pensanti e parlanti e di stabilire una adeguata corrispondenza tra il pensare o il sentire morale e il mezzo linguistico al fine di determinare la verità o la falsità del discorso, le parole della preghiera, tanto della preghiera liturgicamente regolamentata e definita quanto della preghiera libera e spontanea, hanno invece la funzione di rendere possibile la comunicazione con Dio oppure anche con un Altro di cui non sia sufficientemente nota l’esatta identità e di condizionare lo stesso rapporto dialogico-verbale con i propri simili e le implicazioni pratico-pragmatiche che da tale rapporto possano derivare. A dire il vero, anche per motivi inerenti il proprio status presbiterale, Florenskij ritenne sempre che la migliore forma della preghiera fosse quella liturgica o consacrata nella pratica liturgica, e, soprattutto in tal senso, avrebbe considerato la recita della preghiera il cuore di ogni azione liturgica e l’evento linguistico più significativo perché attraverso essa si raggiunge il grado più alto di intensità comunicativa, sia nel momento in cui l’orante a Dio si rivolge per rivelare la verità della propria esistenza, sia anche nel momento in cui si tratta di riflettere attentamente su ciò che Dio ha rivelato di sé agli uomini per aiutarli a meditare sul mistero della loro stessa esistenza.
Ma, naturalmente, poiché c’è preghiera e preghiera, precisa Florenskij, solo le parole di una preghiera vera, cioè realmente sentita e recitata non casualmente o abitudinariamente ma con sempre rinnovato e sincero trasporto emotivo, sono efficaci, anche perché, egli spiega, «Queste parole non si scrivono con l’inchiostro, ma con il sangue, con gocce rade che stillano dal petto e questo sangue (nel quale è la vita) non si esaurisce, né si secca mai. Con una forza sempre nuova la vita, dilatata da questo sangue misterioso, rigenera la vita: nell’oceano della vita interiore dell’umanità viene scagliata la parola e la forza dell’anima, dal punto della caduta, moltiplica infinitamente i suoi cerchi» (P. A. Florenskij, Il pianto della Madre di Dio, in Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, a cura di N. Valentini e L. Zak, Piemme, Casale Monferrato 1999, pp. 189-196. Sulla funzione rivelativa delle parole in Florenskij, cfr. l’articolo d i L. Zak, Tra occultamento e rivelazione. La parola in P. A. Florenskij, in Rivista on line di filosofia “Dialegesthai”, 30 ottobre 2003). E quale preghiera più illuminata e rivelativa di quella della Madre di Dio potrebbe darsi nella storia dell’umanità e della Chiesa. Si pensi alla preghiera probabilmente più esemplare di tutta la sua esistenza, il Magnificat, inimitabile inno di lode a Dio ma senza parole superflue o retoriche, bensì essenziali, dirette, chiare, esplicite e affilate come una lama. Questo sia detto anche per contribuire possibilmente a sfatare, se non un luogo comune, quanto meno un pregiudizio psichico ancora resistente nella mente di tanti cristiani e cattolici: che quella madre contemplativa, addolorata, orante e sempre pazientemente vicina a tutte le creature che le si rivolgono imploranti, altro non sappia fare che perdonare, pregare, amare e concedere grazie a chicchessia. Ecco: questa è una caricatura grossolana della personalità, della forma mentis, della cultura religiosa e della fede di Maria di Nazareth, perché la sua mitezza non fu mai timidezza di fronte a prepotenza e arroganza, la sua affabilità non fu mai arrendevolezza di fronte al gratuito esercizio della forza e al sopruso, il suo staripante spirito di carità mai l’avrebbe indotta ad amare il prossimo prescindendo dalla verità e della giustizia divine.
