1. Volti conflittuali della fede nell’epoca di papa Bergoglio
Chi, ben consapevole del sempre più accentuato fenomeno di desensibilizzazione religiosa oggi in atto soprattutto in occidente e di crescente e vistosa riduzione della ritualità religiosa comunitaria ad esso connessa, abbia a cuore lo stato di salute e il futuro destino della fede cristiana e cattolica nel mondo, prima o poi non potrà non porsi le domande assai di recente formulate dal sociologo Franco Garelli: «Il cattolicesimo italiano sta perdendo il senso della ‘domenica’? La riduzione dei praticanti regolari è una nuova tappa del processo di secolarizzazione delle coscienze? Oppure la disaffezione dalla pratica religiosa ha perlopiù cause interne, è dovuta ad una liturgia ormai diventata afona, non più in grado di attrarre e interpellare i credenti? Inoltre, si tratta di una tendenza destinata ad inasprirsi o ad ammorbidirsi nel tempo?»1 La maggior parte dei fedeli, lungi dal cogliere e dal vivere la religiosità e la stessa ritualità eucaristica e sacramentale nel loro intrinseco e perenne significato sacrificale e salvifico, tende ormai a trasformarne la stessa dimensione comunitaria in una opportunità di evasione da una dura e sofferta quotidianità oppure in un’occasione di sia pure fuggevoli anche se talvolta gratificanti incontri relazionali. Non sono più tanto le contrarietà o i drammi esistenziali ad essere offerti in sacrificio per la purificazione e la redenzione della propria vita interiore, ma è piuttosto l’esperienza religiosa che, pur pensata come esperienza di comunione fraterna con Dio e il prossimo, viene tuttavia sentita e vissuta fondamentalmente, e in modo solo in parte legittimo, in funzione del soddisfacimento delle proprie necessità esistenziali.
Nel periodo funestato dal Covid-19, le chiese italiane, per limitare il discorso ad un dato di più sicura affidabilità, anziché riempirsi, come sarebbe naturale attendersi da una fede particolarmente sentita e testimoniata, sono venute drasticamente svuotandosi di praticanti regolari, né da quel periodo esse sono venute ripopolandosi in modo significativo. Non che la frequentazione fisica o abitudinaria del luogo di culto abbia mai costituito un sicuro indice di fede certa e responsabile, ma è tuttavia significativo che, diversamente da quel che forse accadeva in altre epoche, i fedeli in tempo di epidemia evitino oggi di andare in chiesa nello stesso modo in cui evitano di frequentare qualunque altro luogo chiuso, a testimonianza del fatto che, probabilmente, la fede in Dio non sia più forte, contrariamente a quanto una granitica e convinta spiritualità religiosa dovrebbe comportare, della paura di essere o restare contagiati più o meno gravemente persino nella casa terrena per eccellenza di Dio. Certo, si potrebbe pensare che se, da una parte, le chiese sono più deserte, dall’altra possa derivarne un fenomeno ecclesiale di fede più consapevole e matura2, anche se tale ipotesi appare subito invalidata dal fatto che una riduzione quantitativa di partecipazione popolare alla vita ecclesiale non implica certo necessariamente un più elevato standard qualitativo del sentimento religioso, mentre in realtà è più probabile che quel flebile sostrato spirituale su cui, pur sommerso o nascosto, era già fondata la fede religiosa collettiva dei decenni scorsi e successivi al Concilio Vaticano II, ora, in presenza di una crisi sanitaria quasi planetaria e quindi di una prova particolarmente difficile, sia venuto inequivocabilmente alla luce alimentando non tanto la falsa prospettiva di una religiosità meno diffusa che in passato ma qualitativamente più soddisfacente ma ponendo piuttosto la più realistica domanda se non sia venuto il tempo per la Chiesa di Cristo di invertire la rotta da essa intrapresa nell’ultimo mezzo secolo, ovvero quella di una catechesi, di una pastorale, di una complessiva missione evangelizzatrice, volta ben più a valorizzare le forme di pensiero e di vita contemporanee che non a indicarne e denunciarne, con inequivocabile chiarezza apostolica, limiti e ambiguità di fondo.
Non c’è dubbio, infatti, che quanto più la fede evangelica, per timore di apparire o diventare anacronistica, venga accordandosi, conciliandosi, compromettendosi, sia pure attraverso impercettibili o sottilissimi canali di comunicazione, con le realtà e le voci sempre troppo rumorose e confuse del mondo pagano, tanto più essa sia destinata a perdere in originalità dottrinaria e in capacità di incidere non solo sulla coscienza in generale del genere umano, ma sulla stessa coscienza della propria comunità ecclesiale di appartenenza. Bisogna intendersi: le pestilenze, le pandemie, le carestie possono indurre storicamente cambiamenti anche repentini e profondi nel modo di percepire la nostra identità, la nostra libertà e la nostra esistenza, di percepire Dio e il nostro rapporto con Dio; cosí come i postumi spirituali conseguenti a talune situazioni oltremodo difficili e devastanti di crisi possono trasformarsi in opportunità, in opportunità di cambiamento e di conversione spirituali oppure in opportunità o meglio in occasioni di abbandono della fede e persino di forme di fede apparentemente consolidate o collaudate. Le immagini della fede, come di Dio stesso, specialmente in certi momenti di buio, di estrema debolezza, di profonda solitudine, tendono a moltiplicarsi, a confrontarsi, a contrapporsi o ad elidersi tumultuosamente nella mente di molti di coloro che si trovino a subire direttamente o indirettamente le pesanti ripercussioni di vere e proprie emergenze esistenziali. In questi casi, volendo entrare nel merito dei dubbi e delle diversificate o eterogenee soluzioni che possono essere date a domande anche e inevitabilmente di carattere religioso e teologico, non si tratta né di incolpare Dio del terribile male che ci si trova a patire, né di pensare che Dio sia completamente estraneo ai più orribili e luttuosi eventi del mondo. Sulla base di una intelligente, attenta e rigorosa lettura delle Sacre Scritture, fonte primaria di fede religiosa, una questione del genere risulta semplicemente “indecidibile” e non se ne possono trarre interpretazioni univoche, lineari o definitive3.
Per fede a nessun essere umano è concesso di spiegare esaurientemente il silenzio divino tante volte incombente su fatti particolarmente catastrofici della vita e della storia. Persino Gesù, in punto di morte, tenta di capire l’inesprimibile e inintellegibile senso dell’atroce fine che è costretto a sperimentare: perché Padre mio, perché tuo Figlio, tre volte santo, innocente e giusto, deve morire cosí, tra insopportabili sofferenze e blasfeme parole di scherno? Perché? A questa domanda non segue una risposta chiarificatrice o consolatrice del Padre, anche se il suo silenzio assordante è già una risposta, e proprio questo, probabilmente, è un segno eloquente non già dell’indifferenza di Dio quanto del nesso terribilmente ingarbugliato e misterioso intercorrente tra onnipotenza e assoluta libertà in Dio, onnipotenza e assoluta libertà come fattori o facoltà entrambe costitutive dell’essere perfetto e provvidenziale di Dio. Il problema è che gli uomini, pur leggendo o studiando i testi biblici, tendono a farsi determinate immagini di Dio e della stessa fede non alla luce di quanto è in essi contenuto e rappresentato ma in base ad esigenze e aspettative personali, in se stesse certamente legittime, ma troppe volte radicate in modi cosí abnormemente soggettivistici di accostarvisi e interpretarli da fraintenderne o alterarne l’oggettivo significato. Che persino qualificati teologi, autorevoli uomini di chiesa o raffinati filosofi, possano incappare in errori esegetico-interpretativi clamorosi o in veri e propri tradimenti della Parola di Dio, non è più qualcosa che ormai susciti stupore o indignazione tra i fedeli dal momento che, come tutti sanno, gli stessi vertici ecclesiastici, non da oggi, sono soggetti a vergognosi e pericolosi oscillazioni o sbandamenti dottrinari che, mentre portano disonore alle origini divine della Chiesa di Cristo e ne riducono sensibilmente la funzione profetico-escatologica, favoriscono il proliferare non di “buoni pastori” che, in spirito di verità e carità, si prendano cura del gregge loro affidato da Dio ma di “cattivi pastori” inclini a convogliare orgogliosamente il gregge verso modelli comportamentali e prospettive di vita alquanto ingannevoli e distanti dall’annuncio evangelico. Il buon pastore immaginato da Bergoglio non ha affatto l’odore delle pecore perché, non vivendo realmente con e per esse, non ne conosce le reali necessità, ma ad esse si sovrappone orgogliosamente e rovinosamente4.
Nel gesuitismo oggi dominante nella Chiesa di Cristo, affiora continuamente una supponenza, uno spirito di malcelata prevaricazione teologico-dottrinaria, un’albagìa temporalistica unitamente ad un uso non di rado strumentale e demagogico della Parola di Dio, da indurre persino il più composto, umile e rispettoso dei credenti a malcelati moti di infastidita disapprovazione. Se si pensa che questo papa e tutta la sua compagnia, cui è stato dato mandato di occupare tutti i posti apicali del potere gerarchico-ecclesiastico, predicano e agiscono nel nome e per conto del santo autore cinquecentesco degli “Esercizi spirituali”, non si può fare a meno di rabbrividire e di constatare come sia possibile allontanarsi con estrema disinvoltura dai propri padri spirituali. Quella attualmente in corso non è la missione evangelizzatrice della Chiesa cattolica ma solo una sua parodia, solo la versione retorica e deformante della tagliente e per niente ecumenica Parola di Dio5. Ora, è vero che la speranza cristiana, come dice un altro gesuita, «sfida il nichilismo»6 ma il problema è che la speranza cristiana si mantiene integra solo sulla base di una fede incorrotta, non soggetta a manipolazione e a travisamenti di qualunque genere, e di conseguenza credibile sia in senso dottrinario che in senso pastorale, che è ciò che assai difficilmente potrebbe sostenersi per il vigente pontificato7. Se la fede venga sottoposta a improprie torsioni interpretative come quella per cui essa sarebbe compatibile anche con pratiche sessuali da sempre ritenute innaturali e illecite da una plurisecolare tradizione teologica ed ecclesiale oltre che dal comune sensus fidei o fidelium, oppure venga intesa come aperta o esplicita critica di provvedimenti o misure politico-governativi più o meno opinabili, si pensi all’epocale fenomeno migratorio, ma inequivocabilmente funzionali al perseguimento della sicurezza e del benessere sociale di intere comunità nazionali, essa viene utilizzata per scopi che, seppure non estranei al suo possibile raggio d’azione, vengono perseguiti con scarsa capacità di discernimento e con stolte motivazioni, anche evidentemente a causa di un’intenzionalità priva di spiritualità e religiosità coerentemente evangeliche8.
Altro è protestare doverosamente, in forza della fede, contro la legalizzazione dell’aborto, del divorzio, o di forme palesemente arbitrarie e disumane di eutanasia, che sono tutte pratiche esplicitamente vietate dall’annuncio evangelico, altro è invece pretendere, irragionevolmente, di vedere spalancate le porte di nazioni e Stati a tutti gli immigrati del mondo senza minimamente preoccuparsi delle possibili o inevitabili ripercussioni negative che certi fenomeni migratori di massa potrebbero avere sulla vita sociale, economica, sanitaria, culturale e religiosa delle comunità residenti, che sono anch’esse prossimo da servire con amorevolezza fraterna, e verosimilmente già afflitte da non trascurabili problematiche interne. Quel che ad un cristiano non può non far arricciare il naso, in particolare, è che un papa, in materia di migranti e migrazioni, possa presumere di possedere una capacità di discernimento e un senso etico-civile di responsabilità superiori a quelli di cui possono essere dotati navigati governanti o esperti e responsabili reggitori di Stati, proprio mentre lo Stato pontificio del Vaticano non esita, con veri e propri decreti o atti normativi, a blindare se stesso con inflessibile severità contro i migranti che ne valichino i confini illegalmente9. Se emigrare è un diritto, come dice disinvoltamente il cardinale Zuppi, accogliere sempre e comunque i migranti non è certo un dovere di Stato: un dovere, anche di natura evangelica, potrebbe essere, in particolari circostanze, per singoli privati o gruppi di privati cittadini, ma non per uno Stato che, in quanto tale, è tenuto a garantire ordine pubblico e sicurezza territoriale, sanitaria, sociale, a tutti i suoi cittadini. Non dare accoglienza al forestiero è un grave peccato, ove tale precetto biblico-evangelico, venga inteso correttamente, ma utilizzare il vangelo in chiave retorica e strumentale è un peccato molto più grave da parte di chi evidentemente intenda servirsi della Parola di Dio per motivi ideologici, propagandistici o addirittura opportunistici, o comunque per motivi non dotati di incontrovertibilità etica e spirituale10.
