L’insignificanza filosofico-politica dei cattolici

Non è che ai tempi in cui egemone era la Democrazia Cristiana, la cultura politica espressa da quel partito fosse espressione di una fede religiosa pensata e vissuta in modo particolarmente profondo e originale, ovvero di una fede incarnata in un impegno politico e sociale aderente o ispirato a valori evangelici rettamente intesi. Quella della D.C. era certamente una cultura di massa nominalmente religiosa, in cui tuttavia si poteva trovare di tutto: dallo spirito più autoritario e reazionario al rivendicazionismo socio-economico più radicale, dall’ecumenismo più ipocrita ed imbelle al settarismo più oltranzista, dall’interclassismo più mistificante al ribellismo più fanatico, da un pacifismo viscerale e irrealistico di maniera ad un militarismo addirittura benedetto da Dio. Ma vi si potevano riconoscere anche l’uomo o la donna più mite e generosa come i soggetti più rozzi e violenti, la persona più onesta non meno che l’individuo più losco e corrotto, l’anima più civile e sinceramente democratica e insieme lo spirito più cinico e più pronto a qualsiasi ribaltone politico e istituzionale. Si può quindi dire che la cultura politica cattolica italiana, per poco più di quattro decenni, sia stata una cultura di convenienza e di mimetizzazione sociale, più che di reale e convinta testimonianza di fede cristiana. Non è un caso che tra il ’50 e il ’90 gli affari prosperassero ben al di là di norme lecite di comportamento, la scuola fosse meritocratica ma anche antiegualitaria a differenza dell’università ben più egualitaria che meritocratica, e che la Chiesa fosse molto più integra teologicamente che moralmente e spiritualmente.

E’ tuttavia vero che nel periodo dell’egemonia democristiana, la causa divorzista, abortista, eutanasica, pansessualistica, e quant’altro, nonostante graduali cedimenti di natura giuridico-legislativa, non sarebbero andate incontro ad un’epoca di agevole legittimazione civile. Poteva aver luogo, in quella congiuntura storico-politica, un potere frenante dello Stato nei confronti di un’istanza radicale di laicità, consistente essenzialmente nel principio di separazione dei poteri tra Stato e Chiesa e quindi di autonomia decisionale del primo rispetto a possibili interferenze della comunità religiosa, proprio perché potere dello Stato e fede religiosa, per quanto costituzionalmente ben definiti nella loro reciproca indipendenza, risultavano di fatto, nel più ampio senso ideale possibile, non solo compatibili ma complementari1.

Oggi la situazione è completamente diversa, anche perché nel frattempo il fronte laico, per così dire, progressista, areligioso o irreligioso, con il complice sostegno di alcuni sedicenti cattolici, è diventato molto più aggressivo, ma soprattutto perché, più in generale, la parola laicità conta ormai decisamente più della parola religiosità, per cui il lasciapassare per entrare a far parte a pieno titolo della vita civile e democratica non è costituito dalla saggezza del modo di ragionare e dalla qualità morale delle proposte, ma dalla loro spregiudicatezza, dalla loro trasgressività, dal loro affermarsi come “tendenze” del tempo, dalla loro attitudine a fare piazza pulita di idee e giudizi tradizionali, specie se d’impronta religiosa e cattolica, ormai equiparati a vecchi e logori luoghi comuni. Questo per dire che ogni forma di Stato, ogni modello di governo politico che rechino in sé tracce di tradizionalismo culturale e religioso, di cauta presa di distanza da istanze a sfondo soggettivistico e nichilistico, di avversione a manifestazioni precostituite di lotta ideologica e politica, ormai non potranno mai aspirare a vedersi riconoscere la qualifica di Stato laico, in un tempo in cui lo Stato laico viene trovando la sua espressione più emblematica, più originale e più democratica, nello Stato individualista, liberista, edonista, antigienico e blasfemo del signor Macron2

Il cattolicesimo democristiano era stato un cattolicesimo raccogliticcio, disorganico, spesso incolto e acritico, indipendentemente dalle opzioni ideologiche eterogenee che sarebbero venute esprimendosi al suo interno, nonché eticamente e spiritualmente contraddittorio e solo in parte comunitario. Ma era stato anche un cattolicesimo prudente e schietto nel confrontarsi con i suoi avversari politici, in primis i comunisti, nell’ottenere da essi il riconoscimento e il rispetto della sua identità religiosa e nel costruire, con il loro consenso, una nazione di insperato sviluppo e di diffuso benessere. Di quel cattolicesimo politico culturalmente più emancipato del cattolicesimo sociale e comunitario  prodottosi anche in virtù della sua prolungata azione di governo, non è rimasta traccia, se non appunto nei libri di storia, di economia e sociologia. Oggi i cattolici impegnati in politica sembrano ignorare le ragioni della loro scelta vocazionale o semplicemente professionale. I politici nominalmente cattolici di questo tempo sono privi di identità, di identità religiosa coerentemente vissuta, come lo sono del resto molti dei cattolici comuni, impegnati nei diversi ambiti della società civile.  La loro cultura è, infatti, «una cultura che fa sì riferimento al principio dell’amore, ma un amore considerato privo di verità. E così si giunge anche a giustificare l’approvazione di progetti di legge che vorrebbero l’omologazione di diritti libertari, arbitrari. Un tale modo di vedere fa leva, in definitiva, su un cristianesimo di carità senza verità, in cui la medesima carità viene svigorita e fatta scivolare in un vago sentimentalismo dimentico della verità integrale dell’uomo. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero bene dell’uomo e della società, non c’è coscienza e retta responsabilità sociale e politica. L’agire sociale e politico cade, per conseguenza, in balia di interessi privati e di ideologie individualistiche. La verità è luce che dà senso e valore all’amore. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione»3.

Stando così le cose, l’unica funzione che può essere riconosciuta ai cattolici per così dire impegnati nell’ambito politico-istituzionale della società attuale, è forse quella degli “utili idioti”, al di là dei vantaggi economici e di visibilità cui generalmente anche i cattolici di questo tempo ambiscono non meno dei loro colleghi non cattolici, nel senso che essi sono praticamente muti e mettono di buon grado la loro opera e il loro consenso al servizio dei partiti e dei grandi e ambigui gruppi di interesse e di pressione cui di fatto appartengono   su questioni di cruciale importanza morale e civile, quali, solo per esemplificare, il rapporto tra i sessi, la struttura giuridica da riconoscere alla famiglia, e poi la pratica abortiva e divorzista, le pratiche di fine-vita, la guerra e le specifiche responsabilità etiche che essa di volta in volta viene comportando, la libertà e la responsabilità d’informazione, la liceità o illiceità dei costumi sociali in rapporto ai molteplici e diversi contesti di vita associata, la promozione culturale di forme serie e rigorose di pensiero critico ma non artificiosamente scettico e distruttivo ancor prima della promozione politico-culturale di una libertà di pensiero e di espressione genericamente e spesso fraudolentemente intesa ed esercitata, e pertanto, più in generale,  il grande e ineludibile dibattito relativo al problema dei rapporti tra libertà e responsabilità e tra libertà civile e autorità politica, tra cultura razionale e propaganda ideologica e politica, tra moralità individuale ed etica comunitaria, tra principio giuridico e diritto internazionale da una parte e tra diritto e sovranità popolare mai completamente alienabile a favore di determinate organizzazioni internazionali dall’altra, tra universalità di valori e pluralismo di posizioni, tra democrazia e sue degenerazioni sostanziali se non ancora chiaramente percepibili sul piano formale e istituzionale. E’ in relazione a questo vasto e articolato fronte di tematiche etiche, giuridiche, sociali, istituzionali e politiche, ma innanzitutto culturali, includendo in tale termine anche la cultura religiosa, senza naturalmente trascurare l’onnipresente dimensione economica di qualunque comparto dell’umana esistenza, che si renderebbe particolarmente necessaria e urgente una presenza cattolica attiva, coerente, efficace e visibile4.