Quando dovette celebrare il suo Dio, non si sarebbe limitata ad esaltarne il perdono e la misericordia, secondo quanto si suole fare sempre più spesso nel revisionismo dottrinario e buonista del mondo cattolico contemporaneo, ma ne avrebbe segnalato, con puntualità ed autorevolezza biblico-religiosa, anche il giudizio, il castigo, il potere di salvare e di condannare, la giustizia implacabile, la quale non è altro dalla misericordia ma solo l’altra faccia di essa. Maria è una credente, è la credente per eccellenza e, come tale, non può che essere in linea con i versetti dell’evangelista Giacomo: «Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano» (Gc 1-12). Maria, per la speciale profondità della sua fede e per il rapporto di amicizia particolarmente stretto e intenso con Dio, non impersona una spiritualità molle, dolciastra, sentimentalistica, ma una spiritualità forte, solida, fondata sulla Sapienza divina e sul Logos incarnato, a tal punto da non somigliare “semplicemente”, in senso biblico-emulativo, all’immagine divina ma da abitare quasi nelle profondità ontiche della stessa intimità di Dio. Per questo motivo, Florenskij la considera come la persona più prossima alla divinità trinitaria, come la quarta persona che partecipa alla vita trinitaria: non come persona al pari di tutte le creature ontologicamente molto distante dalla vita trinitaria di Dio, ma come persona creaturalmente investita da una speciale grazia divina, da una così potente energia santificante da percepirsi, pur nella coscienza della sua umile nullità esistenziale, nitidamente sintonizzata sulle onde sovrannaturali della divinità trinitaria.
Maria è così una strettissima collaboratrice della Santissima Trinità: realizza la volontà del Padre e diventa piena dello Spirito Santo, facendo nascere il Logos incarnato. Diventa una così preziosa collaboratrice da fungere, non da essere ma da fungere, per concessione divina, anche come mediatrice nell’agire di Cristo, mediatore per sua propria natura sovrannaturale, fra Dio e noi. Non si deve peraltro dimenticare che l’origine umana del Cristo, da cui la natura divina del Cristo stesso non potrà mai prescindere tanto nella temporalità quanto nell’eternità, è data da Maria, umanissima creatura ma sovrannaturalmente proiettata verso un ruolo regale accanto e al servizio della suprema regalità di Dio. In Maria, in sostanza, è da individuare la creatura che serviva al Creatore e doveva servire il Creatore per poter salvare la sua creazione. Maria altresì, pur non subendo una morte violenta, resta un prototipo di fede cristiana anche per via del fatto che la sua fede sarebbe stata spesso trafitta dalla spada dello scandalo, del dissidio e della contraddizione, e sottoposta a durissima prova in vista della croce riservata ab aeterno a suo figlio.
In questo senso, afferma il teologo russo riferendosi alla Santa Vergine, «la purezza data dallo Spirito Santo elimina le escrescenze del cuore, ne mette a nudo le radici eterne, ripulisce le vie attraverso le quali la luce ineffabile del Lume triipostatico penetra nella coscienza umana. E allora tutto l’essere interiore, lavato dalla purezza, è colmato dalla luce della coscienza assoluta e dalla beatitudine della Verità nitidamente sperimentata» (P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, Milano, Rusconi, 1974, p. 414). La purezza di cui qui si parla è la purezza del cuore, è l’innocenza del fanciullo, in questo caso della fanciulla che non sa fare altro che dipendere fiduciosamente dal padre e in lui trovare la condizione inamovibile della propria sicurezza personale; non si dà nella più innocente delle creature la possibilità di uno scollamento tra intelletto o ragione e volontà, perché la ragione suggerisce in modo stringente a questa creatura che non si dia per essa protezione più sicura e spontanea di quella che può offrire un padre. Ora, se Dio si rivela salvificamente al mondo in e attraverso Cristo, egli viene altresì rivelandosi nell’essere e attraverso l’essere creaturale spiritualmente più puro, più innocente, più verginale e immacolato (anche se in Florenskij non compare letteralmente l’espressione Immacolata Concezione), e quindi più idoneo a supportare l’opera divina in un genere umano altrimenti votato alla morte eterna. Il peccato originale era stato contratto da Adamo ed Eva, la liberazione da esso e il possibile ritorno alla grazia divina non potevano essere conseguiti se non attraverso l’attiva e fattiva adesione all’offerta salvifica di Dio. Il nuovo Adamo a ciò designato, questa volta avrebbe dovuto essere l’uomo perfetto in Dio, ovvero l’uomo totalmente e inseparabilmente unito a Dio e indefettibilmente aderente alla sua volontà, quindi capace non già di essere immune dalla tentazione diabolica ma di resistervi validamente e incondizionatamente: per rendere realistico questo progetto, che era stato posto alla base della stessa creazione, di un uomo a lui simile e con lui in fedele e felice comunione per l’eternità, Dio avrebbe messo in gioco se stesso nella persona del Figlio unigenito, facendo in modo che questi fosse simile all’uomo, incarnandosi, assumendo sembianze, pensieri e caratteristiche umane, e chiedendo alla nuova Eva, a Maria, non solo di sostenere il Figlio divino nella sua opera redentiva ma di dargli persino la vita generandolo nel tempo e nella storia del mondo.