Accade cosí che ci si possa trovare stretti tra un’immagine della fede troppo rigidamente tradizionalista o troppo ciecamente fondamentalista, tendenzialmente antitetica a tutte le realtà e le forme di pensiero o di sapere del mondo, e un’immagine della fede troppo elastica e aperta al dialogo con le più disparate correnti culturali e istanze socio-esistenziali del tempo ma anche troppo poco fedele alla parola stessa di Dio. Se a non rendersi conto del danno ingente che alla Chiesa, prima e oltre che al mondo, può essere arrecato da situazioni antinomiche di questo tipo, e a non darsi saggiamente da fare per bloccarne sviluppi altamente pericolosi e destabilizzanti, sia persino il papa, il rischio che può profilarsi storicamente è quello di una virtuale proliferazione di fedi pur nell’orizzonte di un’unica fede, di fedi che si richiamino indistintamente agli stessi princìpi dogmatici e agli stessi contenuti rivelati per dire e significare però cose diverse, e implicare comportamenti, valutazioni o scelte profondamente differenti o eterogenee, donde la paradossale conseguenza di una religione cristiana che venga eventualmente configurandosi, in forme patologiche sempre più accentuate, come terreno di un vero e proprio caos interpretativo e spirituale. Ma in questo caos, in qualche misura già in atto, oggi si coglie soprattutto, nel nome del cristianesimo, un pensiero o almeno un pregiudizio antioccidentale che tende a narcotizzare la coscienza e il libero pensiero, anche sul piano religioso, dei popoli europei, imponendo il politicamente corretto, negando la stessa identità nazionale dei popoli europei, favorendo la continua riproduzione del caos come concreto orizzonte storico-esistenziale e provocando risposte euroidentitarie di tipo reazionario11. Tale pregiudizio è anche e precipuamente quello di papa Bergoglio, il cui spirito antioccidentale e il cui tentativo di deoccidentalizzazione e deeuropeizzazione della Chiesa cattolica emergono continuamente in numerosi ed essenziali atti del suo pontificato.
Beninteso, qui non si tratta di sorvolare sulle gravi responsabilità del capitalismo occidentale nei confronti di terzi e quarti mondi sottosviluppati, oppressi e sfruttati, su diffuse e persistenti forme di colonialismo che esso è venuto reiteratamente veicolando nei secoli e nel ‘900 in modo particolare, né di tacere sugli atteggiamenti prevaricatori e vessatori che, seppure in forme apparentemente più incruente, continua ad esercitare nei confronti di vaste e indifese comunità etniche del globo terrestre, né infine di minimizzare le responsabilità che ad esso si possono attribuire per quanto riguarda l’apparente processo di deterioramento climatico e ambientale in atto nel mondo, ma che tutto questo debba implicare necessariamente, quasi a voler delegittimare una storia cristiana e cattolica che sarebbe stata incapace di contrastare tutti questi guasti e l’affermarsi di uno sviluppo e di un progresso senza regole e senza rispetto per i soggetti più emarginati del pianeta, anche la critica e il ripudio di alcuni cardini della cristianità come di molti capisaldi della sua fede ultrasecolare, per rendere l’Occidente e la stessa Europa più ospitali verso forme pagane o neopagane di amore verso la natura o verso forme di religiosità tradizionalmente minacciose e ostili nei confronti del mondo cristiano, e più aperte ad una cultura in vero generica e ambigua dell’accoglienza e dell’integrazione, non sembra corrispondere ad un modo razionale, utile e produttivo di fare i conti
con il passato, con una storia di errori e di colpe, specie se questa storia sia quella di un intero continente e di una intera civiltà in cui luci e ombre, bene e male, meriti e demeriti in fondo, come generalmente accade, tendano a bilanciarsi o a compensarsi. E’ infatti possibile purificare, rinnovare un’identità personale, come quella di una nazione o di un’intera civiltà, senza per forza doversi autoflagellare, ma cercando di valorizzarne gli aspetti, le opere o le conquiste migliori e dando loro maggiore spazio nel tempo presente e in vista dei tempi futuri. Ma per Bergoglio, l’Occidente evoca solo decadenza e fallimento12.
Non c’è dubbio che l’Occidente cristiano non possa autoassolversi in modo indolore ma debba «chiedere perdono e sperare di riceverlo. Sarebbe giusto, per inciso, che lo facessero anche le altre culture che si reputano innocenti. In tutto l’occidente vengono abbattute le statue di uomini che si sono guadagnati un posto nella storia come conquistatori o colonizzatori. Si può prendere come esempio Tamerlano. Alla fine del XIV secolo, questo conquistatore di origine turco-mongola, che si autoproclamava “la spada dell’islam”, cercò di ricostruire l’impero di suo zio, Gengis Khan. Fece uccidere un numero di persone che, secondo gli storici, varia da un milione a diciassette milioni. Ora, si possono vedere tre statue di questo personaggio, alte da sei a sette metri, in varie città del suo paese, l’Uzbekistan: nel luogo di nascita di Tamerlano, nella capitale del suo potere e anche nella capitale odierna. E’ interessante notare che il governo dell’Uzbekistan ha fatto erigere queste statue recentemente per sostituire quelle di Lenin—un altro benefattore dell’umanità. Mentre le statue di Lenin diventano sempre più rare, nessuno menziona la possibilità di eliminare quelle di Tamerlano.
I successi dell’occidente, e in particolare la sua conquista del mondo, sembrano insopportabili perché si figurano come il prodotto del caso. Tuttavia, l’Europa è riuscita a uscire da se stessa, a scoprire gli altri continenti, a sottomettere e sfruttare i popoli che vi abitavano. Queste imprese hanno portato con sé crimini, come il rovescio di una medaglia. L’Europa ha potuto realizzare tutto ciò perché era più avanzata nel campo della scienza e della tecnica, soprattutto nella navigazione. E tutto questo progresso non era il risultato del caso, ma di un lavoro su sé stessa, di uno spirito di innovazione tecnica e di curiosità intellettuale. Questi fattori hanno reso possibile il decollo economico e demografico dell’Europa a partire dal XI secolo, di cui una delle conseguenze fu l’espansione oltremare dei paesi europei»13. Così il filosofo Rémi Brague, che non ritiene che l’Occidente europeo ed extraeuropeo, per rimediare ai suoi errori e crimini del passato, debba suicidarsi, rinunciando per sempre alla sua più nobile funzione civilizzatrice e alla sua pacifica egemonia culturale e religiosa nel mondo. Solo per un astio immotivato e per una preconcetta e incontrollata avversione verso la civiltà occidentale, si può pensare che la fede cristiana e cattolica debbano ormai tagliare i ponti con essa e con la sua stessa duplice modernità: scientifico-tecnologica e spirituale e religiosa, in quanto entrambe presuntivamente colpevoli di aver condannato alla miseria e ad una subalternità culturale e religiosa intere aree continentali del mondo. E viene piuttosto spontaneo pensare come papa Ratzinger, da alcuni considerato come “l’ultimo papa dell’occidente”, avesse previsto lucidamente sia il dominio del relativismo morale e religioso, sia il fanatismo e il terrorismo islamici, sia gli apocalittici ecologismi, sia soprattutto il collasso della Chiesa cattolica, il suo diventare ricettacolo di forme piuttosto rozze di populismo, la volontà stessa dell’Europa di separarsi dal cattolicesimo e il paradosso di un Occidente ancora materialmente forte ma sempre più debole culturalmente con annesso avvento di un’Europa post-europea14.
Se la fede deve essere pensata e vissuta come ponte privilegiato tra l’umano e il divino, appare molto dubbio che l’immagine oggi dominante della fede, e della Chiesa che la rappresenta nel mondo, sia realmente funzionale ad una umanità bisognosa di un contatto non epidermico ma profondo e intenso con Dio, non solo perché la sua valenza umanitaria (orizzontalismo umanitario) sembra soverchiare nettamente la sua valenza sacra e trascendente, ma anche perché l’umanitarismo che viene esprimendo non di rado è percepito come non poco dissimile dai significati originali conferiti ai valori umani dalle e nelle narrazioni evangeliche. Il vero problema sollevato dall’annuncio evangelico, infatti, non è se si è o non si è credenti, religiosi, cristiani, ma come e perché si sia o non si sia tali; non se si creda o non si creda in Dio ma in che modo e per quale ragione vi si creda o non vi si creda, non se si ama o non si ama il prossimo ma per quali ragioni non lo si ama e come e perché lo si ama. Va da sé che, se non sia chiaro cosa esattamente venga implicando l’amore verso Dio, altrettanto complicato, nella stessa comunità cristiana e cattolica, sarà intendersi su ciò che l’amore venga realmente implicando, in senso evangelico, verso l’uomo. Non si tratta, in altri termini, di preferire il mondo secolare alla trascendenza o viceversa, ma di stabilire se, pur immersi e attivamente impegnati nel mondo profano, la nostra vita sia radicalmente o solo tiepidamente orientata alla trascendenza15. Quanto più la spiritualità verticale del cristiano sarà difettosa o insufficiente, tanto più la sua spiritualità orizzontale risulterà carente, inefficace e inattendibile.
Ma tale immagine, oggi egemonicamente e tendenzialmente umanitaristica e immanentistica della fede, corrisponde alla diagnosi che veniva formulando, proprio all’inizio del secolo XXI, Charles Taylor: «Che posto occupa oggi la trascendenza nelle nostre società? Ce lo domandiamo perché abbiamo la sensazione, e non a torto, che la religione, anziché trovarsi al centro della società, com’è stato per tutto il corso della storia umana, venga spesso marginalizzata nell’Occidente moderno»16, sebbene, è da precisare, questo non significa che nel frattempo non si diano immagini della fede anche fortemente antagonistiche rispetto a quella sopra descritta e che l’immagine, di conio per così dire pontificio, sia destinata a marciare trionfalmente nel futuro dell’umanità. Bisogna anche precisare, tuttavia, che la fede di originaria matrice evangelica, pur in apparenza più prossima al tramonto sul piano spirituale, dispone oggi di forme e strumenti di difesa più incisivi o almeno altrettanto incisivi di quelli di cui possono usufruire le forze di una cultura, tanto sul fronte laico che religioso, antitradizionalista e in vario grado progressista.
Facendo, infatti, un passo indietro dal punto di vista storico, da una parte la moderna rivoluzione scientifica, dall’altra la modernizzazione della fede religiosa, sono venute sollecitando ispirati depositari dell’antico e originale corpus rivelato della Parola di Dio a trarne inedite indicazioni circa i modi in cui la fede in Cristo potesse declinarsi intellettualmente, moralmente e politicamente, nella storia diveniente degli uomini e con quali delle sue espressioni culturali più serie e veritiere potesse più convenientemente coniugarsi. In tal modo, si sarebbe riusciti a scongiurare il pericolo che la fede potesse collidere con le nuove e inattese scoperte della scienza moderna e che, soprattutto e di conseguenza, le eresie e le controversie teologiche potessero alla lunga intaccare la graniticità dottrinaria e teologica della fede evangelico-cristiana. Queste due istanze, compatibilità della fede con la scienza e necessario potenziamento dell’ortodossia cattolica, sarebbero venute sempre più strettamente saldandosi tra il ‘600 e il ‘900 condizionando in modo sostanzialmente positivo il processo evolutivo della teologia in generale e di quella cattolica in particolare, e della stessa mentalità religiosa, in relazione al parallelo sviluppo delle scienze umane e storiche, sociali, economiche e politiche, oltre che delle stesse scienze fisico-naturali. Ora, è questo l’odierno contesto storico-culturale in cui, se da un lato il sapere cattolico può disporre di un’ampia e articolata consapevolezza dei possibili rapporti intercorrenti tra l’universalità della fede e l’universalità della ragione scientifica, dall’altro anche l’unicità, la veridicità e l’autorevolezza della fede rivelata, possono essere difese, sul piano esegetico ed ermeneutico e critico-filosofico-teologico, più efficacemente di quanto non risultasse verosimilmente possibile in un passato ancora pre-moderno. Ma questo stesso contesto storico-culturale consente anche di esercitare un adeguato controllo critico tanto sulla legittimità di tutta una serie di istanze prodotte dal pensiero laico contemporaneo quanto sulla liceità di talune particolari esternazioni teologico-dottrinarie dell’odierno pontificato cattolico.