Ma, di fatto, a cosa è dovuta, non solo in Italia, questa rumorosissima irrilevanza pubblica dei cattolici? La risposta migliore è forse quella data un paio di anni fa da Ernesto Galli Della Loggia: la causa è nel fatto che «ormai l’identità cattolica appare qualcosa di talmente fluido da essere divenuta priva di connotati precisi, indefinibile, e quindi incapace di porsi come una vera protagonista del dibattito. Per esistere bisogna consistere, infatti. Ma oggi il termine cattolico può consistere in molte cose molto diverse tra di loro: in un adepto di sant’Egidio candidato del Pd come in un innamorato della lezione di don Giussani militante nel centrodestra, in un estimatore del “giusto mezzo” di Montini o in un bergogliano tutto ecologia e periferia. Anche dal punto di vista diciamo così teologico-religioso ci sono cattolici pronti a scendere in piazza per impedire a una donna di abortire e altri, invece, convinti che dopotutto l’aborto sia una questione da lasciare alla coscienza di ciascuno; quelli per cui ogni guerra è un abominio e quelli per i quali, al contrario, possono esserci anche guerre giuste»5. E’ vero: un’identità cattolica non esiste più e non perché anche nei decenni passati non esistesse traccia di dispersione nel mondo cattolico: come dimenticare che già Paolo VI temeva che «da qualche fessura» fosse «entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio»6? Ma semplicemente perché oggi la dispersione, la frammentazione, la frantumazione, più che l’identità, sono i tratti maggiormente connotativi della religiosità cattolica. Ognuno è cattolico a modo suo, ognuno interpreta come gli pare il messaggio evangelico di Cristo, ognuno crede nei suoi insegnamenti non in virtù di libero arbitrio ma di libero e palese capriccio, e l’universalità della fede appare ridotta ad una confusa e indecorosa pluralità di fedi individuali e non di rado profondamente divisive: d’altra parte, anche l’attuale pontificato, sotto l’aspetto magisteriale, dottrinario e teologico, oltre che pastorale e comunicativo, è non solo diverso dai precedenti pontificati, cosa entro certi limiti del tutto fisiologica, ma decisamente inedito per bizzarrìa e improvvisazione esegetico-teologiche, per cui non si può certo pensare che esso sia estraneo a questo periodo di anarchia spirituale e religiosa del mondo cattolico.

Non si tratta solo della frammentazione politica dei cattolici derivata dalla fine della Democrazia Cristiana ma di vera e propria frammentazione spirituale e religiosa, per cui il problema adesso non è semplicemente quello di avere diverse opzioni politiche e partitiche nel nome della stessa fede, bensì quello per cui la fede ormai unisce e unifica i fedeli, i membri della comunità ecclesiale, solo in modo nominale, illusorio e ingannevole, e non certo per i suoi variopinti ed eccentrici contenuti che variano da caso a caso, da individuo a individuo, non potendo così cementare la coscienza dei tanti pur battezzati in Cristo in un comune e sentito atteggiamento spirituale e religioso. Quella cattolica tende ad essere una fede fai-da-te, portata non ad unificare il pensiero e il comportamento dei credenti ma a legittimarne qualunque pensiero e comportamento, indipendentemente dal fatto che quest’ultimi potrebbero collidere con le originali verità religiose di una fede solo abusivamente o    scaramanticamente proclamata. Ciò significa altresì che la fede non entra a far parte costitutiva né della sensibilità razionale ed etico-civile, né dell’impegno sociale e politico. Da una parte c’è e resta la fede, dall’altra, in un rapporto di totale discontinuità o separazione, il modo di comportarsi, di agire in sede etica, sociale e politica, anche se certe esemplificazioni al riguardo, come quella del vescovo Toso per il quale taluni credenti, interiormente scissi, potrebbero essere sì capaci, per ragioni di fede, «di amare Papa Francesco» ma anche di «volere», per motivi politici completamente antitetici a quel che una vera fede suggerirebbe, «che i porti siano chiusi ad un’umanità sofferente»7, sono ben poco pertinenti e anzi decisamente distorsive, molto più simili a veri e propri paralogismi e probabilmente dovute ad un imperfetto approccio esegetico ed ermeneutico ai testi vetero e neotestamentari, a cominciare naturalmente da quelli che si riferiscono agli autorevoli interventi di Gesù sulla distinzione tra ordine temporale e ordine spirituale, sul rapporto di reciproca autonomia tra potere politico e potere religioso8.

E’ vero, tuttavia, che nell’animo di molti cattolici, non necessariamente incolti o sprovveduti, sussista una spaccatura tra fede e vita, tra fede ed etica, tra fede e politica, a causa della quale essi sarebbero facilmente portati ad obbedire agli ordini di scuderia dei partiti politici o di qualunque altra organizzazione di potere o di influenza in rapporto alla formazione e all’accaparramento del consenso popolare e alla possibilità di riceverne lauti guadagni personali di diversa natura (economica, professionale, finanziaria, contrattuale, oltre che specificamente politica). Quella spaccatura tra una fede proclamata, ma non pensata né vissuta, e una personalità letteralmente immersa nelle vicende di una quotidianità del tutto indifferente a particolari istanze religiose, fa anche sì che non ci si senta abbastanza motivati nel dover negare il proprio assenso alla più laicista e scellerata delle leggi o a concezioni antropologiche alquanto unilaterali ed irrazionali. Ma l’antidoto a tutto ciò non è dato dal voler vivere in politica secondo carità, secondo fraternità, secondo una vocazione evangelica e cristiana al bene comune, in base alle esortazioni più volte rivolte ai credenti dall’odierno pontefice. Il problema è più profondo, più radicale, giacchè è quello di intendersi correttamente, con serietà di intenti, su questi termini, generalmente adoperati in accezioni troppo generiche, astratte o addirittura fuorvianti perché già assoggettati a significati e ad usi paganeggianti e immanentistici, per poterne usufruire come di potenti leve spirituali realmente atte a gettare nel mondo del lavoro e dell’economia, delle professioni e delle più nobili arti del sapere e dello spirito, nello stesso mondo politico, parlamentare e governativo, germi fecondi di benessere collettivo, di cooperazione, di solidarietà.

Molti cattolici si illudono di poter degnamente esercitare un’attività politica senza far confluire in essa le specifiche e peculiari ragioni dogmatiche e spirituali della fede cristiana ma solo quella cultura di onestà e integrità umana, volta creativamente al perseguimento del bene comune, che deriverebbe da una attenta riflessione critica sulla propria fede9. Naturalmente, nessuno vuole una deculturalizzazione della fede, né la riproposizione e ricostituzione di «un partito della Chiesa», che la stessa Democrazia Cristiana fu disposta ad essere solo fino ad un certo punto, e a prescindere dal fatto, poco rilevante, che «i partiti abbiano reale interesse alla presenza dei cattolici»10. Ma quello sulla decristianizzazione dell’azione e della lotta politica e, per converso, sulla culturalizzazione di una fede cristiana non secondo le sue peculiarità dottrinarie e teologiche, ma soltanto secondo modalità linguistiche adeguate a favorire la comunicazione e lo scambio con tutte le culture “del nostro tempo”, è francamente un ragionamento non condivisibile perché strano, confuso, rinunciatario e tutt’al più utile a chi, come Riccardi, tesse la sua tela di relazioni e scambi internazionali, forse anche vantaggiosi finanziariamente, con comunità economico-politiche e religiose sparse in tutto il mondo11.