Maria diventava così contemporaneamente, nel quadro di questa sconvolgente operazione sovrannaturale, figlia prediletta del Padre, madre del Dio-Uomo, sposa dello Spirito Santo, anche se si può ben dire che ella veniva di fatto concepita nella mente divina come figlia, madre, sposa di Dio per l’eternità e anche, essendo Dio il re dell’universo e di tutti gli universi possibili e reali, come la regina-madre del Cielo e della terra, degli esseri celesti e degli esseri terreni. Nel dire “fiat” all’angelo di Dio, Maria avrebbe accettato per sempre la verità divina, la verità integrale di Dio, e sempre l’avrebbe posta in essere nel corso della sua vita terrena, operando da soggetto umano consustanziale, non per natura s’intende ma nello spirito, con Dio. Se Dio si fa uomo, soffrendo e morendo come uomo e per l’uomo, vuol dire che Dio non vuole perderlo ma, considerandolo quale parte costitutiva e integrante della sua onnipotenza e del suo amore, è disposto persino a sacrificare in modo estremo se stesso per indurlo a restargli fedele, nonostante i suoi limiti e la sua fragilità, e a vivere in lui e con lui per l’eternità. Se l’uomo si fa Dio, amandolo, servendolo fedelmente e disponendosi a morire in lui e per lui, l’uomo diventa meritevole dell’amore, del perdono, della compassione di Dio, degno di essere salvato e di conseguire la vita eterna. Maria è, in assoluto, il modello umano più alto e irraggiungibile di vita spesa interamente per il Signore, di fede nel Signore coltivata non malgrado le miserie, le tribolazioni, la morte della vita terrena, ma proprio in ragione del fatto che quest’ultima, segnata irreversibilmente dal dolore e dal male, dalla precarietà e dalla brevità, solo per effetto della fede nell’infinito amore divino può assumere un senso e una finalità non effimeri ma sicuri e permanenti.
Maria non avrebbe mai recriminato, pur tra tanto soffrire e patire, su alcun evento doloroso, drammatico, luttuoso della sua esistenza, ivi comprese la passione e la morte totalmente ingiuste che sarebbero state inflitte al proprio Figlio, ma avrebbe sempre continuato a credere in un immancabile e provvidenziale dispiegarsi dell’onnipotenza e della giustizia divine, a sperare e a pregare affinchè il mondo, lungi dal vivere lontano da Dio disconoscendone la presenza attiva tra gli uomini e considerando la morte come l’ineluttabile fine di tutto, volgesse il suo ascolto e il suo sguardo verso orizzonti di verità e di senso reali ma sempre troppo poco osservati e indagati, chiedendosi in particolare se la morte di Cristo, ribaltando ordinarie e rassegnate certezze umane, non potesse rivelarsi non già come un precipitare nel nulla ma come inizio di una vita nuova e immortale. Ecco perché, per Florenskij, Maria era l’indefettibile trasparenza di Dio, l’icona più rappresentativa della luce divina, il perfetto prototipo umano di apertura spirituale e di accoglienza incondizionata della volontà divina, un riflesso purissimo e irripetibile della natura e dell’amore divini.