2. La fede nel contesto della modernità scientifica e religiosa: Francesco Bacone.
Il merito principale dell’emancipazione della cultura religiosa cristiana dal suo originario stato di subalternità al tradizionalismo teologico della Scolastica medievale e al principio di insindacabile autorità ecclesiastica, deve essere riconosciuto a sir Francis Bacon, cancelliere inglese del XVI-XVII secolo, e al suo grandioso ed enciclopedico programma di una radicale rifondazione critica e metodologica, su base scientifica, di tutti i comparti del sapere, anche se in questa stessa direzione non sono da trascurare le opere preparatorie di intellettuali medievali quali il suo omonimo frate Ruggero Bacone17, Adelardo di Bath, Roberto Grossatesta e Piero di Maricourt o, in parte, lo stesso Guglielmo di Conches, malgrado la possibile presenza nel suo pensiero di qualche elemento poi rimosso di eterodossia, e naturalmente, insieme a molti altri, giganti del pensiero filosofico medievale quali Duns Scoto e Guglielmo d’Occam18.
Ma, indubbiamente, è con Francesco Bacone che prende corpo una vera e propria modernizzazione del sapere scientifico e, insieme, dello stesso sapere religioso e teologico proprio in relazione a quest’ultimo. La scienza, in Bacone, assurge a principale via di glorificazione della sapienza e della potenza di Dio, mentre la fede, e la fede dell’antica anche se già riformata tradizione cristiana, è non già, come per troppo tempo la ricerca storica e storiografica su questo argomento avrebbe segnalato, impedimento al libero sviluppo del sapere scientifico, ma sua condizione e scopo. Bacone è il primo filosofo moderno che percepisce con lucidità e lungimiranza la compatibilità, e anzi la non separabilità, tra la causa scientifica e la causa religiosa. Bacone è certo un moderno nel senso che intuisce la grande forza emancipativa del sapere e del progresso scientifici, ma anche nel senso che non il mondo è al servizio della fede ma la fede, al pari della scienza, è al servizio del mondo. La fede, come la scienza, deve essere concepita in funzione del bene materiale e sociale, morale e spirituale del genere umano, e quindi in funzione di un vero e proprio attivismo etico e politico, non solo e non tanto in funzione di scopi meramente contemplativi e angustamente pietistici o caritativi. La fede deve accompagnare baconianamente lo sviluppo tecnico-scientifico affinché questo non venga trasformandosi in un’esaltazione apologetica della scienza in quanto tale ma resti sempre cosciente delle sue intrinseche finalità morali e sociali. Ed è allora in virtù della sua fede cristiana di matrice calvinista19 che Bacone sarebbe stato fautore di un ideale tecnocratico ma non del tecnopolio, vale a dire di una tecnocrazia che segnasse l’avvento o il trionfo di una tecnica e di una tecnologia industriale ancora funzionali alla trasformazione sociale e non di una tecnocrazia che, sancendo il dominio assoluto della tecnica ne determinasse al tempo stesso un irreversibile divorzio da ogni possibile finalità umana (tecnopolio, appunto)20. Perciò, è molto probabile che, se egli fosse vissuto nella capitalistica e disumana «gabbia d’acciaio» del primo novecento, non avrebbe esitato ad accogliere la critica husserliana della scienza e della tecnica21.
Beninteso, la modernità baconiana è una modernità storicamente embrionale e tuttavia tale da lasciare indicazioni già preziose e mature, nonché prospettive abbastanza inedite e feconde a coloro che, dopo Bacone, sarebbero venuti ulteriormente elaborando l’ideologia moderna, sia in direzione del valore universale e della centralità della scienza nel quadro della vita civile e culturale europea e occidentale, sia anche in direzione del valore e della funzione altrettanto universali della fede cristiana come insostituibile paradigma di spiritualità finalizzata ad un tempo alla valorizzazione delle straordinarie capacità umane di investigazione e di scoperta e ad una sempre più elevata glorificazione della sapienza, della potenza e dell’amore di Dio. Va precisato che Bacone non è un moderno nel senso generico del termine, nel senso in cui avrebbe potuto esserlo anche un intellettuale tipicamente medievale che, senza entrare in conflitto con gli antichi, «li imitano, si nutrono di essi, salgono sulle loro spalle»22, perché egli contribuisce a segnare il superamento storico-culturale della mentalità medievale, in cui la fede giocava ancora un ruolo tendenzialmente frenante piuttosto che incentivante e promozionale nei confronti della libera e autonoma ricerca scientifica e razionale. Al contrario, il Lord cancelliere, pur semplicemente intravedendo la figura del laico moderno senza mai completamente aderirvi, sarebbe stato un vero e proprio animatore della coscienza moderna. La modernità baconiana è stata descritta e caratterizzata con parole molto significative che prefigurano una delle possibili, paradigmatiche idee di modernità che sarebbero venute affermandosi, tra ‘700 e ‘900, nella storia della cultura occidentale: «Con la sua visione utilitaria del sapere, Bacone fu il principale architetto di un nuovo edificio di pensiero, da cui era bandita la rassegnazione e in cui a Dio spettava un posto speciale. Il nome di questo edificio fu progresso e potere … A leggerlo oggi, Bacone continua a sorprenderci per la sua modernità …», per aver concepito innanzitutto «l’organizzazione scientifica qual è oggi: strutturata, finanziariamente solida, pubblica, insomma l’arma migliore a disposizione dell’umanità nella lotta per migliorare costantemente le sue condizioni»23.
Ma, proprio per quel “posto speciale” riservato a Dio nel suo grandioso progetto teorico-culturale, non meno necessario è sottolineare che, contrariamente a quel che sarebbe accaduto nei secoli successivi al suo, Bacone non solo non avrebbe mai divinizzato né la scienza, né la tecnologia, ma si sarebbe anche preoccupato di neutralizzare due pericoli contrapposti ma ugualmente gravi, che avrebbero creato spesso abissi di incomprensione e incomunicabilità nel quadro del dibattito filosofico novecentesco e postnovecentesco: da una parte, la teologia come scienza, dall’altra la scienza come teologia. In ogni caso, il pensiero baconiano non si capisce al di fuori di una metafisica religiosa secondo cui l’avvento della scienza e della tecnica non solo non prepara l’eclisse e la morte di Dio ma è di fondamentale importanza per il risveglio di una fede religiosa agonizzante e per il rilancio di una religiosità che sia apportatrice di luce e di opere. In questo senso, se la scienza può essere considerato come un fondamentale strumento emancipativo nel contesto di una più decisiva salvezza biblico-evangelica, resta ben fermo il convincimento baconiano che la scienza senza la fede non potrà che convertirsi in idolatria scientifica o scientista e, come tale, non potrà che risultare costantemente soggetta al rischio di produrre immani disastri teorico-pratici. La scienza non si pone, pertanto, come una valida alternativa di salvezza rispetto alla salvezza religiosa e cristiana, anche se una fede non preconcetta né superstiziosa, una fede genuina e alimentata da una spiritualità non chiusa abitudinariamente in se stessa ma dinamica e aperta alle sollecitazioni dello Spirito divino, impone di credere nella salutare razionalità della scienza come nella più valida forma di ricerca che possa consentire all’uomo di sperare che, nonostante il proliferare di pratiche sempre più irreligiose di vita, «l’esperienza del sacro» possa «ricominciare sotto altri cieli e in altri mondi»24.
Bacone è un razionalista empirico che «non crede nell’assoluto della ragione», ma è anche un uomo religioso che viene sistematicamente sospinto e ricondotto «verso la ragione» dall’«impegno totale che è proprio della fede»: «nel senso che è costretto a rifiutare ogni ordine provvidenziale» e «ogni metastoria»25 che siano stati già scritti senza la partecipe e fattiva collaborazione degli uomini. Egli esprime così l’ambiguità radicale del pensiero moderno, facendone un possibile punto di forza della civiltà occidentale: la fede avrebbe dovuto garantire l’inseparabilità del progresso scientifico e materiale da quello intellettuale e morale dell’umanità26, mentre la ragione avrebbe dovuto preservare il senso problematico della vita, senza rinunciare alla forza salvifica della fede. In questo modo, il Dio baconiano, benché preconizzi il Dio moderno «della conoscenza pragmatica e della forza» trasformatrice, non viene risolvendosi nel «Dio dell’ateismo integrale»27. La modernità scientifica baconiana è certamente aperta ad istanze tipicamente laiche del sapere —autonomia di giudizio, indipendenza di pensiero e di coscienza da qualsivoglia principio di autorità confessionale — ma non nell’abusato significato di ateo o anticlericale oggi conferito al termine laico, bensí solo nell’accezione originaria del termine laicità, secondo cui laico era ed è semplicemente un credente, un soggetto dotato di fede religiosa ma non ordinato alla vita e al ministero sacerdotali e non appartenente ad un determinato ordine religioso: in questo senso, nei primi secoli di cristianesimo, furono laici molti cristiani militanti anche se non tutti impegnati in attività strettamente ecclesiastiche di natura istituzionale, liturgico-sacramentale, teologica e pastorale.
E, infatti, il Dio baconiano è ancora rigorosamente, anche se reinterpretato, il Dio della tradizione biblica, e resta ben evidente che il motivo di fondo della riflessione baconiana sia quello biblico-religioso: alle leggi della natura bisogna obbedire nel quadro dell’obbedienza religiosa alle leggi di Dio, il mondo deve essere trasformato in quanto deve essere redento attraverso la fatica del lavoro (Gn, 3, 17-19). Questo non toglie che Bacone non fosse consapevole della necessità di procedere ad una modernizzazione della stessa fede religiosa, per renderla meno ingenua e più matura: che è quello che egli avrebbe fatto attraverso la celebre teoria degli idōla, che è una teoria dello smascheramento di tutte le false rappresentazioni della realtà e del sapere. Bacone prende implicitamente di mira anche le false rappresentazioni della fede e della religione e propone innovativamente un «commercio della mente con le cose» non prima di aver pensato ad un significativo rinnovamento religioso realmente incentrato su un commercio della fede con le cose. Si può aggiungere che questa stessa teoria ha probabilmente un’origine religiosa e calvinista, presentandosi abbastanza ricettiva di alcune caratteristiche istanze antidolatriche contenute nella dottrina di Giovanni Calvino, quali sono quelle relative al divieto di partecipare agli spettacoli teatrali, ritenuti immondi e fuorvianti, e alla critica di rappresentazioni inavvertitamente o sottilmente antropomorfiche e/o soggettivistiche della verità e della divinità, come nel caso della questione dei sacramenti o della critica antipapista, anche se evidentemente il concetto di idolatria e antidolatria può avere interpretazioni e implicazioni diverse da quelle che ne avrebbero dato Bacone o Calvino28, anche perché tanto il primo quanto il secondo, avrebbero finito per legittimare, nel nome della fede, quella forma altamente idolatrica di progresso che avrebbe coinciso con lo sviluppo del capitalismo occidentale, sebbene una delle loro preoccupazioni potesse essere quella di evitare che il capitalismo potesse rovinosamente collidere con il cristianesimo29.
Bacone, sulla scia del riformatore ginevrino, avrebbe pensato a uno sviluppo rigoglioso ma moderato, illimitato ma equilibrato della logica economica capitalistica, condividendone tuttavia anche il rigido efficientismo sociale e produttivo: il che, sia nella comunità scientifica baconiana non meno che in quella religiosa calvinista, non poteva che produrre laceranti discriminazioni e scissioni sociali, pur nel perseguimento di generici e indifferenziati scopi di emancipazione economica meramente basata sulla postulazione di un’integrale emancipazione di uomini e popoli. In ogni caso, nel bene e nel male Bacone resta oggi un pensatore attuale. La stessa Chiesa cattolica non avrebbe potuto esimersi dal raccoglierne la sfida di una moderna rifondazione del rapporto tra la fede e l’economia, cercando di integrare gradualmente il messaggio soteriologico dell’annuncio evangelico con la moderna categoria dell’utile. Può darsi che essa, nel tentativo di assecondare evangelicamente gli apparenti processi emancipativi della modernità, abbia finito per rendere eccessiva la sua secolarizzazione e per favorire inopinatamente molteplici e corpose forme di desacralizzazione, fino a rischiare di vanificare la sua tradizionale «grazia dell’ambivalenza, cioè quella di essere società di quaggiù e insieme dell’aldilà»30. In parte, anche la prospettiva religiosa baconiana punta su una significativa mondanizzazione della fede, ma questa apertura muove da una diversa esigenza e dalla segreta speranza di poter difendere o proteggere la chiesa universale di Dio dalla forza invasiva e corruttiva dei «valori» e degli «schemi mentali» propri di una cultura e di una società laicamente troppo aggressive.