Non condivisibile essenzialmente perché, probabilmente, Riccardi e seguaci non hanno ancora ben compreso che cosa significhi l’invito evangelico, rivolto ai seguaci del Cristo, ad essere “sale della terra e luce del mondo”; non condivisibile perché non si dà modo migliore di culturalizzare la fede di quello consistente nell’introdurre nell’arena politica non solo il linguaggio franco e schietto, non compromissorio, non equivoco, ma fraternamente e linearmente alternativo alle logiche necessariamente corrotte del mondo, ma anche i sempiterni inattuali valori dello spirito, predicati da Gesù; non condivisibile perché un partito cattolico non deve essere necessariamente un partito della Chiesa ma solo un partito al servizio della Chiesa, non meno che al servizio della società, dello Stato e delle nazioni del mondo, soprattutto se o quando la Chiesa dovesse apparire manchevole nell’adempiere i suoi doveri e i suoi compiti di annunciare fedelmente la Parola di Dio e di testimoniare, ancor prima che con opere caritative, con fatti inoppugnabili e prese di posizione rispettose del diritto di Cesare ovvero degli Stati all’autodeterminazione decisionale in ambiti direttamente soggetti al potere temporale, la sua esclusiva appartenenza a Dio; non condivisibile, infine, perché cristianizzare il mondo politico, non meno di quello economico, dovrebbe implicare non già una volontà di egemonizzazione ecclesiastica, clericale o filoclericale, di spazi riservati esclusivamente ai protagonisti laici del confronto politico ed economico, quanto piuttosto una doverosa e responsabile offerta di sana e radicale moralizzazione della complessa e contraddittoria realtà planetaria in cui deve pure aver luogo una vita morale capace di rigenerarsi e di liberarsi dalle ricorrenti contaminazioni del male.

La “questione cattolica”, a dispetto dei tanti credenti dissidenti interni ed esterni, continua ad essere perciò centrale in Italia e nel mondo, anche e soprattutto nel senso che un laicato di fede cattolica che non si senta motivato a ricostituirsi, su nuove e originali basi di programmazione scolastico-culturale, economico-sociale ed etico-giuridica, in autonoma e ben caratterizzata forza politica e civile, è un laicato interessato a perseguire più profittevoli opportunità di successo, di guadagno o di carriera nel cosiddetto sistema bipolare, oppure è ancora nostalgico di certi partiti cattolici verticistici, carismatici e semipadronali del passato, in presenza dei quali tuttavia, non è detto che un intellettuale aristocratico e pragmatico,  più che carismatico, come Riccardi, timoroso di una volgarizzazione o democratizzazione eccessiva della fede ma piacevolmente disposto a trattare di tutto e con tutti, anche al fine di rendere sempre più celebre e prospera la sua attività filantropico-assistenziale, sarebbe riuscito ad aprire agevolmente tutte le porte politiche, associative, organizzative e finanziarie, che sin qui è riuscito ad aprire in ogni angolo del mondo12.

Per tutto questo, è stato scritto opportunamente, bisogna interrogarsi «sulla posizione di Sant’Egidio e sulla formazione politica che ad essa fa riferimento: Demos». Bisogna dire innanzitutto che la comunità di sant’Egidio non è mai stata esente da dubbi e critiche, in particolare critiche di fanatismo, intolleranza e coercizione esercitati verso gli adepti, di autoritarismo carismatico rivolto al fondatore e ai capi storici della struttura, di approccio semiesoterico alle Sacre Scritture e agli stessi vangeli non di rado piegati ad esigenze interne di garantire la solidità gerarchica della struttura comunitaria13. A ciò bisogna aggiungere che «Sant’Egidio ha ottime entrature nei palazzi che contano, nelle stanze di chi comanda, nelle sagrestie più accreditate»; gli attuali cardinali Paglia e Zuppi, con Riccardi, ne fanno parte sin dalle origini e, grazie a sant’Egidio, hanno fatto una rapida e brillante carriera ecclesiastica. Paglia, in particolare, vanta conoscenze e amicizie in tutti i partiti dell’arco costituzionale: «sembra intimo della destra, del centro e della sinistra e infatti, come una lobby superaddestrata, Sant’Egidio batte cassa con tutti i governi», anche se «il cuore sta a sinistra, nella cornice di quel pauperismo che privilegia chi si dibatte in fondo alla scala sociale. Dove il povero non è il povero di spirito ma quello cui manca tutto. A Sant’Egidio invece non manca nulla: finanziamenti, consenso, sostegno dei grandi giornali. Se Cl e l’Opus Dei sono sempre state nel mirino dei quotidiani progressisti, con accuse talvolta al limite della fantascienza, Sant’Egidio e i suoi capitani sono sempre stati portati in palmo di mano e la comunità ha sempre ricevuto cospicui aiuti per i propri progetti: per esempio 600 milioni di lire per combattere l’Aids in Mozambico con tanto di assegno arrivato da Bill Gates tramite il presidente di Microsoft Italia Roberto Paolucci»14. Ma, nei confronti di sant’Egidio, c’è di peggio, c’è l’accusa infamante, e peraltro mai smentita o contestata da rappresentanti della comunità romana, di Khalida Messaoudi, musulmana, residente ad Algeri e fondatrice dell’associazione Rachda contro l’oppressione delle donne e per la riforma del codice della famiglia15.

Ora, questa celeberrima comunità, che a occhio e croce non sembrerebbe godere di ammirato e unanime consenso, è stabilmente protetta dalla Chiesa, dallo Stato italiano, da importanti organismi politici ed economico-finanziari di mezzo mondo. Non sarà forse per questo che Riccardi, al di là delle sue dotte analisi storico-politiche, si oppone tenacemente alla nascita o alla rinascita di un partito politico interamente cattolico? Non temerà forse che un nuovo partito cattolico possa oscurare la centralità mediatica e politico-culturale del suo feudo comunitario? Chissà! Tuttavia, lo storico romano non nega che la questione cattolica sia sempre più periferica politicamente, pressoché assente nei partiti della sinistra italiana sempre più soggetta, all’indomani della caduta del muro di Berlino, ad una crisi di credibilità e ad una parallela metamorfosi degenerativa che, da forza politica particolarmente attenta ai grandi problemi del mondo del lavoro e della giustizia sociale, l’avrebbe portata giocoforza a trasformarsi in semplice espressione di un composito schieramento progressista tutto centrato sulla difesa di reali o presunti diritti individuali e caratterizzato da una cultura individualistica a sfondo liberista che avrebbe finito tra fine del XX secolo e inizio del XXI secolo per risultare “dominante“ (mainstream), sostituendo, nell’agenda politica dei suoi apostoli, il tema dei diritti economici e sociali e dei diritti individuali e personali dei lavoratori pur sempre all’interno di una organica, solidale e comunitaria concezione della socialità, con quello dei diritti individuali e di diritti individuali sempre meno fondati sul presupposto di un’uguaglianza umana di natura etica e (nel caso dei lavoratori credenti) anche religiosa e sempre più fondati sul presupposto di un’uguaglianza umana di natura prevalentemente sessuale e contrassegnata da un ventaglio così ampio di differenze erotico-sessuali da determinare tendenzialmente una graduale dissoluzione dei sessi biologici tradizionali e, insieme, dei vecchi e universali criteri razionali di distinzione tra normalità e anormalità, tra naturale o fisiologico e disfunzionale o patologico, e di riflesso, su un piano antropologico, tra comportamento sano e comportamento abnorme, con conseguente, ulteriore, impossibilità o difficoltà, da un punto di vista etico, di tracciare una netta linea di separazione tra forme esistenziali virtualmente virtuose o quanto meno regolari e forme esistenziali virtualmente irregolari, viziose o perverse di vita.