Se, come scrive il religioso, che avrebbe testimoniato e sugellato la sua sconfinata fede in Cristo con la morte, subìta nel 1937 ad opera della criminale dittatura stalinista, in ognuno di noi c’è qualcosa di angelico, di cherubico, la sensibilità della Madre di Dio, pur sempre legata al Cristo da un legame ontologico, dovette apparirgli ben più elevata, di natura quasi divina: «più onorabile dei Cherubini e senza confronto più gloriosa dei Serafini», ella viene definita in larga parte dell’ortodossia religiosa russa. Donde, anche per l’ortodosso Florenskij, la Madre di Dio sarebbe venuta esercitando, se devotamente implorata, il grandioso potere di disperdere «l’oscura accozzaglia delle nostre passioni e brame …», fungendo da «colonna di fuoco che ci preserva dalle tentazioni e dagli allettamenti del mondo … la colonna di fuoco che ci mostra il cammino della salvezza in mezzo alla tenebra del peccato … che ci libera dal fuoco delle passioni con la rugiada delle sue preghiere. Se il Signore è il capo della Chiesa, la mite Maria è ‘la trasmettitrice del divino favore’, il vero cuore per mezzo del quale la Chiesa distribuisce ai suoi membri la vita, l’eternità e i doni dello Spirito, la vera ‘datrice di vita’, la vera ‘fonte vivificante’. Perché Maria è ‘la Signora tutta immacolata, la sola pura e benedetta … la piena di grazie … la sola colomba incorrotta e buona’. Essa è il simbolo vivo e il principio del mondo che si purifica, la purificatrice; è il roveto ardente circondato dalle fiamme dello Spirito Santo, l’approvazione viva e anticipatrice dello Spirito sulla terra, il tipo della pneumatofania» (Si cita da S. De Fiores, Maria nella teologia contemporanea, Roma, Centro di Cultura Mariana “Mater Ecclesiae”, 1978, pp. 185-186).
Maria è come il roveto che arde senza bruciarsi, senza subire alcuna distruzione a causa del fuoco dello Spirito e questa immagine sta a simboleggiare la natura eterna, inesauribile della potenza di Dio che, come nel caso del roveto biblico, anche in Maria si viene eternamente manifestando. Maria è circondata dal fuoco dello Spirito, senza subire naturalmente alcun danno ma solo perché ella possa disporne a fini di bene e di amore: ella, quando necessita la sua azione materna, usa di quel fuoco per quel tanto che basta ogni volta a servire il bene e le creature che hanno spesso bisogno di essere sollevate da stati dolorosi di peccato, da difficoltà contingenti o persistenti, dall’amarezza, dallo sconforto, dalla solitudine, da tutto ciò che procura infelicità e si frappone ad un sereno cammino verso l’eterna beatitudine. Usa di quel fuoco, in altri termini, come strumento di vita: per illuminare, per scaldare, per rafforzare, per purificare, per agevolare la conquista della salvezza. Non è Florenskij che inventa questa immagine di Maria come roveto ardente, perché egli la riprende opportunamente e con grande slancio religioso dai Padri della Chiesa che, appunto, nell’immagine biblica del roveto che arde senza consumarsi avevano colto la prefigurazione della maternità divina di Maria. Si erano chiesti, infatti, come potesse una creatura contenere il Creatore nel suo grembo senza restare bruciata e annientata dalla sua potenza: era possibile perché non c’è nulla che la potenza, anzi l’onnipotenza di Dio, non possa fare, come il fare in modo che la divinità potesse essere generata, allevata ed educata umanamente da donna per vivere e morire in obbedienza alla stessa volontà di Dio.
Francesco di Maria