Bacone è consapevole del pericolo della desacralizzazione ma anche della necessità che la chiesa militante, ormai auspicabilmente pronta a rinunciare alle secolari e arroganti pretese teologiche della fede o piuttosto del potere ecclesiastico31, continui la sua solerte opera di vigilanza e di evangelizzazione, pur tra molteplici contraddizioni, in un mondo resosi adulto e destinato ormai a vivere, come avrebbe detto Dietrich Bonhoeffer, etsi Deus non daretur. Un aspetto forse non abbastanza sottolineato del pensiero scientifico e religioso baconiano è che in esso la fede, la fede non la teologia, è la ragione forte che induce l’uomo a non curarsi troppo dei «sistemi» e a cercare invece nelle opere della sua debole ma tenace ragione la condizione primaria della sua redimibilità. L’uomo è, religiosamente, creatura prediletta di Dio e dunque, indipendentemente da ogni riferimento ad oggettivi parametri astronomico-scientifici, centro del mondo, ma di un mondo che gli è ostile e minaccia la sua centralità. Nel nome della fede l’uomo può ascendere ed è chiamato ad ascendere al regnum Dei attraverso la sofferta e costosa costruzione di un imperfetto ma razionale regnum hominis. Non vi è dunque nulla di più sbagliato che vedere in Bacone, come ancora facciamo noi cattolici, il padre di una modernità colpevole di aver fatto sí che «la speranza biblica del regno di Dio» fosse «rimpiazzata dalla speranza del regno dell’uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero “regno di Dio”. Questa sembrava finalmente la speranza grande e realistica, di cui l’uomo ha bisogno»32. La verità è che qui la fede è salvifica non contro la scienza ma nella scienza e attraverso la scienza, qui Dio si ama non in quanto ne venga postulata l’esistenza, ma in quanto Egli muove l’uomo ad esistere, ad ex-sistere, ovvero a vivere ponendosi, con la libertà del suo ingegno e la concretezza delle sue opere, al di fuori di ogni mortificante fatalismo teologico e di ogni schematico e precostituito disegno escatologico. La fede pertanto non si piega umiliata dinanzi all’incedere maestoso della ragione scientifica, ma auspica il ritorno alle origini e attende trepidamente l’inizio della riconquista etico-conoscitiva dell’Eden perduto (riconquista che rimane tra le mete dell’escatologia cristiana). La fede prende semplicemente congedo dal sacro e dalla metafisica teologica, che si limitano a parlare di Dio, per accogliere incondizionatamente il Dio della religione biblico-evangelica la quale consente piuttosto di parlare con Dio.
Ma l’attualità, se si vuole profondamente inattuale in questo caso, di Francesco Bacone è da ravvisare anche nella sua esplicita convinzione che la fede, non meno della scienza, non possa relegarsi nella sfera privata o personale ma debba assolvere una precisa funzione sociale, dal momento che una società atea sarebbe destinata a disgregarsi: ed è il caso di sottolineare come per lui «quegli ingegni che sono più inclini all’ateismo sono per lo più leggeri, maldicenti, piuttosto arditi e arroganti; cioè sono fatti nel modo più avverso alla saggezza e alla severità dei costumi», e come anche quei politici che fanno pubblica professione di ateismo altro non sono che «politici inetti e ciarlatani, incapaci di grandi azioni»33. Va anche osservato che, secondo l’osservazione di Giulio Preti34. Bacone, anticipando Adam Smith, avrebbe voluto vincolare lo sviluppo storico della civiltà moderna ad un’etica senza teologia, ma, contrariamente al grande economista inglese e in aggiunta all’osservazione pretiana, avrebbe sempre sostenuto che la civiltà moderna non potesse trarre giovamento da un’etica senza fede. Di tutto ciò, credo, il miglior pensiero cattolico non può non tener conto e non può non avvalersi proficuamente. Ma non si può non ricordare, infine, che, lungi dall’essere stato l’alfiere di una laicità ormai tendenzialmente chiusa alle tradizionali ragioni della fede, il buccinator della modernità scientifica e religiosa, con accenti che oserei dire pascaliani che sarebbero stati volutamente ignorati dagli avversari del “sublime misantropo”, avrebbe cosí consegnato alla posterità il vero significato della sua opera: «vogliamo ammonire tutti gli uomini del mondo a riflettere sulle vere finalità del sapere, che non stanno nella soddisfazione del desiderio interiore, né nello sfoggio di spirito polemico, né nel disprezzare gli altri o nel trarre lucro, comodi, gloria, potenza, e altri vantaggi meschini; ma nel bene e nella utilità della vita stessa. La scienza deve essere perfezionata e coltivata in spirito di carità. Per l’ambizione del potere caddero gli angeli, per l’ambizione del sapere gli uomini, ma non si può eccedere nello spirito di carità; né l’angelo, né l’uomo poté mai cadere in pericolo per averla seguita»35.
3. L’immagine della fede nella filosofia dei lumi
Come in Bacone anche in Jean Jacques Rousseau si ritrova il concetto che a nulla vale la scienza se essa è dissociata dalla “carità”, da quella che il pensatore francese chiama “vertu”, e che il sapere e la scienza in tanto adempiono la loro vera funzione in quanto non si pongano al di fuori di un preciso ordine di valori morali e spirituali, ma da esso traggano la loro stessa ragion d’essere36. Questa convergenza, per quanto probabilmente limitata al tema del nesso tra sapere scientifico e carità o virtù, non deve sorprendere, dal momento che i due filosofi si muovono in ottiche religiose che hanno la stessa radice protestante. Quel che spesso è stato detto del pensiero baconiano, e cioè che in esso è possibile individuare lo schema escatologico paradiso terrestre-caduta-riscatto, vale anche per Rousseau, il quale avrebbe certamente sottoscritto il seguente brano baconiano: «Vogliamo rassicurare chi si preoccupa della depravazione delle arti e delle scienze, che si fanno strumento di malvagità e di lussuria. Chè la medesima cosa si può dire di tutti i beni del mondo, dell’ingegno, del coraggio, della forza, della bellezza, della ricchezza, della luce stessa e così via. Lasciamo solamente che l’umanità recuperi i suoi diritti sulla natura, diritti che le competono per dotazione divina; si renda insomma all’uomo la sua potenza; e allora la retta ragione e la sana religione gli insegneranno a fare buon uso di quella potenza»37.
Ma più in generale, la concezione sperimentalistico-tecnologica baconiana, pur fatta propria dagli enciclopedisti francesi del ‘700, avrebbe trovato presso essi una utilizzazione etico-sociale particolarmente accentuata ma del tutto scissa dall’originario contesto religioso in cui era stata concepita dal Lord Cancelliere inglese. Si pensi al philosophe per antonomasia e al più baconiano di tutti i philosophes, ovvero Denis Diderot, la cui Intérprétation de la nature, nata in margine ai primi volumi dell’Encyclopédie, è opera in cui manca qualunque riferimento a presupposti o princìpi di ordine metafisico e religioso pur essendo di indiscutibile ispirazione baconiana. La visione religiosa della scienza, che Bacone aveva proposto, sia in Diderot sia in quasi tutti gli uomini del ‘700 illuministico sarebbe stata totalmente laicizzata e anzi deliberatamente utilizzata in funzione antireligiosa, antiecclesiastica e anticristiana. Com’è noto, sin dai suoi primi scritti Diderot viene presentandosi come acerrimo nemico della religione cristiana e, ancor più accesamente, di quella cattolica, nonché come fautore di un violento anticlericalismo che lo avrebbe esposto ai rigori della censura e del carcere. Per Diderot, non esisteva «morale più antisociale» di quella religiosa e i preti si arrogavano il diritto di dettare agli uomini le regole del loro comportamento assicurandosi in nome del cielo il dominio sulla loro coscienza e sulle loro fortune. D’altra parte, egli pensava, la morale religiosa non può avere carattere di universalità perché ogni credo religioso venera divinità diverse38. Particolarmente aspra sarebbe stata la polemica diderotiana, condivisa generalmente da tutti gli altri illuministi, contro i gesuiti, rei, a suo giudizio, di aver ridotto gli indios sudamericani in schiavitù costringendoli a lavorare nei campi per assicurare il benessere dei padroni.
Contrariamente a quel che aveva pensato Bacone, non la religione ma solo la politica, per lui, aveva il compito di regolamentare i rapporti tra gli uomini secondo il codice naturale, il cui compito principale è quello di indirizzarli verso il benessere generale, limitando le spinte individualiste e assicurando la felicità per il maggior numero di persone. Ancor più che la religione o la fede pura e semplice, Diderot, tuttavia, in ciò riavvicinandosi a Bacone, riteneva che fossero la teologia e i preti ad essere tenuti «nel disprezzo e .. nella mediocrità»39. Non che l’analisi e l’interpretazione diderotiane delle nefaste implicazioni sociali e culturali di un uso arbitrario o scorretto della religione, non fossero da ritenere, per certi aspetti, fondate e legittime40, ma Diderot pensava che la religione in quanto tale fosse inevitabilmente fonte di prevaricazioni e abusi di ogni genere nei confronti della libertà di giudizio e di scelta di ogni individuo, donde il completo disconoscimento di quella funzione civile e sociale ad essa invece riconosciuta da Bacone, tanto da sentirsi indotto a proporre la sostituzione, nelle scuole pubbliche, del catechismo religioso con un catechismo civile. Ma l’ateismo diderotiano è l’effetto di un razionalismo fortemente critico, antidogmatico e quindi contrario ad ogni “spirito di sistema” che non va confuso con lo “spirito sistematico” che caratterizza invece la ricerca illuminista, e di un razionalismo infine problematico e problematico nel senso che pone problemi, domande, dubbi, piuttosto che fornire risposte e soluzioni definitive e assolute non solo sul piano specificamente scientifico su cui al più propone ipotesi o interpretazioni pur sempre soggettive, ma anche sul piano morale, politico e religioso, e sul piano della più intima esperienza personale.
Tutto questo, tuttavia, è solo apparentemente in contrasto con il fatto che la personalità diderotiana fu alquanto curiosa e inquieta, instabile e contraddittoria pur in una ricchezza di ricerche, di spunti e riflessioni veramente originali e stimolanti. Come ha scritto Manlio Duilio Busnelli, «di volta in volta, i più disparati contrasti della sua sensibilità si rispecchiarono anche nelle sue idee. Il cinico bestemmiatore del cristianesimo si commoveva sino alle lacrime assistendo alle cerimonie del Corpus Domini; l’impudico autore dei Bijoux indiscrets s’improvvisava paladino della virtù; l’araldo della rivoluzione inneggiava all’autocrate Caterina di Russia, e, in un commento al Beccaria, si dichiarava contrario oltreché all’abolizione della pena di morte, anche all’integrale soppressione della tortura. Ma frammezzo a tante contraddizioni, circola nelle sue opere un’inesauribile dovizia d’idee geniali e feconde. … Filosofo per antonomasia lo chiamavano i contemporanei; e in realtà il Diderot rimane uno dei più tipici interpreti della coscienza del tempo. Abbandonate le vie tradizionali della fede, egli tese ogni sforzo dell’intelletto a spiegare la natura senza Dio, prendendo la ragione per guida infallibile»41. Ma la contraddittorietà e l’inquietudine della personalità diderotiana si sarebbe manifestata anche al di là di questa pur significativa descrizione e in termini ancor più sorprendenti, nel senso che, se in quella che viene considerata generalmente come la sua principale opera scientifica, ovvero L’interpretazione della natura (1753/54), viene abbozzando una embrionale visione evoluzionistica che si sarebbe posta quale premessa del lavoro svolto successivamente da Lamarck prima e da Darwin poi, i veri teorici (soprattutto il secondo) dell’evoluzione, è altresì vero che proprio dall’opera appena citata, e dai suoi fogli di guardia su cui era pubblicato il manoscritto autografo impropriamente intitolato La Prière du sceptique, non emerge un pensiero filosofico ateistico ma un pensiero moderatamente agnostico o, se si vuole, come qualcuno ha scritto, un pensiero ateo problematico, nel senso che vi si scorge non tanto una scepsi radicale su una questione metafisica e teologica quale l’esistenza di Dio quanto piuttosto una velata nostalgia del trascendente, del sovrannaturale, del divino: «O Dio, non so se esisti, ma penserò come se tu vedessi nella mia anima e agirò come se fossi davanti a te. Se talvolta ho peccato contro la mia ragione o la tua legge, non sarò molto soddisfatto della mia vita passata ma non sarò meno tranquillo per la mia sorte futura, perché tu hai dimenticato la mia colpa nel momento stesso in cui l’ho riconosciuta. Io non ti chiedo niente in questo mondo perché il corso delle cose è necessario in se stesso se tu non ci sei oppure per tuo decreto se esisti. Spero nelle tue ricompense nell’altro mondo se c’è, anche se quel che faccio in questo io lo faccio per me stesso. Se sono buono, è senza sforzo; se non faccio del male, è senza pensare a te … Non potrei fare a meno di amare la verità e la virtù, e di odiare la menzogna e il vizio, anche se sapessi che tu non esisti o se invece credessi che tu esisti e te ne senta offeso. Ecco come sono io, parte necessariamente organizzata di una materia eterna e necessaria, o, forse, tua creatura. Ma se sono altruista e buono, che cosa importa ai miei simili che questo avvenga per un puro caso, per atti liberi della mia volontà o per il soccorso della tua grazia? E ogni volta, [giovane], che tu reciterai questo simbolo della nostra filosofia, leggi anche quanto segue: solo l’uomo onesto può essere ateo. Il malvagio che nega l’esistenza di Dio è giudice e parte: è un uomo che ha paura e che sa che deve temere un futuro vendicatore delle azioni malvage che ha commesso. L’uomo buono, al contrario, che vorrebbe tanto vantarsi di un rimuneratore futuro delle sue virtù, lotta contro il suo interesse personale»42.