L’essersi schierati con questa sinistra debole e disperata, insincera e strumentalmente impegnata nella artificiosa creazione di un consenso politico-sociale ed elettorale basato su equivoci interessi di natura sessuale molto più che su reali e concreti bisogni di libertà etico-civile e di giustizia sociale, è stata l’imperdonabile colpa dei tanti cattolici che, a disdoro della propria fede religiosa, sono approdati ai banchi parlamentari di una sinistra parlamentare che sarebbe venuta facendo di un indiscriminato consumismo erotico-sessuale il maggior punto di forza del suo impegno politico. Molto meno colpevoli erano stati quei cattolici, noti come cattocomunisti, che, in epoche passate, senza voltare le spalle a Cristo, avevano ritenuto di poter e dover collaborare con uomini e donne di fede comunista ma di comprovata onorabilità non certo al fine di costruire una società sessualmente anarchica e ossessionata da forme virulente di ribellismo e licenziosità sessuali che possono solo contribuire ad un infruttuoso e pericoloso aumento della polverizzazione sociale e della stessa disgregazione giuridico-istituzionale della società. Volgare utilitarismo, consumismo, edonismo, naturalmente perseguiti con un gretto e perfido spirito autoritario: in questo consiste l’offerta politica dell’odierno Partito Democratico, guidato dall’incolta e inaffidabile Elly Schlein che i Togliatti, i Longo, i Berlinguer, avrebbero evitato di prendere a calci nel sedere, limitandosi a commiserarla. Tale offerta politica sembra essere penetrata profondamente anche tra molti cattolici, cattolici ormai rinnegati e convertiti alle ragioni ignobili dell’opportunismo e del nicodemismo.

Si dirà che il giudizio qui espresso sulla sinistra è molto riduttivo. Certo: dimenticavo di dire che essa è portatrice di un pensiero non solo individualistico e pansessualistico, consumistico e ribellistico, ma anche sincretistico, scientistico, nichilistico. Come possano dei cattolici, coscienti di esserlo, e quindi implicitamente credenti non solo in una verità rivelata ma nella stessa esistenza oggettiva della verità, a coesistere attivamente con i teorici del nulla, anzi a condividerne gli evanescenti programmi e ideali, è certo qualcosa di inspiegabile ma che non può non essere ricondotto al mysterium iniquitatis di cui parla drammaticamente san Paolo16. Dell’illusorio socialismo reale di un tempo sono rimaste solo alcune insignificanti galassie, come quella ecologista, femminista, genderista, ribellista ecc., ma che anche il cattolicesimo politico, con la sola e molto dubbia esperienza dell’esperienza riccardiana di sant’Egidio così impavidamente accogliente verso tutto e tutti purché materialmente o apparentemente miserabili, debba essere condannato all’insignificanza, non solo è inaccettabile ma è soprattutto motivo di doverosa riscossa spirituale nel nome di Cristo più che di una Chiesa che sta attraversando uno dei momenti più burrascosi, confusi e dolorosi della sua storia.

Cosa, dunque, sarebbe necessario fare? La prima cosa da fare è quella di tracciare un profilo del partito cattolico di un prossimo futuro, un profilo il cui elemento più caratteristico e distintivo dovrebbe essere quello di predicare e testimoniare integralmente, anche sul piano specificamente politico oltre che nella più normale quotidianità, il vangelo di Cristo, non esitando a denunciare, ognuno in base alla sua sensibilità e alla sua capacità carismatica, l’immoralità di tutti quei fenomeni di perversa trasgressività che infestano la vita civile, e a ricordare a partiti, autorità politiche e istituzionali di diverso grado, a magistratura ed esperti di diritto costituzionale, a esponenti di libera stampa e mezzi di comunicazione di massa, e naturalmente a gente comune, che i cattolici hanno il diritto costituzionale di professare liberamente, in privato e in pubblico, la propria fede e di esprimere di conseguenza idee, valori e proposte, che ad essa siano conformi o che da essa discendano per ragioni formali e sostanziali. All’articolo 2, comma 3, dell’Accordo tra Santa Sede e Repubblica italiana di revisione del Concordato lateranense, sottoscritto il 18 febbraio 1984, si legge chiaramente: «È garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», benché i cattolici, in particolare quelli dotati di intelligenza critica e di spiccate qualità civico-morali, anche in assenza di garanzie costituzionali, sarebbero tenuti ugualmente, sia pure a loro rischio e pericolo, a fare professione di verità e a non tacere su fenomeni di costume, elaborazioni intellettuali di qualsivoglia natura, scelte e deliberazioni politico-parlamentari, che essi dovessero ritenere oggettivamente incompatibili e conflittuali con i valori cristiani e cattolici17.

Non so se sia attendibile l’attribuzione a Gaetano Salvemini della seguente frase18: «I cattolici rivendicano le loro libertà in base ai nostri princìpi (laici) e negano le nostre libertà in base ai loro princìpi (religiosi)», ma, chiunque ne sia l’autore, questa frase va radicalmente corretta, intanto perché la madre di tutte le libertà civili e politiche, oltre che morali, culturali e spirituali, è l’universale e bimillenaria libertas cristiana, per cui la stessa laicità del sapere e della vita politica europei e occidentali ha origini e radici cristiane, e in secondo luogo perché i cattolici non negano le libertà laiche, che invece rispettano nei limiti in cui esse siano manifestazioni di reale e responsabile libertà morale e spirituale, non già, come troppo spesso oggi accade, di arbitrio etico-intellettuale19. Peraltro, la religiosità non è altro dalla razionalità, ma uno dei suoi possibili aspetti costitutivi, e da questo deriva altresì la legittima utilizzabilità della fede ovvero della ragione religiosa, che non comporta ovviamente un diritto ad interferire indebitamente nelle scelte più o meno libere della società politica e della stessa società civile, nel contesto della ragion politica e statuale e, più segnatamente, della prassi democratica. E qui, probabilmente, vale a dire su questo tema della fede e della religiosità come particolare forma o espressione di razionalità, filosofi e teologi cattolici avranno ancora molto da lavorare.

A conclusione di un dibattito a più voci, svoltosi presso la sede della rivista “La Civiltà Cattolica”, sul tema: “Religione, politica e tecnica. Quale sfida per il nostro domani?”20, il sociologo Mauro Magatti ha espresso il seguente giudizio: «Tutta la storia della democrazia è uno sforzo per sfuggire alla statocrazia, alla partitocrazia, alla pretesa della politica di dominare tutto. Tuttavia oggi la vicenda della società tecnica la stiamo vedendo nascere e svilupparsi sotto i nostri occhi, siamo solo all’inizio, e ne avremo a lungo»21. Questo significa che la democrazia, fondata su un principio di razionalità laica e relativistica secondo cui, nel quadro del libero e pubblico dibattito, tutte le opinioni, le idee, le convinzioni, risultano legittime benché non tutte si affermino politicamente nello stesso modo per effetto della regola maggioritaria preposta a decidere, spesso in modo bizzarro e contraddittorio, la loro maggiore o minore plausibilità, verrebbe assolvendo, per lo studioso citato, una funzione, laica appunto, di controllo circa i poteri talvolta esorbitanti che lo Stato, i partiti, la politica in generale, potrebbero rivendicare a sé, anche se la crescente tecnicizzazione della politica, generatrice in pari tempo di un potere tecnocratico sempre più presente e aggressivo, non può non porre alla politica, intesa nella sua originaria accezione di discorso su tutte le attività dello Stato, del governo e delle assemblee parlamentari e/o popolari e sull’insieme dei pubblici affari di una determinata comunità umana, problemi sempre più ingombranti circa la determinabilità del reale grado di autonomia decisionale e operativa da potersi riconoscere alla politica di questo tempo. Non è chi non veda che la forma più caratteristica, anche se non ancora esclusiva, della politica sia quella tecnocratica, cui giustamente una democrazia ancora sana o, almeno, non moribonda, non può che assegnare dei limiti invalicabili.

