Chi ama il Signore deve non solo sapere ascoltare ed intendere la sua Parola ma anche osservarla e applicarla diligentemente e coerentemente alle diverse situazioni della vita e in rapporto a persone che potrebbero volerla disattendere e persino contrastarne l’attuazione. Il Signore non chiede ai suoi seguaci di porre in essere a tutti i costi e con ogni mezzo il suo insegnamento se non nella misura in cui ciò possa dipendere dalla loro volontà, perché egli è consapevole del fatto che non sempre persino le migliori intenzioni e le buone opere individuali o collettive possono tradursi fedelmente in atti concreti e consequenziali, a causa delle molteplici variabili, dei contrattempi e degli imprevisti di cui constano l’esistenza personale e la storia dei popoli, ma di fare tutto quel che possono, di onorare al meglio quell’insegnamento anche a costo di sacrifici che potrebbero venire implicando anche l’offerta della propria vita. Se mi amate, dice Gesù, osserverete i miei comandamenti: bisogna fare attenzione a non fraintendere queste parole, perché con esse egli non intende dire che l’amore verso Dio e quindi il rispetto dei suoi comandamenti siano incompatibili con la possibilità dell’errore umano, della trasgressione della sua santa volontà, del peccato, o meglio incompatibili sarebbero certamente se il peccatore non fosse capace di riconoscere, o ancora meglio si ostinasse a non voler riconoscere le sue colpe, non fosse capace di ammettere le sue debolezze, di pentirsi dei suoi errori o dei suoi vizi. Tra i comandamenti divini, com’è noto, primeggia il perdono che, contrariamente a quanti, chierici o laici che siano, lo interpretano e lo trasformano in una sorta di alibi sempre buono a sdrammatizzare la gravità di condotte umane perverse o deplorevoli, presuppone il sincero e profondo pentimento del peccatore, la sua effettiva volontà di cambiamento interiore e di conversione spirituale, la capacità di mettere i propri limiti e la propria fragilità nelle mani di Dio, di affidarsi a lui pur sapendo di poter continuare ad essere soggetto alle tentazioni del mondo e della carne.
Tante volte è difficile stabilire umanamente se un comportamento prolungatamente peccaminoso sia conseguente a una falsa e ipocrita intenzione di ravvedimento oppure a difficoltà talmente profonde e radicate nella struttura psico-fisica individuale da richiedere tempi di guarigione particolarmente lenti o lunghi. Questo è qualcosa di cui non sempre appaiono consapevoli gli stessi “confessori”, i quali risultano esposti a due estremi ugualmente sbagliati e anzi dannosi. C’è il confessore che, dinanzi a casi di peccaminosità recidiva, soprattutto in relazione alla sessualità, che è solo uno dei tanti ambiti dell’esistenza in cui l’essere umano è soggetto a peccare, continua ad assolvere con grande disinvoltura limitandosi a dire che Dio è buono, capisce la fragilità della creatura ed è sempre pronto a perdonare tutto; e c’è il confessore che, al contrario, non esita ad esercitare sul penitente un’azione pesantemente o sottilmente ricattatoria, dicendo che chi ama Gesù certe cose non le fa e, se le fa una volta, poi riesce a non farle più. Questi due modi di porsi verso il penitente sono ambedue sbagliati e, in buona o cattiva fede, evangelicamente abusivi o arbitrari, perché il penitenziere dovrebbe certo sottolineare la gravità di determinati peccati esortando amorevolmente al ravvedimento ma avvertendo anche, in modo mai superfluo, che la sua assoluzione è pur sempre subordinata a quella di Dio, in quanto solo Dio legge in profondità il cuore degli uomini.
Certo, ottemperare ai comandamenti divini, pur essendo doveroso, non è semplice e, d’altra parte, è comprensibile che la salvezza richieda molto impegno, dal momento che il Cielo, nell’annuncio evangelico, non viene concesso a chicchessia ma solo a coloro che, ognuno nella sua condizione esistenziale, coltivi sinceramente il desiderio e lo sforzo terreno di somigliare almeno un po’ agli angeli di Dio. D’altra parte Gesù, nell’ascendere alla casa paterna, non abbandona le sue creature, dal momento che la stessa funzione di insegnamento, di assistenza spirituale, di consolazione, verrà ad essere esercitata stabilmente da un altro Paraclito, da un altro avvocato divino, ovvero dallo Spirito Santo che è innanzitutto spirito di verità, che se da una parte ricorderà a coloro che sapranno accoglierlo e percepirne le sollecitazioni tutto ciò che ha già rivelato il Cristo, dall’altra provvederà ad insegnare tutto quello cui quest’ultimo aveva solo accennato o alluso ritenendo prematuro annunciare agli uomini del suo tempo verità che essi non avrebbero potuto comprendere neppure per mezzo di parabole usate generalmente dal divino Maestro per rendere accessibili i misteri della fede a tutti coloro che fossero meno capaci di coglierne immediatamente il senso e la portata.
Ma, aggiunge Gesù, ci saranno anche coloro che non metteranno in pratica le parole del Figlio e del Padre ovvero coloro che, in tal modo, dimostreranno di non amarlo, anche se bisogna precisare di nuovo che non mette in pratica le parole divine non solo e non tanto chi, strada facendo, per errore, debolezza o paura, le venga trasgredendo, ma principalmente chi le disconosca in modo deliberato nel nome della sua libertà di giudizio e scelta oppure, e soprattutto, chi sia interiormente e reiteratamente refrattario alla legge del perdono, a chiedere perdono a Dio per le proprie colpe e agli uomini per le offese del tutto gratuite loro arrecate. Per coloro che riconoscano il significato e la funzione salvifici della Parola di Dio, «tutto sarà perdonato tranne la bestemmia contro lo Spirito Santo» (Mt 12, 31), cioè tranne il rifiuto radicale, ostinato, e talvolta persino ostentato, di Dio, della sua grazia, del suo potere di perdonare ai cuori sinceramente contriti persino i peccati più gravi e ripugnanti. Ancora con il Concilio Vaticano II, veniva ribadito che «La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna» (CCC 1864).
Francesco di Maria