In senso rigorosamente cristiano, è naturalmente una preghiera che lascia molto a desiderare. Ma, nonostante il tono assertorio con cui il filosofo francese tende a ribadire la serenità della propria coscienza in fatto di morale, quel che qui emerge non è l’orgoglio del razionalista ma piuttosto la sua umiltà, per quanto forse inconscia, ovvero la sua capacità di dubitare di una pretesa autosufficienza dell’umana razionalità e di riconoscere che, se “il dubbio è il primo passo verso la verità”, è tuttavia improbabile che quest’ultima possa esaurirsi in un procedimento critico-metodologico di tipo dubitativo: se da un punto di vista razionale la verità non può essere assoluta e definitiva, non si può d’altra parte pretendere razionalmente che l’ultima parola di ogni verità storico-umana sia un assoluto ed incontrovertibile relativismo conoscitivo e morale o religioso. Quel che sembra potersi dedurre è soprattutto il fatto che, per Diderot, e sia pure per il Diderot intimo e privato piuttosto che per quello pubblico o ufficiale, la partita tra ragione e fede, tra sapere scientifico e sentimento religioso, non solo non possa essere ritenuta impossibile ma risulti persino inevitabile e vantaggiosa per l’uno e l’altro termine. Il che, sia pure conflittualmente, non avrebbe tuttavia impedito al philosophe — è ciò che deve essere ben ribadito — di condurre un’aspra battaglia polemica contro il cristianesimo storico, teologico ed istituzionale, contro i suoi dogmi e la sua morale, benché poi, per quanto formalmente trasgressivo e libertino, egli assumesse spesso un atteggiamento morale piuttosto rigoroso che lo avrebbe indotto a nutrire per esempio una profonda antipatia umana per un uomo e un filosofo come La Mettrie, non solo a causa del suo meccanicismo, per niente condiviso dal pur materialista Diderot, ma anche per il suo viscerale immoralismo.
Non potrà mai essere messa in discussione la razionalità laica e antidogmatica di Diderot, ma bisognerà forse riconoscere che essa è meno univoca e più tormentata e conflittuale di quanto non appaia nella letteratura critica diderotiana, perché, per quanto marcata e talvolta eccessiva sia la sua avversione cattolica ed anticlericale, certe espressioni usate dal philosophe nella composizione religiosa sopra citata, seppure non ancora rispondenti al grado di sincerità richiesto dalla preghiera cristiana, sembrano così spiritualmente ispirate e così poco riconducibili ad una fredda matrice deista, da indurre a ritenere che essa non costituisca un fatto episodico o occasionale nella sua vita più intima quanto piuttosto il venire esplosivamente alla luce di un nascosto e rimosso ma persistente e radicato sentimento religioso. Da una parte, in Diderot si leggono giudizi tremendi, anche se non completamente inattendibili dal punto di vista storico, come il seguente: «L’interesse ha generato i preti, i preti hanno generato i pregiudizi, i pregiudizi hanno generato le guerre, e le guerre dureranno finché ci saranno pregiudizi, i pregiudizi finché ci saranno i preti, e i preti finché ci sarà interesse a essere tali»43. Ed è anche vero che alla voce “Filosofo” dell’Encyclopédie, egli viene contrapponendo polemicamente, sebbene dogmaticamente, la grazia divina alla ragione umana, quasi che tra l’una e l’altra debba sussistere necessariamente un rapporto di incompatibilità: «la grazia determina il cristiano ad agire, la ragione determina il filosofo». Dall’altra, però, Diderot sente il bisogno spirituale di rivolgersi a Dio, per quanto nebulosamente se ne possa percepire la presenza, e ad un Dio di misericordia che perdona coloro che riconoscono le proprie colpe e se ne pentono (“tu hai dimenticato la mia colpa nel momento stesso in cui l’ho riconosciuta”), e questo rapporto tra la persona orante e il Dio invocato è tipico quanto meno di un credo religioso teistico e non deistico e quindi di un credo religioso opposto sia all’ateismo che all’agnosticismo, nonché diverso dal panteismo in quanto il divino non viene identificandosi con il mondo ma è sempre altro dal mondo esistente.
Che il capo del partito dei philosophes settecenteschi sia stato fautore e anticipatore di una laicità completamente chiusa, sul piano critico-filosofico, ad un senso trascendente del mondo e della vita, è ormai giudizio quanto meno suscettibile di profonda revisione e giudizioso approfondimento, e continuare a fare di Diderot un sicuro e intrepido campione dell’ateismo moderno e postmoderno significherebbe condannarsi forse a propagare un luogo comune per troppo tempo accettato come conclamata verità. Per quanto il filosofo francese colga bene la funzione mistificatrice che la Chiesa cattolica, il cristianesimo istituzionale, e certe forme di predicazione evangelica, sarebbero venuti talvolta assolvendo storicamente, non c’è suo scritto in cui la verità del vangelo, e del vangelo nella sua forma o nella sua scrittura originaria, venga minimamente messa in discussione. Nelle “Memorie per servire alla storia del giacobinismo scritte dall’abate Barruel” (1799)44, si legge a un certo punto che «malgrado lo zelo anticristiano, ardente, e sempre enfatico di Diderot … egli non aveva meno dei momenti di una sincera ammirazione per il vangelo. Ne citerò ciò che ho inteso raccontare dall’Accademico che ne fu testimonio. Il signor Bauzée entra un giorno in casa di Diderot, e lo trova che spiegava a sua figlia un capitolo del vangelo con tanta serietà, ed interesse, con quanto avrebbe potuto farlo un padre veramente cristiano. Il signor Bauzée se ne mostra sorpreso. Vedo, risponde Diderot, quel che volete dire, ma infine quali migliori lezioni potrei io darle, dove troverò io di meglio?».
Si può ben capire che l’idea di un Diderot sia pure segretamente sensibile alla spiritualità evangelica potrebbe mandare in frantumi l’interpretazione canonica, ancora ben custodita dalla storiografia ufficiale, di un Diderot critico radicale del cristianesimo, ma in realtà, se c’è un Diderot ufficiale che si erge ad audace e spregiudicato paladino dei diritti di un pensiero non più “minorato” ma capace di vedere e giudicare la realtà e i tanti ambiti conoscitivi del sapere senza le lenti spesso deformanti e fuorvianti della tradizione teologica ed ecclesiastica, c’è anche un Diderot che coesiste con il primo e che viene esprimendo, a tratti ma non occasionalmente, il profondo disagio spirituale di un grande e originale artista della razionalità umana dinanzi alla domanda primaria di ogni seria indagine speculativa sul mondo, dinanzi alla domanda delle domande circa la ricerca del valore e del senso (o non senso) di ogni consapevole e responsabile itinerario esistenziale: la presenza o l’assenza nella vita degli uomini di un Dio misericordioso e giusto pronto a perdonare le sue creature e a ricompensarle per i loro meriti o a punirle per le loro colpe mai rimosse. Non bisogna peraltro dimenticare che, come ricorda lui stesso, nel 1741, a ventotto anni d’età, a Parigi Diderot stava «per prendere la “fourrure” [l’abito ecclesiastico] e assidermi tra i dottori della Sorbona, ma poi ho incontrato una donna bella come un angelo e desiderai di andare a letto con lei»45. Dunque, in quel caso la carne aveva vinto sullo spirito (e in tanti altri casi la carne avrebbe continuato a dettar legge), ma evidentemente della sua formazione religiosa Diderot non si sarebbe mai completamente sbarazzato e lo avrebbe anzi costretto persino nella maturità a porsi il problema della trascendenza, del sovrannaturale, del divino. Si può quindi affermare che quella emergente dal pensiero diderotiano non sia un’immagine univocamente negativa e mistificante della fede, ma un’immagine problematica e comprensiva delle perplessità e dei dubbi che anche oggi, non infrequentemente, agiscono non solo nella coscienza laica di molti non credenti ma anche e persino nella coscienza religiosa di molti laici credenti.
Peraltro, che l’implicita seppur contrastata propensione diderotiana a credere in un Dio personale e provvidenziale non sia da ritenere epidermica o marginale rispetto al suo pur intenso e voluminoso impegno filosofico-scientifico è anche dimostrata dai non infrequenti richiami a Dio, all’Eterno, all’Onnipotente o al Creatore in un libro assolutamente centrale nella produzione filosofica e scientifica di Diderot quale la già citata Interpretazione della natura (si vedano i paragrafi 6, 50, 51, 56, e 58), cui la “preghiera” è allegata. Nonostante le contrarie apparenze, l’ateo Diderot fu meno ateo di quanto generalmente si pensi e il senso del divino lo accompagnò per tutta la vita, pur continuando a lavorare alacremente ad un progetto di razionalità critico-scientifica non supinamente predisposta a farsi pilotare da valutazioni teologiche e metafisiche. Ha scritto uno studioso di Diderot: «Diderot è consapevole di quanto la credenza nella “garanzia” divina sia, tutto sommato, un privilegio esistenziale di cui nessuna razionalità può indurre a privarsi. Non solo, vi è nel Nostro la convinzione, che non di irreligiosi abbia bisogno il mondo per migliorarsi, ma di persone rette e buone, poiché questo è il fine da perseguire. Se vi sono persone che si comportano in maniera positiva seguendo la religione, non c’è nessun buon motivo di censurare la loro fede, anzi (come si vede con la marescialla) meritano anche encomio. Posizione che ad alcuni è parsa contraddittoria; non è così. La ragione problematizzante, tollerante e pragmatica, di Diderot non può che tenersi lontana da ogni dogmatismo che si scagli acriticamente contro la religione per partito preso, senza fare quindi distinzioni tra una realtà che vede persone spinte al bene dalla religione ed altre, invece, al male»46. Che è un’utile avvertenza per coloro che, nel nome degli ideali illuministici, conducono ipocrite quanto insensate crociate contro ogni forma di fede nel divino e nei suoi piani salvifici.
Dopotutto, dopo secoli di intenso progresso scientifico, su Dio non sappiano nulla di epistemicamente certo e incontrovertibile tranne che per fede, che non è il contrario o l’opposto della conoscenza scientifica e della conoscenza tout court ma solo una forma di conoscenza alternativa a tutte le forme date di razionalità e di conoscenza razionale, perché, come è stato scritto, «ci sono cose che sappiamo, e la scienza ci ha davvero fornito grandi verità. Ma ignoriamo che cosa abbia causato il Big Bang. Non sappiamo come le molecole della vita siano scaturite la prima volta sulla superficie del nostro pianeta. Ignoriamo come siano emerse le cellule più avanzate della vita, ingredienti necessari per l’evoluzione di organismi complessi come noi. E non conosciamo le origini dell’intelligenza, dell’autocoscienza, del pensiero simbolico e della nostra consapevolezza. Manchiamo della conoscenza di base per i più importanti e più resistenti misteri della creazione. E anche se potessimo in qualche modo ottenere tutta la conoscenza sull’universo, probabilmente non potremmo andare oltre – scrutare dietro le strutture che la scienza rivela, in modo da poter capire come l’universo è stato “fatto”. Questi limiti intrinseci nella natura stessa della scienza, anzi, della conoscenza, rendono improbabile che riusciremo mai a risolvere lo stesso problema di Dio. In ogni caso, non lo abbiamo ancora risolto. E pur con tutta la forza, la complessità e la profondità della scienza di oggi, non siamo in grado di respingere scientificamente l’ipotesi di una qualche forma di creazione dall’esterno»47.