Ma quel che ancora la democrazia non può fare, e cioè assegnare dei limiti anche alle ambizioni e alle aspettative della scienza in generale — e quindi non semplicemente della conoscenza scientifica  applicata ai fenomeni economici e sociali di un determinato Stato o di più Stati, ma della ricerca pura e sperimentale svolta in tutti gli ambiti del conoscibile —, alle stesse aspirazioni critico-universalistiche del pensiero filosofico, e ai disegni culturali razionalistico-immanentistici di globalizzazione totalizzante dei modi di pensare e di vivere di tutti i popoli della terra, è invece ciò che può e deve essere fatto dalla religione, dalla teologia, e, in senso più stretto e preciso, dalla fede nell’unico e vero Dio annunciato da Cristo. La fede, infatti, in un Essere perfettissimo e onnipotente, infinitamente giusto e misericordioso, funge storicamente da idea-limite, da principio critico-regolativo di tutte quelle forme umane e storiche di razionalità che, pur lodevolmente impegnate nell’accrescimento delle loro scoperte, creazioni, invenzioni, tendono tuttavia non rendersi conto del fatto che, oltre certi limiti di espansione conoscitiva, sono il mondo, la natura, la realtà stessi ad ispessire la loro opacità e ad opporre, in modo sempre più tenace, resistenza agli ostinati assalti dell’intelletto indagante. In tal senso, la fede, principio e prodotto ad un tempo di ricerca razionale di senso in rapporto ai grandi enigmi dell’universo e della storia, si rivela il terreno più originale e fecondo di coltura del valore stesso della laicità22. Ma il potere laicizzante e relativizzante della fede e della ragione cristiane non si esercita solo verso le forme e i piani di quello che un tempo veniva chiamato sapere profano ovvero sapere mondano o terreno, ma anche nei confronti delle varie forme di sapere sacro, religioso, teologico, ivi comprese quelle storicamente cristallizzate del sapere cristiano e cattolico, in vero sempre bisognoso, non meno del sapere scientifico, di essere ripensato, riesaminato, controllato, approfondito e ampliato, non ai fini di una eventuale rimozione di dogmi religiosi e fondamenti dottrinari ma per depurarli da significati e usi impropri o arbitrari, non di rado ricorrenti anche nella storia della Chiesa e delle sue innumerevoli controversie dottrinarie, per migliorarne gradualmente la comprensione e l’interpretazione.

Come negare, infatti, che il vangelo non sia solo un libro religioso ma anche e forse soprattutto di critica religiosa? Non è forse vero, anche in questo caso al di là dei possibili usi strumentali che possono farsi di certi riconoscimenti, che tutta la vita di Gesù è scandita da un rapporto di conflittualità via via crescente tra questi e il Tempio, tra questi e la concezione tradizionale del sacro, tra questi e la pretesa della casta e della classe sacerdotali di possedere la chiave della sapienza e del volere divini, e quindi tra questi e la teologia farisaica, falsa e strumentale del suo tempo, tra questi e le errate aspettative religiose e messianiche di un intero popolo? A cosa si deve fondamentalmente la morte e la condanna a morte del Cristo se non alla sua contestazione sistematica di un’immagine superficiale e distorta di religiosità, di una rappresentazione soggettivistica e quindi parziale e scorretta della divinità, di un modo fallace di intendere i rapporti tra credenti e Dio stesso?23. La fede è più facilmente strumentalizzabile di quanto non si pensi e non sono rari i casi in cui essa si trovi ad essere declinata o in forma autoritaria e reazionaria o in forma demagogica, populistica, ribellistica. Ecco perché è più che mai necessario valorizzare criticamente la fede come dono: proprio per evitare che tale dono, con le sue caratteristiche originarie e costitutive, non venga usato male, non venga deturpato e svilito dai suoi riceventi, che, volta a volta, possono essere rappresentanti ministeriali e gerarchici della Chiesa, teologi e studiosi di aree disciplinari diverse, persone comuni battezzate in Cristo. In questo senso, la fede, che non è mai scontata o irreversibile, almeno su  questa terra non ha padroni assoluti, pur essendo comprensiva di regole, norme, precetti e insegnamenti universali e vincolanti, sapientemente custoditi e trasmessi, anche contro possibili tentativi interni di sovvertimento dottrinario, da una Chiesa peccatrice ma pur sempre protetta e ispirata, persino nei periodi più oscuri e drammatici della sua storia, dallo Spirito Santo.

Se la fede smette di pensare se stessa, la sua razionalità, di vigilare responsabilmente sui suoi compiti, smette altresì di creare cultura religiosa e cultura tout court, come dice Riccardi ma non nel senso separatistico inteso da quest’ultimo, non cioè nel senso che nel nome della fede sarebbe inopportuno costituire, in base a ciò che sembrerebbero insegnare precise e recenti esperienze storiche, un partito o un nuovo partito cattolico e sarebbe invece molto meglio agire sui vari fronti dell’umano e del sociale come un lievito invisibile ma fecondo, bensì nel senso più ampio di una fede volta ad evangelizzare, non certo a costo zero, il mondo nella sua generalità e il mondo nei suoi ambiti particolari, a cominciare da quello delicatissimo e spesso decisivo della politica. Certo, l’esperienza insegna sempre qualcosa ma l’esperienza insegna soprattutto a fare meglio le cose, ad agire più onestamente per il pubblico bene: la Democrazia Cristiana, dopo più di 40 anni di governo, ha dichiarato clamorosamente il suo fallimento, ma questo non significa né che essa non abbia comunque contribuito allo sviluppo economico e al benessere sociale dell’Italia, né che una nuova forza politica dichiaratamente e coerentemente cattolica sarebbe inevitabilmente condannata a ripeterne gli errori e a condividerne l’infausto destino.

Va osservato che, in questo Paese, si è avuta, quasi parallela alla storia democristiana, la storia di un partito che mai avrebbe esitato a chiamarsi comunista e di un partito in linea di principio ateo. Quel partito non esiste più perché la storia ha dimostrato che una società di liberi ed eguali non si può ottenere né con la menzogna, né con la violenza politica, non già semplicemente e necessariamente istituzionale, ma eversiva e rivoluzionaria, sia pure organizzata su base egemonica, ma può essere perseguita solo con la mite forza dell’onesta e lucida ragione, con l’accorata e responsabile protesta civile, con una paziente ma mai arrendevole opera di persuasione.  La storia, d’altra parte, ammesso che possa insegnare qualcosa, non ha ancora dimostrato che lo stesso obiettivo non potrebbe essere meglio perseguito, se non raggiunto, alla luce di una fede politica, di modalità e strumenti di azione politica, non solo di ispirazione cristiana (anche il liberalismo, il socialismo, il fascismo, il globalismo democratico possono essere di ispirazione cristiana) ma direttamente ed esplicitamente richiamantisi al cristianesimo evangelico. E se anche questa possibilità potesse risultare storicamente perseguibile solo in modo illusorio, non foss’altro che per la presumibile, irriducibile opposizione di forze visceralmente anticattoliche, non è forse stato detto che la fede deve comunque risplendere nel mondo, soprattutto se completamente avvolto dalle tenebre?24.

