L’economia giusta

Questo scritto è dedicato a tutti quegli accademici che non sono mai sfiorati dal dubbio che la loro vita potrebbe essere stata attraversata, forse inutilmente, da impalpabili ma salvifiche presenze angeliche: proprio come accade nel mondo economico dove agisce una mano invisibile, né benefica né malefica, che, spesso all’insaputa dei soggetti che vi operano, viene creando una trama sapiente di verità e insindacabile giustizia, gravide di feconde consolazioni per gli spiriti che avranno cercato di leggerne e intenderne il senso e di amare frustrazioni per gli spiriti che non ne avranno percepito neppure la possibile esistenza.

L’economia è politica, è già politica, è politica in se stessa, in quanto non si dà modo di produzione o sistema economico che non corrisponda ad una precisa scelta politica e non si configuri come prodotto di una adesione programmatica a determinare linee di politica economica1. Non c’è una politica, da una parte, e uno sviluppo economico, dall’altra, e quasi indipendente dalla prima, e di cui la politica debba cogliere punti di forza e punti di debolezza per decidere in che modo sia possibile valorizzare e potenziare i primi  ed eliminare o ridurre i secondi, in quanto ogni sistema economico ha, strutturalmente, i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, vantaggi cioè che comportano necessariamente degli svantaggi, e svantaggi la cui eliminazione comporterebbe anche quella dei vantaggi.

Ogni politica contiene costitutivamente una data idea economica, un programma economico con vantaggi e corrispondenti svantaggi in esso incorporati, e ogni volta il problema è semplicemente quello di valutare se, per ottenere determinati vantaggi, valga la pena di tenersi anche gli svantaggi, o se quest’ultimi siano socialmente così paralizzanti o sfavorevoli da ritenere opportuna l’elaborazione politica di una strategia economico-finanziaria alternativa a quella ritenuta degna di essere scartata. Quindi, l’economia è una scienza, oltre che una pratica, ma è anche una struttura o una dimensione fondamentale e plurivalente della teoria politica e dell’arte di governo di cui queste ultime sono chiamate istituzionalmente a fissare o a stabilire opzioni specifiche e concrete modalità attuative. Così come non si dà una scienza economica oggettiva, essendo pur sempre condizionata da precise intenzionalità soggettive, allo stesso modo non si dà una scienza politica oggettiva e un governo capace di applicarla indefettibilmente, a prescindere da particolari criteri valutativi e da precise e spesso erronee scelte morali2.    

Ne consegue, altresì, che socialmente ingiusta o antidemocratica non sarà l’economia in sé, ma la particolare forma o configurazione che la politica e gli stessi operatori economici avranno inteso conferire al piano economico da attuare in un determinato contesto comunitario o nazionale. Anche se il mondo economico è ormai un mondo caratterizzato da molteplici e profonde interdipendenze e connessioni internazionali, a cui si valuti di non poter opporre scelte completamente discordanti o divergenti, è pur sempre un elemento politico soggettivo a far sì che un modello economico risulti più o meno condivisibile o, al contrario, discutibile e dannoso. L’economia capitalistica è un’economia che, lungi dal generare una prosperità economica generalizzata, produce una società contraddittoria in cui una grande povertà coesiste con una grande abbondanza, ma non a causa di automatismi economici indipendenti da una volontà politica, bensì a causa della mancanza di una volontà che venga esercitandosi criticamente su meccanismi inerziali legati ad una scelta originaria di favorire l’interesse economico del singolo, l’interesse egoistico illuminato, nella convinzione che esso operi sempre nell’interesse pubblico.

Keynes avrebbe contestato questo assunto, aggiungendo anche che non è neppure «vero che l’interesse egoistico sia generalmente illuminato»: «Con l’analisi macroeconomica condotta nella Teoria generale, Keynes nega alla radice la validità epistemologica e pratica di un ordine spontaneo verso cui il sistema tende per realizzare il maggiore benessere possibile, dimostrando, al contrario, che «senza un’azione deliberata è incapace di portarci dalla nostra attuale povertà alla nostra potenziale abbondanza»3. Ben conscio, quindi, del frequente approccio dell’economia a posizioni o soluzioni troppo univoche o unilaterali, che non sempre riflettono la complessità del divenire storico, Keynes giunge persino ad «affermare – e non stupisce – che “l’economia è una scienza molto pericolosa”, richiamando l’attenzione sul fatto che i “tempi moderni” necessitano di “nuove politiche e nuovi strumenti per adeguare e controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea odierna di che cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della stabilità e della giustizia sociale”»4.

Una delle domande centrali del dibattito economico-politico in corso verte su quali oggi debbano essere le politiche e gli strumenti operativi più idonei a fare in modo che lo Stato funga da regolatore non fittizio di un libero mercato sempre più frequentemente lasciato a se stesso e ai suoi perversi meccanismi di trasformazione di un capitale produttivo in un capitale di rendita, a mezzo di una finanziarizzazione incontrollata che comporta danni rilevanti per gli interessi collettivi, in quanto una delle principali conseguenze delle pratiche di finanziarizzazione consiste nella riduzione di un numero crescente di beni primari e collettivi a titoli finanziari che sono un particolare tipo di merce scambiata nei mercati5.