Ma non c’è dubbio che se, alla luce di quanto si è venuto dicendo, quello di Diderot fu un radicalismo filosofico acceso ma ancora temperato, come lo sarebbe stato anche quello di illuministi quali D’Alembert, Voltaire e Rousseau, ben più aggressiva e caustica sarebbe stata la polemica antireligiosa e antistituzionale di autori come Helvétius o Holbach, La Mettrie o Condillac, grazie ai quali soprattutto sarebbe venuta affermandosi una stagione spirituale di marcato laicismo e per nulla indulgente o sufficientemente pensosa verso le molteplici forme dell’ideologia religiosa tradizionale. Il trascendente, la giustizia divina, la pietas cristiana, sarebbero state nozioni religiose e teologiche ormai rifiutate dall’intellettuale borghese del XVIII secolo, perché questi si sarebbe gradualmente convinto delle caratteristiche e delle finalità esclusivamente mondane o immanenti del profitto e del relativo uso cui un limite potrebbe venire proprio da una fede religiosa che, pur non vietando stati di agiatezza, raccomanda di mortificare brame di possesso e di non godere se non della gioia che si arreca a Dio nell’adempimento della sua volontà. Il philosophe, senza troppo preoccuparsi di affermare o negare Dio, avrebbe puntato le sue intenzioni borghesi su una totale ed efficiente razionalizzazione delle risorse naturali per puri fini di arricchimento e di piacere materiale ed esistenziale48.
La filosofia dei lumi avrebbe di certo apportato novità sostanziali nella storia degli uomini, ma non sarebbe andata al di là dei confini di una solidarietà filantropica ben calcolata e di una giustizia meramente formale. E sarebbe accaduto, in sostanza, che «l’impulso utilitaristico» originariamente «legato all’etica protestante e alla rivoluzione industriale, che avevano trovato insieme il loro primo ideologo in Francesco Bacone49, si traducesse »in ideologia consapevole, e consapevolmente» entrasse in conflitto con l’etica dell’al di là legata allo Stato aristocratico»50. Quando Bacone aveva portato i suoi aspri attacchi ai teologi oscurantisti, colpevoli a suo parere di rallentare o impedire il progresso della scienza e della tecnica, aveva ritenuto l’«etica dell’al di là» ancora perfettamente compatibile con la costruzione di uno Stato non aristocratico ed economicamente e spiritualmente evoluto. Animo rigorosamente religioso, aveva rimproverato all’uomo di essersi allontanato da Dio e dai suoi imperscrutabili decreti51, ed era certo di aver colto il senso finale di una prospettiva di vita nella quale lo specchio politico risultasse inglobato in quello divino, «in cui dobbiamo guardarci». Ma, da questo punto di vista, Bacone non avrebbe ottenuto né il riconoscimento né il favore degli enciclopedisti francesi e, attraverso essi, di gran parte della filosofia e della cultura moderne e contemporanee.
4. L’immagine illuminista della fede cristiana.
L’illuminismo francese del ‘700 avrebbe esercitato la sua innovativa influenza su intere aree della società e della cultura europee, tra cui la ricerca scientifica e i programmi scolastico-educativi, le elaborazioni di teoria politica ed economica con particolare riferimento a modelli di vita socio-istituzionale, gli studi letterari sociologici e giuridici, la rivisitazione critica dei tradizionali approcci alla vita religiosa e di ormai vetuste categorie teologiche, sono tutti settori che sarebbero stati interessati e coinvolti concentricamente da un profondo spirito di rinnovamento interdisciplinare, in virtù del quale sarebbe risultato possibile riesaminare antichi concetti e valori di vita morale quali libertà, tolleranza, solidarietà, diritto alla felicità, cosmopolitismo, congiuntamente alla messa a punto di nuove e significative nozioni quali quelle di divulgazione, utilità, progresso, emancipazione. Ma l’illuminismo avrebbe inciso anche sulla storia delle Chiese cristiane europee e occidentali sollecitando al loro interno profonde e inedite riflessioni di carattere teologico e pastorale che avrebbero avuto anche sull’esegesi testuale, sull’apologetica e sulla catechesi, ripercussioni cosí significative da indurre diversi teologi di area cattolica e protestante ad occuparsi nelle loro opere di valori laici, di conio illuminista come quelli, appunto, di progresso, utilità sociale e bene comune, e quindi di valori non più di natura semplicemente e astrattamente spirituale ma di natura pratica, concreta e operativa. Di più: molto della nostra storia attuale, dei nostri dubbi e delle nostre paure, delle nostre inquietudini e delle nostre speranze, del modo di pensare e di vivere insomma degli uomini e delle donne del XXI secolo, credenti o non credenti che siano, si trova già scritta nella produzione pluridisciplinare e interdisciplinare degli illuministi francesi del diciottesimo secolo52.
Anche in ambito cattolico, lungi dall’essere sempre avversato pregiudizialmente, l’illuminismo avrebbe non di rado ricevuto una rispettosa accoglienza critica che, in quanto tale, si sarebbe però venuta manifestando anche e soprattutto in una valorizzazione logico-metodologica e filosofica della filosofia dei lumi in funzione di una rinnovata e originale promozione culturale e civile della dottrina cattolica. Peraltro, non si può certo ritenere che, già prima del ‘700, la Chiesa cattolica con tutte le sue articolazioni istituzionali non si ponesse un problema di rinnovamento interno delle sue strutture teologico-culturali, liturgico-sacramentali e pastorali, associative e missionarie, non foss’altro che per quel grande “scisma d’occidente” tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo che avrebbe posto in crisi la stessa autorità pontificia determinando accesi e destabilizzanti contrasti nel cuore stesso dell’Europa cristiana, e successivamente a causa di quella riforma luterana che, attaccando frontalmente non solo la dottrina ma anche i privilegi e i costumi ecclesiastici della Chiesa apostolica romana, avrebbe provocato la rottura dell’unità religiosa della cristianità e della Chiesa occidentali, costringendo la Chiesa cattolica ad un impegnativo riesame del suo corpus dottrinario e teologico ma anche e soprattutto del suo apostolato civile che essa avrebbe cercato di ampliare e di finalizzare ad un rilancio delle attività caritative e ad un più efficace e proficuo raccordo con le nuove e pressanti esigenze popolari della società civile cinquecentesca. In realtà, quella nota come Controriforma sarebbe stata piuttosto una nuova riforma cattolica volta non solo a riaffermare le antiche e originali verità della fede evangelica contro le eresie protestanti ma anche e soprattutto a rinnovare profondamente il modo di porsi delle strutture ecclesiastiche rispetto ad un mondo sociale molto vasto ed eterogeneo da cui sarebbero emerse, in particolare da parte dei ceti più umili, domande sempre più numerose e urgenti di assistenza economica, giuridica, educativa e culturale. Proprio al fine di perseguire obiettivi di tal natura sarebbero stati fondati molti e diversificati ordini religiosi che avrebbero dunque dovuto assolvere la funzione primaria di contribuire al sollevamento materiale e civile, oltre che spirituale e religioso, di enormi masse di poveri e diseredati spesso privi persino dei più elementari mezzi di sussistenza53.
In questo senso non è errato sostenere l’esistenza di un illuminismo cattolico che, pur originariamente condizionato dalla filosofia dei lumi e interagendo poi gradualmente con la travolgente forza critica del pensiero specificamente enciclopedico di marca francese, avrebbe trovato una sua degna collocazione nel contesto critico-culturale scaturito da quest’ultimo, mostrandosi capace di produrre idee moderne in accordo con il sapere scientifico e filosofico successivo alla rivoluzione scientifica seicentesca e settecentesca in nuovi campi di indagine quali il colonialismo e le modalità del rapporto da adottare nei confronti di schiavi, servi e selvaggi, il nuovo ruolo della donna nella famiglia ma già oltre le mura domestiche, la lotta contro il patriarcato autoritario, la superstizione o la magia e contro gli abusi del potere costituito, l’emancipazione educativa e culturale di adolescenti e giovani, il ripensamento critico delle stesse istituzioni ecclesiastiche alla luce degli errori e degli abusi da esse precedentemente commessi, la riscoperta di un cristianesimo particolarmente sensibile ai valori della giustizia e della libertà. Tali idee, che avrebbero costituito l’ossatura di una vera e propria modernità cattolica, avrebbero portato i nomi di Francesco di Sales e Alfonso de’ Liguori che molte idee feconde avrebbero attinto dalla troppo spesso sottovalutata riforma tridentina, di Ludovico Antonio Muratori cui si deve un prezioso e innovativo apporto critico non solo sul piano intellettuale e religioso ma anche sul piano civile, giuridico-politico ed economico sul quale avrebbe evidenziato anche intendimenti sinceramente ed estesamente riformistici, di Benito Feijoo, un monaco spagnolo d’inizio settecento cui si deve un’accorata difesa della dignità femminile, di Joséfa Amar y Borbòn, grande intellettuale e teorica di una pedagogia molto rigorosa ed evoluta interamente destinata alle donne54, di una fisica come Laura Bassi che sarebbe stata la prima donna al mondo ad occupare una cattedra universitaria, o di Maria Gaetana Agnesi, una delle matematiche più eccelse che questa disciplina scientifica abbia mai avuto, nonché filosofa e teologa di grande ingegno55.
Dalla sintesi di illuminismo cattolico e illuminismo laico non credente sarebbe derivata un’immagine di illuminismo meno monolitica e stereotipata, più aperta e problematica delle immagini che, con poche o irrilevanti variazioni, ne sarebbero state proposte dall’editoria nazionale ed internazionale nel corso del ‘900. Ne avrebbe guadagnato in particolare la questione religiosa, non più semplicemente oggetto di critica preconcetta e unilaterale, ma anche di reinterpretazione e rifondazione critica56. D’altra parte, non è mancato chi avrebbe apertamente polemizzato verso il presunto tentativo del cardinale Ratzinger di rivendicare le origini cristiane, accanto a quelle laiche, del movimento illuministico, accusandolo in sostanza di aver cosí violentato la verità storica57. Ma in che cosa esattamente consisterebbe l’orribile misfatto attribuito a Ratzinger? L’Europa del ‘700 non è segnata semplicemente dalla filosofia dei lumi, da quella francese in modo particolare, o dal movimento enciclopedico dei philosophes: c’è chi ancora continua a pensarlo solo a causa di una evidente disinformazione storica. Perché, in realtà, l’Europa settecentesca sarebbe stata attraversata da molteplici correnti e movimenti di riforma della Chiesa, anch’essi espressione di un uso critico della ragione, che storici avveduti almeno da un secolo a questa parte e sia pure in mezzo ad una congerie di studi e pubblicazioni non certo esemplari per rigore e precisione storico-metodologici, hanno variamente definito: come nel caso, pur dovendo qui necessariamente schematizzare, della politica ecclesiastica degli Stati dove sarebbero venuti distinguendosi l’anticurialismo, il regalismo soprattutto di origine gallicana, il giurisdizionalismo delle dinastie o degli Stati antichi e il giuseppinismo, oppure nel caso di un profondo movimento riformatore nato e sviluppatosi all’interno dell’area cattolica quale il giansenismo che avrebbe esercitato una grande influenza su alcuni ambienti cattolici europei e italiani settecenteschi, oppure nel caso, per l’appunto, di un più ampio rinnovamento culturale dove avrebbe preso corpo un cattolicesimo illuminato ovvero una vera e propria Aufklärung (ovvero illuminazione, rischiaramento, chiarificazione) cattolica58: basti pensare qui a figure come quella di Giovanni Battista Graser, Girolamo Tartarotti e Carlantonio Pilati59. Il fatto che tale concetto di Aufklärung cattolica abbia ricevuto aspre critiche anche da parte di insigni storici del settecento come l’italiano Franco Venturi60, sarebbe stato dovuto a ragioni essenzialmente ideologiche basate su una discriminazione di giudizio tra il pensiero cattolico di ovvia intonazione religiosa e quello laico o non religioso dei philosophes, benché anche tra costoro, come si è visto per Diderot, l’istanza religiosa non sia stata affatto assente, sia pure tra le pieghe della loro produzione filosofica. A meno che non si pretenda di espellere il cristianesimo e la storia della Chiesa, prima cristiana e poi cristiana nella sua accezione cattolica, dalla storia generale della cultura europea, occidentale e non occidentale, non si vede perché il tentativo ecclesiale e cattolico settecentesco di ripensare e approfondire criticamente la storia stessa della fede e della vita ecclesiale cristiane nell’insieme delle loro articolazioni dottrinarie e teologiche e organizzative e istituzionali, al fine di modernizzarne forme e contenuti e rendere la propria funzione storica di testimonianza ed evangelizzazione sempre più rispondente e adeguata ad un mondo in rapida e continua trasformazione, non dovrebbe appartenere a pieno titolo a quel processo di “rischiaramento”, di “chiarificazione”, di “emancipazione” intellettuale e civile che avrebbe coinvolto tutte le principali componenti del processo storico di sviluppo che sarebbe venuto attuandosi tra XVII e XVIII secolo. Come rendere storicamente più funzionale la sua missione storica nel nome e per conto di Cristo avrebbe costituito in quel lasso di tempo l’interrogativo al quale, con spirito enciclopedico, sia pure inaugurato e promosso in forma specifica dagli enciclopedisti francesi, la Chiesa e la cultura cattolica nel suo insieme avrebbe cercato di rispondere con riflessioni e soluzioni innovative rispetto al passato, non certo per sbarazzarsi del prezioso patrimonio di sapere e di spiritualità accumulato nei secoli ma per reinvestirlo proficuamente nell’inesauribile opera di servizio che il cattolicesimo avrebbe dovuto continuare a svolgere, statutariamente, a favore di un’umanità permanentemente in cerca di forme sempre più solide e stabili di liberazione. La Chiesa avrebbe fatto, in sostanza, a seguito del poderoso impulso dato dalla moderna rivoluzione scientifica, quello che tutti gli altri grandi soggetti storici, gli Stati, le Accademie con i loro numerosi circoli culturali, le officine meccaniche, gli studiosi del diritto e le corti di giustizia, i nuovi e dinamici gruppi imprenditoriali e commerciali dell’era antecedente l’impetuoso sviluppo del capitalismo industriale, avrebbero cercato di fare al loro interno e in rapporto al problema di come rinnovare e coniugare efficacemente i propri saperi specifici con le istanze complessive di cambiamento e di progresso civile e culturale di tutta la società. Non si comprende, pertanto, per quale ragione, si sia voluto e si vorrebbe ancora oggi delegittimare la rivendicazione di una significativa partecipazione cattolica all’epoca dei lumi, alla sua cultura, al suo nuovo modo di intendere i rapporti tra le diverse forme di sapere e la società, e in particolare tra il sapere e il mondo del lavoro61.