E’ la mentalità tecnocratica, è la ragione strumentale che, applicate massicciamente alla globalizzazione totalizzante in atto in tutte le democrazie del pianeta ma anche in sistemi politici non democratici, hanno finito per configurarsi, a dispetto dei criteri relativistici che dovrebbero connotare tutti gli eventi storico-umani, come modelli valoriali assoluti e completamente definalizzati rispetto alla loro effettiva destinazione morale e ai modi di tale destinazione. Si scopre, in modo forse inopinato ma non imprevedibile, che la lotta laicista della cultura postmoderna agli assoluti della fede religiosa e cattolica abbia per lungo tempo nascosto, nel nome di un’umanesimo civile più ostentato e sfruttato che praticato, il suo vero obiettivo: quello di poter amministrare i beni materiali e immateriali del mondo, le vite stesse dei suoi abitanti, senza più ostacoli, freni, impedimenti di natura etica e soprattutto religiosa. Il filosofo cattolico Borghesi ha affermato che tale processo ha finito per travolgere destra e sinistra sotto lo sguardo pensoso e turbato di un cattolicesimo, si pensi a Romano Guardini, già alla fine degli anni ’50 molto critico sui processi della tecnicizzazione dell’esistenza, che avrebbe finito per trovare sotto il pontificato di papa Francesco un punto di vista ben poco indulgente verso un’economia oltranzisticamente produttiva, funzionale, redditizia, efficiente, del tutto indifferente agli scarti umani e sociali che essa viene generando per poter mantenere alti o sempre più alti i suoi livelli di profitto25, ma non sembra che Borghesi abbia sentito il bisogno di precisare che, almeno per quanto riguarda la destra e la sinistra italiane, esse non siano state ugualmente accomunate da un’adesione indiscriminata alla fede tecnocratica globalizzatrice del XXI secolo, non foss’altro che per avere la prima tenacemente difeso, in un mondo segnato da un multiculturalismo, da un transnazionalismo e da un globalismo unificante esasperati, l’idea di nazione, di comunità nazionale, di sovranità e tradizione popolari, di patria, che, checché ne dicano tutti gli ipocriti benpensanti del fronte progressista, sono baluardi di libertà, di autonomia decisionale, di responsabilità morale e religiosa, senza cui non si può essere chiamati a collaborare alla creazione di un mondo sempre più libero da frontiere, da contrapposizioni, da avversioni.

Per lungo tempo, si è detto che l’Unione Europea avrebbe garantito finalmente la pace tra i Paesi continentali, come mai era accaduto in passato di poter fare, ma ancora una volta le repliche della storia sono state più efficaci degli sproloqui dei politici europei, non solo perché non si è riusciti ad evitare che scoppiasse una guerra tra ucraini e russi quasi nel centro del continente europeo, ma anche perché le frizioni tra molti degli Stati membri dell’Unione sono talmente alti e ricorrenti da scoraggiare persino chi intendesse coltivare pietose illusioni. E, d’altra parte, per quanto riguarda il ruolo profetico da Borghesi reiteratamente riconosciuto a Bergoglio, non è certo destrutturando e stravolgendo continuamente la bimillenaria dottrina della Chiesa, che questo papa possa criticare le ideologie liberiste, economicistiche, monetaristiche, produttivistiche e consumistiche, nel nome e per conto di un cattolicesimo capace di alimentare la fede e di ridare speranza a masse oceaniche di persone sistematicamente deluse dalle soluzioni ingannevoli, sataniche, elaborate viscidamente da gruppi internazionali di potere che non possono avere a cuore né la dignità, né la felicità possibile dei popoli, ma unicamente il soddisfacimento di pulsioni egocentriche e irrazionali di piacere, di potere e di arricchimento.

Qui, il problema non è quello, come vorrebbe dare ad intendere moralisticamente il laicissimo Giuliano Amato, anche lui protagonista del dibattito di cui sopra, di voler rifiutare la diversità, di voler anteporre il bisogno di sicurezza sul riconoscimento dei diritti, di volersi sottrarre a determinati princìpi costituzionali che riconoscono uguale dignità a tutti gli esseri umani, con politiche antitecnocratiche, perché è proprio la tecnocrazia, accolta e condivisa, con poche eccezioni, dalle sinistre democratiche di tutto il mondo e dallo stesso Amato che, nel corso degli anni ’70, gli studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma denominavano non a caso “professor azzeccagarbugli”, che avrebbe reso eticamente e politicamente ingestibile la diversità, che avrebbe abnormemente accresciuto la percezione dei popoli di come ormai il doveroso riconoscimento dei diritti ai migranti e ai rifugiati di qualunque etnìa, nei limiti beninteso delle oggettive possibilità di accoglienza, assistenza e integrazione, disponibili all’interno dei singoli Stati, potesse risultare conflittuale con l’altrettanto doveroso diritto costituzionale alla sicurezza e alla decorosa sussistenza economica che va riconosciuto alle popolazioni indigene.

Per tutto questo, non posso condividere la proposta, forse sincera ma comunque destinata a perpetuare la mentalità opportunistica, camaleontica e trasformista che ha sempre prevalso nella storia politica italiana dal secondo dopoguerra ad oggi, di un rilancio, di una rifondazione statutario-programmatica, di un radicale rinnovamento politico del Partito democratico e del relativo patto politico esistente tra i cattolici, i liberali e gli ex o attuali comunisti che ne fanno parte. In che modo dovrebbe essere rinnovato il PD, sulla base di quali nuovi accordi, in virtù di quale fede realmente unificante?26 E quale forma di laicità occorrerebbe dare a questo nuovo partito politico di centro-sinistra per consentirgli di risultare realmente rappresentativo di tutte le sensibilità etiche, culturali, religiose in esso convergenti? Non mi pare che Salvati si preoccupi di dare risposte soddisfacenti a tali quesiti e, d’altra parte, i suoi compagni di cordata, prevedendo l’inevitabile obiezione, si affrettano a precisare: «non ha senso dire che ci sono valori non negoziabili. Non negoziabili sono solo quei valori che sono incorporati nel processo democratico. I nostri valori – quelli della nostra etica extrapolitica – possono essere non negoziabili per noi, nelle nostre scelte personali, ma sono necessariamente negoziabili nel campo della politica, perché la politica o è negoziazione o è guerra. Laicità è questo: accettazione del fatto che la politica è negoziazione tra diverse etiche, oltre che tra diversi interessi. Una negoziazione che si svolge dentro il quadro dei valori democratici e costituzionali»27.

Anche a voler prendere sul serio questa argomentazione, si può tuttavia osservare che, poichè non negoziabili possono ritenersi i valori incorporati nel processo democratico, anche i valori cattolici lo siano almeno nel senso che sono ormai parte integrante del patrimonio culturale e religioso nazionale democraticamente acquisito e che molti cittadini di fede cattolica ritengono incompatibili i loro valori religiosi con valori altri almeno all’interno della stessa formazione politica; che certi valori cattolici non valgono e non devono valere, per mandato divino, solo per scelte personali di vita ma anche per scelte collettive e comunitarie di vita e pertanto non potranno mai essere necessariamente negoziabili nel quadro del pubblico e democratico dibattito; che sarebbe immorale e sacrilego negoziare in sede decisionale con chi si rifiuti ostinatamente di riconoscere le origini sovrannaturali della vita umana e tutti gli obblighi morali che ne derivano ai fini della sua conservazione e della sua difesa; che la politica è di certo negoziazione o guerra ovvero contrapposizione e conflitto politico-parlamentare all’interno di uno Stato ma che questa alternativa non si pone necessariamente all’interno di un determinato gruppo o partito politico che preveda la presenza di cattolici, semplicemente perché veri e non falsi cattolici non possono ritenere di entrare a far parte di un gruppo o partito politico in cui vi sia anche chi proponga l’eutanasia, il libero amore, l’identità di genere, il matrimonio omossessuale e la famiglia queer, l’indebita appropriazione della proprietà altrui e l’appartenenza ad una non meglio definita identità liberal-libertaria di marca strettamente individualistica28.

Ma poi perché cattolici coerenti e autonomi anche rispetto alle spesso discutibili indicazioni delle gerarchie ecclesiastiche, dovrebbero aiutare i fautori di un laicismo esasperatamente ottuso e inaffidabile a sopravvivere a idee e a modelli esistenziali oggettivamente lesivi di un principio di integrale razionalità critica e di una vita degna di essere vissuta? In base a quale criterio di razionalità, una seria e disciplinata laicità può chiudersi pregiudizialmente alla trascendenza e al sacro? In base a quali criteri non ideologici ma espistemici, sarebbe possibile stabilire che le proprie scelte, ancorché libere, siano anche razionali, ragionevoli e vantaggiose per l’universale comunità umana?29 Sono interrogativi, tra altri possibili, che solo un nuovo partito cattolico, monoliticamente e pluralisticamente cattolico, potrà continuare a porre in un ben più ampio uditorio di natura politica. Si potrà forse considerare politicamente irrealistici, soprattutto in un sistema bipolare come quello vigente, sia la possibilità di costituzione di un nuovo soggetto politico di matrice e finalità esclusivamente cattoliche, sia, ancor più, il tentativo di quest’ultimo di incidere significativamente, anche se non a brevissima scadenza e sia pure a mezzo di collaborazioni congiunturali con altre forze politico-parlamentari, sulla complessiva vita politica nazionale e sullo stesso scenario politico internazionale. Ma bisogna pur osservare che, intanto, un impegno cattolico in politica non potrà mai essere concepito trionfalisticamente neppure nel caso in cui, apparentemente, dovessero stabilirsi relazioni di buon vicinato con altri soggetti politici, e soprattutto che, in ogni caso, l’esito di una simile iniziativa non sarebbe scritta in alcun trattato di politologia o scienza della politica, bensì solo nella mente di Dio e nella capacità degli uomini di capirne, assecondarne, con intelligenza e adamantina passione spirituale, i disegni pure profondi e misteriosi.

Di certo, il realismo di cui domani vorranno nutrirsi i cattolici impegnati nell’arena politica solo armati della loro fede evangelica, non sarà quello ben noto, e invalso nella prassi politica di tutti i tempi, di un approccio cinico e amorale ai problemi di politica interna ed internazionale, anche se questo non comporterà di necessità una proiezione verso il dover essere della politica completamente sganciata dalla consapevolezza del suo essere. Solo per dare un’idea, il realismo del cattolicesimo politico e militante di domani dovrebbe avvicinarsi a quello elaborato, molti decenni or sono, dal teologo protestante Reinhold Niebuhr, e denominato, ossimoricamente, “realismo cristiano”. Ecco, dovrebbe trattarsi di un realismo capace di conciliare gli insegnamenti etico-morali della tradizione cristiana con le avvertenze più sicure e rilevanti dell’antropologia, della politologia e della stessa polemologia. Come dire: un realismo basato su una fede che induca ad agire con fiducia, ma non per avventatezza, anche al di là di quel che oggettivamente consentirebbero o consiglierebbero lo stato reale delle cose e la previsione di determinate reazioni umane, ma anche su una capacità intuitiva e conoscitiva, congetturale e deduttiva, di analisi e di previsione. Bisognerebbe essere in grado di amalgamare etica, teologia, scienze umane e politica, e di non coltivare né una visione troppo pessimistica, né una visione troppo ottimistica della natura umana: un’impresa non di poco conto ma, con l’aiuto di Dio, non impossibile da realizzarsi almeno entro certi limiti. D’altra parte, il realismo cristiano, pur di matrice protestante, è fatto proprio anche dalla Chiesa cattolica. Il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” del 2004 recita testualmente così: «il realismo cristiano vede gli abissi del peccato, ma nella luce della speranza, più grande di ogni

male, donata dall’atto redentivo di Gesù Cristo, che ha distrutto il peccato e la morte» (n. 121); esso, pur apprezzando gli sforzi volti ad estirpare la povertà, mette in guardia «da posizioni ideologiche e da messianismi che alimentano l’illusione che si possa sopprimere da questo mondo in maniera totale il problema della povertà»30.

Da parte sua, Giovanni Paolo II non esitava a denunciare il realismo politico di coloro che già, a cavallo tra anni ottanta e anni novanta, si apprestavano a «bandire dall’arena politica il diritto e la morale» (Centesimus Annus, n. 25), e a chiarire che, non essendo la fede né ideologica né ideologizzabile, essa portasse a dissentire radicalmente da tutti coloro che pretendessero di imprigionare in rigidi schemi politico-ideologici la sempre mutevole realtà socio-politica e non riconoscessero che la vita umana può realizzarsi storicamente solo in condizioni diverse e mai perfette31.

Francesco di Maria

NOTE

1 D’altra parte, il concetto di laicità non richiede di essere coniugato necessariamente, in modo univoco, con qualunque istanza venga levandosi in seno alla società civile e alla stessa società politica: è vero che un’idea, determinati valori, determinate aspettative emancipative, possono assumere storicamente un significato laico, razionale e civile, anche all’interno di uno Stato che non intenda riconoscere tale significato, ma questo non significa che, tutte le volte che uno Stato, in particolare uno Stato democratico, non ritenga di dover convertire in legge o in norma giuridica una domanda, un appello, una petizione, la laicità stia inevitabilmente dalla parte di quei segmenti di società civile e di società politica che li abbiano prodotti. In uno Stato democratico, la laicità comporta che, dopo attenta e approfondita discussione, ove non sussista convergenza tra le parti che si confrontano, si deliberi a maggioranza, indipendentemente dal fatto che, alla base di qualcuna delle posizioni espresse, agisca, dichiaratamente o meno, una qualche discriminante di natura religiosa, anche perché, in caso contrario, si dovrebbero ritenere di ispirazione laica esclusivamente le idee o le proposte di natura atea o antireligiosa. Né sarebbe più attendibile un’idea neutra di laicità, come quella proposta da alcuni filosofi e politologi, in quanto, dal punto di vista etico, civile e giuridico, che sono le dimensioni più appariscenti della convivenza e della vita associata, la neutralità delle decisioni da assumere o dei progetti da varare, sarebbe oggettivamente inverificabile, così come assai poco realistica è l’ipotesi di uno Stato capace di «garantire l’equidistanza rispetto a visioni ideologiche o religiose che favorirebbero l’una o l’altra parte». Molto più ragionevole è limitarsi a constatare che «la società democratica si alimenta della partecipazione dei cittadini, che non sono neutrali e non sono monadi. Ognuno di noi si confronta con valori, con princìpi, con tradizioni, con innovazioni culturali e scientifiche, con le proprie comunità di appartenenza (familiare, religiosa, civile, lavorativa). Dentro questa cornice passano il nostro discernimento e la nostra capacità di scelta. Quindi, laicità non può essere neutralità vuota, ma spazio pieno di confronto. È all’interno di esso che si giocano la libertà di manifestare il proprio pensiero o di credere in una religione, di dare ragione delle proprie speranze» (Editoriale, Dialogare nella laicità?, in «La Civiltà Cattolica», 16 ottobre 2021, n. 2, pp. 6-7).

2 Si può essere solo oggi consapevoli della vera natura dei cambiamenti e delle promesse di felicità collettiva di cui, a suo dire, addirittura nel nome della rivoluzione, sarebbe stato gravido il secolo XXI: E. Macron, Rivoluzione, Milano, La nave di Teseo, 2017.

3 Vescovo M. Toso, Alle radici dell’impegno sociale e politico, in Rivista salesiana “Rassegna Cnos” (Centro Nazionale Opere salesiane), 2023, Anno 39, n. 1, pp. 35-36.

4 Una presenza cattolica che, per quel che, sia pure sommariamente, si è venuto indicando, potrebbe risultare anche più solida e incisiva di quella auspicata da F. Pizzul, Perché la politica non ha più bisogno dei cattolici. La democrazia dopo il Covid 19, Milano, Edizioni Terra Santa, 2020.

5 E. Galli Della Loggia, L’eclissi cattolica in politica, in “Corriere della Sera” del 28 agosto 2022.

6 Paolo VI, Omelia per  la Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 1972.

7 Vescovo M. Toso, Alle radici dell’impegno sociale e politico, citato.

8 Su questo tema mi sono soffermato abbastanza in alcune mie precedenti pubblicazioni in volume cui si rinvia senza specifiche e superflue indicazioni.

9 Questa è, per esempio, la posizione di A. Riccardi, I cattolici e la politica: la fede che «crea cultura», in “Corriere della Sera” del 19 settembre 2022.