Prototipo dell’Aufklärung cattolica nella prima metà del ‘700, sarebbe stato certamente Ludovico Antonio Muratori, la cui opera sarebbe stata rivolta essenzialmente alla salvaguardia del depositum fidei e alla purificazione della teologia dagli usi impropri e da veri e propri abusi che se ne erano fatti e se ne potessero fare nel corso del tempo per fini estranei ai compiti e alla missione della Chiesa. Contro ogni deviazione ed indebita eccedenza rispetto all’originario e originale patrimonio dottrinario e spirituale della fede, sarebbe stato necessario, a suo giudizio, richiamarsi all’uso rigoroso e disciplinato della ragione, che a tutti gli effetti si sarebbe dovuto ritenere «criterio teologico necessario per accertare il fondamento di legittimità dell’auctoritas divina e umana in materia dottrinale»62. In questa direzione erano venuti impegnandosi, prima di Muratori, altri canonisti tra cui in particolare Edmond Richer e vescovi-teologi come Jacques Bénigne Bossuet, mentre, dopo di lui, il vescovo di Treviri Nikolaus von Hontheim noto sotto lo pseudonimo di Giustino Febronio, che avrebbe affrontato in modo energico e utilmente provocatorio il principio della collegialità della Chiesa, oggi di nuovo al centro della pubblica attenzione e di dibattiti molto accesi e divisivi. La Chiesa si sentiva molto coinvolta nel riesame critico di temi e questioni che allora, come nei secoli successivi, sarebbero risultati di fondamentale importanza sia al fine di stabilire princìpi chiari e incontrovertibili circa i fondamenti della fede e i limiti stessi del potere pontificio rispetto a quello di tutti gli altri vescovi, sia al fine di motivare adeguatamente la condanna delle moderne eresie e l’opposizione alle stesse accuse antigerarchiche, antiautoritarie e antidogmatiche dei philosophes, anche se la loro lotta antioscurantista avrebbe presentato più di una ambiguità63.
Ora, quel che qualcuno ha voluto polemicamente definire come lo strano illuminismo di Ratzinger, altro non è se non la descrizione e l’analisi, certo non prive di un qualche margine di discrezionalità soggettiva al pari di qualunque altra attività di ricerca e di ricostruzione interpretativa, dello sforzo della comunità mondiale cattolica settecentesca di utilizzare criticamente la ragione per gettare nuova luce su tutta una serie di questioni di varia natura attinenti il ruolo religioso, spirituale e culturale che la Chiesa si trovava a dover esercitare e rinnovare profondamente, in un rapporto interattivo ma anche critico-propositivo con la società civile e il mondo politico, in una delle congiunture più complesse e difficili della sua storia quasi bimillenaria. La Chiesa settecentesca, secondo Ratzinger, se da una parte si sarebbe sforzata di non lasciare il monopolio della razionalità ai philosophes, dall’altra avrebbe cercato di ricorrervi non solo per sottoporre a revisione sistematica tutto il suo sapere grondante sia di religiosa spiritualità che di sapiente e non di rado audace intellettualità, ma anche e, nell’immediato, soprattutto per replicare alle provocatorie contestazioni laiche del “partito filosofico”64. La cultura cattolica, in relazione alla celebre triade valoriale di origine illuminista Liberté, Égalité, Fraternité, avrebbe proposto di integrarla criticamente per mezzo della lettera e dello spirito evangelici, obiettando che non potesse darsi vera libertà se non nel quadro di una verità non soggetta ai capricci del tempo e della storia, vera eguaglianza se non su un piano umano e morale, vera fraternità o fratellanza se non sulla base di una carità personale e sociale, pur salva facendo la facoltà degli Stati di provvedere, nei modi e con i mezzi di volta in volta ritenuti più opportuni, a garantire quei valori anche da un punto di vista giuridico, economico-sociale e politico.
Qualunque costruzione o pratica economica, sociale e giuridico-politica, che non riposasse su un presupposto prepolitico di natura morale e religiosa e ricavabile dai testi evangelici, non avrebbe potuto essere considerata, dal punto di vista cattolico, razionalmente legittima, dal momento che, in forza della Rivelazione, non c’è nulla del Logos umano che possa trovare legittimazione al di fuori di una qualche connessione con il Logos divino. Quel presupposto, la Rivelazione, dava certo fastidio ai filosofi illuminati, che tuttavia non consideravano con sufficiente attenzione come la rivelazione cristiana non fosse scesa da un iperuranio immaginario ma fosse radicata nella carne, nell’esperienza e nella storia concreta e vissuta di uomini altrettanto concreti e reali, convinti di poter assumere da un certo momento in poi della loro esistenza le verità rivelate da Cristo come princìpi ispiratori e fondamenti universali di conoscenza e di vita morale e spirituale. Erano forse diverse le modalità illuministiche di assunzione di determinati princìpi etico-conoscitivi? Diversi erano certo questi ultimi rispetto a quelli della comunità cristiana, ma non le modalità (esperienza, storia e libero convincimento personale) con cui i philosophes, nel loro girovagare per i sentieri e gli anfratti della loro esistenza, decidevano ad un certo punto di fare le loro scelte teoriche e pratiche.
Pertanto, non può meravigliare, né apparire “strano” che Ratzinger, nell’enciclica Caritas in veritate (56), intendesse salvaguardare la razionalità della fede non solo nella sfera privata ma anche in quella pubblica: la religione cristiana può dare il suo apporto «allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana». Infatti, senza la verità divina, «la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità» (CV 3), anche se quella verità è l’altro nome dell’amore divino. Si può dare un’umanità più fraterna nella storia solo sulla base di una razionalità universale e trascendente e non sulla base di forme soggettive e transitorie, necessariamente equivoche e fallaci, di razionalità storico-umana, come purtroppo avviene nell’enciclica Fratelli tutti (183) di papa Bergoglio. La razionalità umana può avere una duplice forma: ristretta, che è quella priva di riferimento all’essere assoluto o divino, oppure allargata, che nella trascendenza trova un più ampio e indefinito campo di possibilità conoscitive. Quella cristiana e cattolica è una razionalità di tipo largo che non esclude ma include la sua forma ristretta o circoscritta a specifici oggetti di indagine. Rispetto all’impostazione dell’illuminismo storico, tale posizione dovrebbe apparire antilluministica, ma Ratzinger propone evidentemente un concetto nuovo, e appunto più ampio, articolato e dinamico, di luce, illuminazione o rischiaramento razionali. Il fatto che la ragione politica e la democrazia non possano nutrirsi che di verità relative in reciproca e dialettica competizione non mina, secondo lui, la solidità del suo ragionamento, nel senso che la verità della fede o della ragione religiosa e cristiana funge da criterio selettivo e integrativo ad un tempo nel quadro delle molteplici posizioni del sapere e dei poliedrici aspetti e piani della realtà: una luce, appunto, ulteriore rispetto a quella ristretta, strumentale o pragmatica, della ragione stessa65.
D’altra parte, il ragionamento ratzingeriano non implica necessariamente il sacrificio della ragione alla fede ma semplicemente la possibilità per la ragione di dotarsi di un ulteriore termine o orizzonte epistemico di confronto al fine di poter cogliere sempre meglio e in forme sempre più sicure ed esaustive la propria identità statutaria e la sua complessa funzionalità66. Quel che viene delineandosi in Ratzinger è un nuovo ideale di illuminismo, fondato su un presupposto ben preciso, analogamente a quel che accade del resto per qualunque filosofia, teologia o teoria scientifica: che i lumi della fede sono parte costitutiva e integrante dei lumi della ragione, mentre quest’ultimi non possono non favorire quanto meno l’insorgere del dubbio che anche la fede possa costituire una fondamentale fonte di luce razionale per l’impegno teorico-pratico del soggetto umano. Che, nel corso del suo sforzo interpretativo, non sempre Ratzinger sia forse riuscito a rimanere immune da insufficienze o limiti logico-argomentativi, è certamente possibile ma né la sua interpretazione neoilluministica del cristianesimo, né le eventuali difficoltà incontrate nell’articolarla, comportano che egli abbia oscurato o svilito lo spirito originario dell’illuminismo filosofico e inficiano la serietà e l’attendibilità teoretica di una immagine della fede da lui delineata traendo ispirazione da un approccio critico-razionale di matrice settecentesca ed enciclopedica67. Forse è vero che quella ratzingeriana possa essere stata «una proposta di teologizzazione dell’Illuminismo il cui fine era di impedirne la fatale degenerazione totalitaria», anche perché è del tutto legittimo ritenere che, se la ragione illuministica si trasforma «in autonoma ragione “positiva del pensiero funzionale”», essa sia destinata ad avviarsi verso un «inevitabile tralignamento totalitario», ed è legittimo l’operazione di Ratzinger volta a salvare la fase e lo spirito emancipatori della filosofia dei lumi per condannarne invece le «derive posteriori» dovute ad una sempre più ostinata e fanatica esclusione di Dio dalla storia68. Quanto all’accusa per cui, tramite Ratzinger, il cattolicesimo avrebbe rivendicato per sé meriti che apparterrebbero interamente agli intellettuali settecenteschi, si dimenticano facilmente due circostanze: la prima è che, piaccia o non piaccia, anche l’illuminismo, come tutte le grandi tappe del pensiero europeo, nasce nel grande alveo della cultura e della civiltà cristiane; la seconda è che, se molti intellettuali laici o molti studiosi hanno potuto liberamente e lecitamente discernere tra un cristianesimo compatibile con il libero sviluppo del pensiero filosofico ed etico-civile occidentale e un cristianesimo meramente dogmatico, autoritario e reazionario, completamente antitetico a qualunque principio di emancipazione e civiltà, non si comprende perché un intellettuale cattolico, come Ratzinger o altri, non potrebbe o non dovrebbe porre in essere la stessa operazione nei confronti dell’illuminismo o di qualunque altro fenomeno storico-culturale.
Il punto centrale del programma illuminista era stato la purificazione e l’emancipazione della ragione umana e del sentire morale. Che a Ratzinger sia apparso filosoficamente e teologicamente necessario lavorare ad una purificazione della ragione e della coscienza morale, e alla connessa e conseguente emancipazione di entrambi, anche attraverso la verità rivelata dalla fede, è qualcosa che potrà apparire anche non condivisibile ma che non può, in alcun modo, essere tacciato di scorrettezza o sconvenienza logica e metodologica. Ma, più in generale, perché mai ad un cattolico dovrebbe essere fatto divieto, sul piano logico-metodologico e critico-filosofico, di ragionare su un qualunque oggetto di indagine secondo l’assunto per cui la Parola di Dio sia condizione necessaria di più corretto e più profondo intendimento della parola e del sapere degli uomini?69.
La fede in Cristo, non solo per Ratzinger ma per tutti i cattolici non ignari della loro vera identità spirituale e religiosa, implica anche la fede nella più elevata forma possibile di razionalità coincidente con la razionalità stessa di Dio, il che poi, contrariamente a quanto temuto da un ateo come Paolo Flores d’Arcais, non comporta di necessità che la fede stessa, in quanto sia riassunto e compimento di ragione e umanità, debba soggiacere irresistibilmente alla tentazione di imporsi anche attraverso il “braccio secolare dello Stato”70. La fede, in quanto apertura ad una conoscenza mai definitiva e mai perfettamente definibile, è ciò che consente di interrogarsi nel modo più radicale possibile sulla ragione e sulla razionalità. Cos’è razionale e cosa non lo è? E’ identificabile la razionalità con la razionalità tecnico-scientifica oppure con l’argomentare soggettivo di singoli e pur colti individui? Oppure con forme relativistiche di sapere etico e politico? Il senso del complessivo giudizio ratzingeriano su razionalità e illuminismo è stato ben colto nei seguenti termini: «La ricerca della verità da parte di una ragione che si concepisce ampia e condivisa costituisce il contributo di Ratzinger che, proprio per questo, può essere chiamato, stavolta a ragione, “teologo illuminista”. Egli non disdegna affatto il contributo delle varie scienze, ma richiama queste a riconoscere la loro connaturale limitatezza, non solo per la loro reale frammentarietà, ma anche per la loro inadeguatezza nel “dare ragione” alla profondità dello spirito umano. Quella del papa non è stata una «Reconquista della modernità», come l’ha definita Flores d’Arcais, semmai una messa in guardia dalle derive assolutiste e dalle varie ideologie anti-umanizzanti di turno. Infatti, se da una parte le singole scienze indagano il dato biologico e i vari fenomeni, dall’altra solo la filosofia e la teologia ricercano e non smettono mai di domandarsi cosa dà senso alla vita e cosa dona gioia profonda al cuore dell’uomo»71.
Altro è il fenomeno, altro il fondamento: si tratta certo di conoscere il fenomeno, senza tuttavia trascurare la ricerca conoscitiva, che è inesauribile, del fondamento, e alla quale la fede può essere estremamente utile, se non assolutamente necessaria: «Avere il coraggio di aprirsi all’ “ampiezza della ragione” e riconoscerne la sua grandezza, anziché il suo limite, significa in ultima analisi comprendere che lo stesso logos di Dio è capace di “allargare” anche la nostra ragione, cioè di portare la dimensione della nostra esistenza alla misura del logos di cui siamo capaci» (Ivi). In ogni caso, dovrebbe ormai potersi riconoscere agevolmente l’«impossibilità di ricondurre l’Illuminismo ad uno schieramento bipartito o addirittura a un idealtipo univoco» e il carattere anacronistico della «contrapposizione tra illuminati philosophes e oscurantisti clericali», perché, come dice Franco Cardini, si tratta di «polemiche datate. Si dovrebbe smetterla con questo tema del pensiero “corretto” e del pensiero “non corretto”», anche perché appare storicamente indiscutibile che «l’Illuminismo è in gran parte legato al mondo cattolico; personaggi come Muratori o Galvani, cattolicissimi, erano nondimeno considerati a buona ragione dei philosophes»72. Ove la ragione non riconosca nella fede la sua dimensione più vitale si condanna a morire gradualmente ma irreversibilmente a se stessa e a lasciare scarsamente inutilizzata la sua funzione critica di giudizio quanto meno sul piano della vita morale e spirituale, privando ad un tempo l’umanità di una possibile, universale e preziosa fonte alternativa di speranza e di vita. La stessa libertà religiosa e l’idea di diritti umani naturali non sono peraltro un “regalo” fatto dalla laicità di matrice illuministica al cristianesimo, perché tanto la laicità che la libertà religiosa e l’idea di inalienabili diritti umani nascono con l’idea biblica degli uomini come figli di un unico Dio, tutti eguali fra loro, con un’idea evangelica e cristiana di moralità non formalistica o legalistica ma basata sulla legge dell’interiorità, della coscienza personale, del libero esame e dell’autonomia di giudizio, con un’idea di verità che si converte in amore e di amore che richieda di rimanere sempre associato alla verità73. Per non dire che il Dio cristiano non nasce come astrazione dalla vita, dalla storia, dalla carne stessa degli uomini ma proprio all’interno di quella vita, di quella storia, di quella carne, donde non possa ritenersi eccessivo il percepire la figura evangelica e cristiana di Dio come possibile oltre che auspicabile esito di una concreta e quotidiana esperienza di vita e di pensiero.
D’altra parte, anche la laicità e tutti i suoi pretesi e presunti valori civili e non confessionali di libertà, uguaglianza e giustizia, può diventare un dogma molto pericoloso e trasformarsi in laicismo, secondo quanto autorevolmente veniva affermando anche Norberto Bobbio poco più di un venticinquennio addietro: «Per laicismo s’intende un atteggiamento di intransigente difesa dei pretesi valori laici contrapposti a quelli religiosi e di intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose … Quando la cultura laica si trasforma in laicismo, viene meno la sua ispirazione fondamentale, che è quella della non chiusura in un sistema di idee e di principi definiti una volta per sempre. Il laicismo, che ha bisogno di armarsi e di organizzarsi, rischia di diventare una Chiesa contrapposta ad altre Chiese»74. Ma l’attacco rivolto da atei e laicisti a quello specifico intervento di Ratzinger sull’illuminismo di ieri in funzione di un’immagine neoilluministica della fede cristiana di oggi era espressione non solo e non tanto di una raffinata mentalità accademica o comunque specialistica ma anche e soprattutto di una rozza e ormai molto diffusa mentalità popolare che può giungere a parlare di illuminismo o di qualunque altro impegnativo capitolo della storia della cultura con la stessa disinvoltura con la quale può capitare di parlare di qualcosa in un bar. Ormai alla Chiesa e alla cultura cattolica vengono imputati i peggiori mali e tutte le malefatte del mondo e non si perdona più niente. Tutto il marcio del nostro tempo sembrerebbe ormai derivare unicamente, per riproporre il lungo elenco di cause stilato con composta indignazione da Ernesto Galli della Loggia, dal celibato, dal maschilismo, dalla pedofilia, dall’autoritarismo gerarchico, dalla manipolazione della vera figura di Gesù, dall’adulterazione dei testi fondativi, dalla complicità nella persecuzione degli ebrei, dalle speculazioni finanziarie, dal disprezzo verso le donne e dalla conseguente negazione dei loro “diritti”, dal sessismo antiomosessuale, dal disconoscimento del desiderio di paternità e maternità, dal sostegno al fascismo, dall’ostilità all’uso dei preservativi e dunque dall’appoggio di fatto alla diffusione dell’Aids, dalla diffidenza verso la scienza, dal dogmatismo e perciò dall’intolleranza congenita75, quantunque non si possa aprioristicamente escludere che alcuni di questi e di altri capi d’accusa, che potrebbero aggiungersi, contro il complesso ed esteso mondo cattolico, siano almeno parzialmente fondati e riconducibili ad una persistente divaricazione storica, all’interno stesso della comunità cattolica, tra ortodossia e ortoprassi, anche se, bisogna precisare, sotto l’odierno pontificato, è proprio in sede di ortodossia che sembra vengano compiendosi inediti e sconcertanti misfatti contro la fede e la retta dottrina ereditata da circa due millenni di santa e gloriosa tradizione apostolica, con tutte le possibili e ulteriori conseguenze che potrebbero ancora derivarne per la vita spirituale e sociale di milioni e milioni di credenti e non credenti76.
Nel corso dell’ottocento, Antonio Rosmini, attraverso una severa riflessione sull’esperienza teorico-storica dell’illuminismo francese, il versante certamente più laico dell’intero movimento illuministico europeo, sarebbe ritornato sul problema del rapporto tra ragione e fede, individuandone bene, al di là degli evidenti aspetti e risvolti strettamente logico-teoretici, soprattutto le implicazioni morali, civili e politiche cui una religione degnamente pensata e vissuta, come si votava ad essere da tempo immemore quella cristiana e cattolica, non avrebbe potuto rimanere indifferente. Per il filosofo di Rovereto, così contestato e perseguitato in vita dalla stessa Chiesa di cui era eminente presbitero, filosofo e teologo77, ogni popolo civile non avrebbe potuto fare a meno né dell’autonomia e del libero sviluppo della razionalità propria dell’umana intelligenza, né della libera e rispettosa manifestazione della fede religiosa radicata nell’umana e personale interiorità. Il problema, però, sarebbe stato quello di contenere l’una e l’altra facoltà spirituale entro limiti di reciproca compatibilità, al contrario di quel che sembrava essere accaduto con l’illuminismo francese che, secondo larga parte di una certa storiografia illuministica ed enciclopedistica settecentesca, avrebbe portato ad una assolutizzazione della ragione decapitandola della sua naturale e costitutiva appartenenza a Dio e, al contrario di quel che era accaduto in modo ricorrente nella storia precedente, con una tale esasperazione del sentimento religioso da alterarne il normale rapporto con la ragione e da provocarne lo sconfinamento in forme di fanatismo o di fideismo intimistico e devozionale. Ma Rosmini denunciava che l’assolutizzazione di ciò che è finito, come lo sono tanto la ragione quanto la fede dell’uomo, finiva inevitabilmente per romperne l’organica unità78.
Ora, se da una parte, la vita è fatta di ragionamento, di conoscenza, di sapere e di filosofia, essa indubbiamente non può esprimersi al di fuori della coscienza, del sentimento morale e dello stesso sentimento religioso il quale ultimo consiste nella percezione dei limiti del proprio essere e in un anelito a qualcosa che lo trascenda e non abbia mai fine. Già di per sé questa dinamica interiore, in cui viene prefigurandosi la fede in un’entità divina e lungi dal doversi attribuire necessariamente a manifestazioni patologiche della mente o della psiche, corrisponde ad un sentire naturale radicato nella struttura esistenziale di ogni singola persona e pertanto meritevole di essere rispettato, ed eventualmente alimentato o coltivato in forme e gradi diversi senza violente costrizioni esterne o innaturali impedimenti, salvo facendo ogni favorevole possibilità di raccordare tale predisposizione alla fede con la facoltà del discernere e del giudicare. Usare la ragione contro la fede significa farne un uso ideologico, quali che siano le specifiche ragioni ad esso sottostanti, e usare la fede contro la ragione significa disconoscere l’oggettività e la veridicità di ogni possibile forma di sapere, significa svilire l’universalità almeno virtuale di quella parola, di quel pensiero, di quella ragione che, proprio per il credente, dovrebbero costituire un riflesso, più o meno limpido, più o meno fedele o veritiero, dello stesso Logos divino79.
Assolutizzando la ragione e considerando mera superstizione la fede, l’illuminismo aveva preteso di divinizzare la ragione, anzi semplicemente un determinato modello di ragione, peccando quindi di idolatria o di idolatrica empietà; assolutizzando non già la fede ma un determinato modo di concepirla e coltivarla, un certo mondo religioso, non sempre estraneo alla stessa comunità cattolica, aveva e avrebbe a sua volta inconsapevolmente o stoltamente preteso di annientare il dono più prezioso da Dio elargito alle sue creature: la ragione, la facoltà del pensare, del riflettere, del discernere, del giudicare, ovvero la base stessa dell’umana libertà. E avviene così che Rosmini, distanziandosi da talune e diffuse forme di ingenua o primitiva religiosità popolare come da certa rigida unilateralità teologica del passato, ma ad un tempo «sottraendosi al fascino dei lumi che avevano oscurato quelli della religione e muovendo dall’idea dell’essere come fonte oggettiva del conoscere, della verità e dell’etica, … realizza un’originale sintesi del pensiero cristiano, vera e propria enciclopedia fondata sull’unitarietà delle scienze e sul superamento della frammentarietà del sapere, segnando un nuovo punto di partenza anche per la metafisica e la teologia»80. Non ragione e scienza contro fede e teologia, non un sapere storico nella poliedricità delle sue dimensioni e dei suoi aspetti contro forme di sapere religiosamente orientate o ispirate, non cura delle realtà visibili e dei valori immanenti in contrapposizione alla cura delle realtà invisibili e dei valori trascendenti, ma al contrario una relazione aperta, dinamica, armonica, collaborativa tra due piani distinti ma non incomunicanti di una stessa realtà spirituale: quello del pensare e quello del sentire, del vedere e dell’ascoltare, del dedurre e dell’intuire, con un pensare non estraneo al sentire e un sentire non estraneo al pensare, e con un vedere e un dedurre non estranei all’ascoltare e all’intuire e viceversa.
In questo modo, Rosmini, paradossalmente in linea con il moderno Lord Cancelliere inglese del XVII secolo che aveva individuato non nella pur indispensabile scienza ma nell’umile religione «il vincolo della società»81, avrebbe tracciato l’asse portante di quello che, a giusta ragione, può definirsi l’illuminismo cattolico del diciannovesimo e ventesimo secolo, al quale lo stesso pensiero cattolico non sempre avrebbe saputo ispirarsi con coerenza e profitto e che tuttavia continua a costituire un utile e fecondo paradigma epistemico di riferimento per la storia intellettuale e religiosa delle presenti e future generazioni di spiriti pensanti e credenti82.
Francesco di Maria