10 Ivi.

11 Quello che disturba non maieuticamente, sul piano razionale e spirituale, delle più recenti analisi di Riccardi, noto soprattutto come padre fondatore della comunità internazionale di sant’Egidio, è la tendenza, non incontrovertibilmente priva di ambiguità, a sottolineare che il noi è sempre più importante dell’io, la comunità o la collettività sempre più importante del vissuto individuale e spesso impedito nella ricerca di un rapporto con gli altri, il global più incentivante del local,  ma resta il fatto che il noi non possa rigenerarsi se non rigenerando l’io, la comunità ecclesiale e la collettività sociale non possano rigenerarsi se non attraverso una maturazione della coscienza personale degli individui, e il senso etico dell’appartenenza a un tutto, ad una realtà globale in continuo movimento, non possa svilupparsi e affinarsi se non provando a realizzare idee e valori significativi di fede cristiana nella piccola e circoscritta realtà geografico-culturale in cui stabilmente si risiede e si opera, spesso in condizioni di precarietà esistenziale e di isolamento spirituale: A. Riccardi, Rigenerare il futuro. Dall’io al noi, Brescia, Morcelliana-Scholé, 2024.

12 Di tanto in tanto, si viene tuttavia reclamando, anche se in astratto, il ritorno o la presenza di un forte partito politico cattolico organizzato, come nel caso di G. Merlo, La questione cattolica? Non esiste, in HuffPost del 6 settembre 2022, in cui si legge: «il peso e il ruolo dei cattolici italiani nella geografia pubblica si è fortemente indebolito in questi anni. Non solo perché manca – ancora? – un partito organizzato ma per la semplice ragione che si è progressivamente indebolita e smarrita la capacità di elaborazione politica e programmatica dei cattolici stessi».

13 G. Infante, Una riflessione sulla “questione cattolica” riproposta da Andrea Riccardi, in sito on line “Politicainsieme.com”, 19 agosto 2022. Demos ovvero Democrazia solidale. La forza del noi è il raggruppamento politico, collegato con il PD, cui hanno dato luogo semiclandestinamente e abusivamente o almeno non democraticamente, nel 2018, Andrea Riccardi e i suoi amici. Ci si riferisce, in particolare, alle inquietanti rivelazioni di un membro della comunità, il professore di liceo Giuliano Fiorese, poi uscitone dopo 25 anni di appartenenza ad essa: Vite a metà. Un fuoruscito racconta la comunità di sant’Egidio, in Rivista “Adista”, Roma, 31 maggio 2003.

14 S. Zurlo, Il centro di potere di Monti è la comunità di Sant’Egidio lobby rossa dei finti poveri, in “Il Giornale” del 30 dicembre 2012.

15 L’accusa, precisa e ben circostanziata, è riportata in S. Magister, Enigma Sant’Egidio. Era guerra e la chiamavano pace, in https://chiesa.espresso.repubblica.it/, 7 novembre 2001.

16 Molto istruttivo al riguardo, sotto diversi aspetti, resta il testo di E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.

17 Cfr. G. Angelini, La libertà a rischio. Le idee moderne e le radici bibliche, Brescia, Queriniana, 2017; A. Nobile, Quello che i cattolici devono sapere. Almeno per evitare una fine ridicola, Tavagnacco (Udine), Edizioni Segno, 2015; P. Consorti, Diritto e religione. Basi e prospettive, Roma-Bari, Laterza, 2020.

18 Cfr. S. Lariccia, Salvemini e le libertà di religione, Roma, Le Frecce di Critica Liberale, 2023.

19 Si veda (A cura di A. Cortesi-A. Tarquini), La laicità e le radici cristiane in Europa, Firenze, Nerbini, 2012.

20 Su tale evento si veda l’articolo di F. Gnagni, Tecnica, politica e religione. Il dibattito sul libro di Magatti, nel sito on line “Formiche.net”, 28 ottobre 2018.

21 Di M. Magatti, si veda anche Oltre l’infinito. Storia della potenza dal sacro alla tecnica, Milano, Feltrinelli, 2018.

22 Si possono vedere, al riguardo, (A cura di L. Savarino), Laicità della ragione, razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e repliche, con testi di Oreste Aime, Pietro Barcellona, Benedetto XVI, Claudio Ciancio, Piero Coda, Fulvio Ferrario, Wolfgang Huber, Paolo Ricca, Sergio Rostagno, Mario Tronti, Gustavo Zagrebelsky, Torino, Claudiana, 2008; D. Antiseri, L’invenzione cristiana della laicità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017; AA.VV., (A cura di A. Canavero-D. Saresella), Cattolicesimo e laicità. Politica, cultura e fede nel secondo Novecento, Brescia, Morcelliana, 2015; A. Copson, Laicità. Politica, religione, libertà, Roma, Nessun dogma, 2018; benchè preconcetto e aprioristicamente orientato a qualificare non solo come non razionali ma addirittura come irrazionali i fondamentali valori religiosi e cristiani, merita di essere qui citato, per chiarezza espositiva e come qualificato contributo al dibattito sul confronto tra cultura laica e cultura religiosa, anche il libro di S. Rodotà, Perché laico, Roma-Bari, Laterza, 2009.

23 Da questo punto di vista non è infondata la tesi di un dissidente cattolico, poi sfruttata polemicamente in area protestante, di una laicità del vangelo: José Maria Castillo (Sanchez), La laicità del Vangelo, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 2016. L’obiettivo polemico di questo libro erano la Chiesa e l’episcopato preconciliare ma ciò non toglie che, a prescindere dai torti o dalle ragioni del suo autore, vi si possa cogliere un indizio significativo di come gli approcci alla fede e al sacro, anche da parte di persone, studiosi, ecclesiastici autorevoli e qualificati, possano risultare talvolta particolarmente disinvolti e improvvidi.

24 Per quanto in parte ingenua, merita attenzione la riflessione di B. Sorge, La Chiesa e la globalizzazione, in Rivista “Aggiornamenti sociali”, 2002, n. 5, pp. 357-363.

25 Borghesi è tra i partecipanti al già ricordato incontro di studio su “Religione, politica e tecnica. Quale sfida per il nostro domani?”, citato.

26 Alludo, per esempio, alla proposta di M. Salvati, Un partito di centrosinistra per il XXI secolo, Orvieto, Associazione “Libertà eguale”, 29-30 settembre 2006.

27 C. Mancina e G. Tonini, Quale laicità per il Partito Democratico?, ivi, 1 ottobre 2006.

28 Cfr. M. Lilla, L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica, Venezia, Marsilio, 2018.

29 M. Aparecida Ferrari, Per una comprensione non ideologica della laicità, in (A cura di L. Allodi-M. A. Ferrari), La secolarizzazione in questione, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 71-95.

30 Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 183, ma mi corre l’obbligo di precisare che tutta la parte conclusiva del presente scritto si richiama quasi interamente alle chiare e precise annotazioni di Luca G. Castellin, Realismo politico e realismo cristiano, in Rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, “Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Le cose nuove del XXI secolo”, 2022, 1, pp. 59-65.

31 Tuttavia, che il rapporto tra fede e ideologia sia verosimilmente più articolato e problematico di quanto Giovanni Paolo II non intendesse giustamente concedere dal punto di vista della normatività della fede, è chiaramente dimostrato anche dalla brillante biografia dedicata al vescovo piacentino Giacomo Maria Radini Tedeschi, di cui sarebbe stato segretario a Bergamo Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII: G. Battelli, Un pastore tra fede e ideologia. Giacomo M. Radini Tedeschi 1857-1914, Genova, Marietti 1820, 2000. Sui possibili conflitti tra fede e ideologia, si veda anche E. Bellini, Un esempio di conflitto tra fede e ideologia. Documenti della prima controversia ariana, Milano, Jaca Book, 1974 e F. Ferraro, Fede e ideologia, in Rivista “Confronti”, 18 luglio 2022.

Lascia un commento