Al di là di specifici approcci tecnico-economici, che non si avrebbe qui la necessaria competenza per discutere analiticamente e giudicare in modo attendibile, ad una problematica di certo così cruciale, e non da oggi, per la società democratica nell’epoca della grande globalizzazione, appare sempre più difficile non prendere atto di come l’economia, lungi dal poter tornare o continuare a rivendicare oggi la sua assoluta autonomia e la totale libertà di dispiegamento delle sue forze produttive persino nel quadro di un possibile gioco al massacro, debba essere ricondotta al suo tradizionale ruolo di ancella della ragione politica dello Stato, di strumento indispensabile dello Stato per il perseguimento di un ideale, sempre perfettibile, di giustizia sociale. C’è sempre un punto-limite nella storia oltre il quale un distorto sviluppo economico e finanziario rischia di dar luogo a forme insostenibili e altamente conflittuali di socialità, rischiando altresì di provocare un tracollo non poco traumatico dell’intero sistema produttivo di riferimento. In questo senso, un’etica economica non è necessaria solo in senso umanitario, ma anche per ragioni strettamente utilitaristiche di natura strettamente economica e produttiva. Le forze economiche e produttive non possono evolversi spontaneisticamente per un tempo indefinito senza arrecare traumi al tessuto sociale, agli scambi commerciali e alle relazioni finanziarie internazionali. Certo, la storia umana è capace di adattarsi a molti dei gravi dissesti che vi ricorrono, e tuttavia bisogna chiedersi se forme particolarmente selvagge e irrazionali di sviluppo economico-finanziario non risultino alla lunga fortemente pregiudizievoli ai fini di un complessivo progresso della civiltà e sostanzialmente incompatibili con un’evoluzione sufficientemente equilibrata, ordinata, proficua e arricchente del genere umano6.

Non è che non si debba assicurare il libero gioco economico, ma, nell’interesse stesso della tenuta e della funzionalità del sistema economico in generale, bisogna fare in modo che esso possa svolgersi all’interno di alcune ben chiare coordinate etico-giuridiche, di alcune regole che abbiano la funzione di delimitare il perimetro e le modalità di svolgimento in cui e secondo cui il gioco possa avere correttamente luogo. Tali regole, a seconda degli specifici contesti storico-culturali di riferimento, possono essere intese in termini di etica laica o essere ispirate ai valori comunitari e personalistici della tradizione cristiana7. Ma tali regole non sono esterne alla scienza economica come non sono esterne ai termini più ricorrenti di quest’ultima, come benessere, felicità, mercato, dono, reciprocità o gratuità, la cui complessità però, lungi dal poter essere spiegata semplicemente in chiave economica, rinvia ad altri ambiti disciplinari in cui sia possibile rinvenire i molteplici, originari significati di volta in volta acquisiti dall’economia nell’insieme delle sue articolazioni e dimensioni teoriche. Le regole non sono esterne o eterogenee al corpus economico e a tutte le possibilità operative o progettuali da esso contenute, in quanto, sebbene importate da esperienze di vita diverse da quelle strettamente economiche, sarebbero state poi gradualmente acquisite dai vari cultori di studi economici come elementi stabili e caratteristici di questi stessi studi, fino al punto di risultarne oggi assolutamente costitutivi.  

Un valente economista cattolico come Luigino Bruni è venuto pienamente dimostrando come la storia del pensiero economico sia spesso inseparabile dalla storia del pensiero religioso e come economia e fede siano molto molto più strettamente intrecciate di quanto generalmente non si creda8. Anche se personalmente penso che non possa esistere una “economia buona”, espressione prediletta dal papa in carica, che, nei limiti delle umane possibilità, non sia anche un’ “economia giusta”, in quanto la produzione e la distribuzione della richezza, la massimizzazione della condivisione sociale delle risorse disponibili, l’azzeramento o la forte riduzione della disoccupazione, il perseguimento del bene comune, sono finalità che possono raggiungersi innanzitutto secondo princìpi di razionalità e di giustizia, in base a cui sia poi possibile applicarsi con impegno, magnanimità, spirito di carità, per far sì che, prescelto e assunto un determinato modello economico, esso possa realmente configurarsi come principio e condizione di reale benessere comunitario, e anche se non penso che dai vangeli possano ricavarsi indicazioni precise circa le specifiche caratteristiche di un sistema economico che potrebbero indurre a preferirlo rispetto ad altri sistemi economici, non c’è dubbio che, in senso evangelico, la vocazione dell’agire economico, dell’homo oeconomicus, debba essere insieme personalistica e comunitaria, personalistica perché interessata alla massima valorizzazione possibile della persona e della sua dignità, sia nel senso della persona che produca principalmente ricchezza e lavoro quanto in quello della persona che soprattutto usufruisca di ogni bene prodotto, e comunitaria perché ogni forma di produzione e di profitto risulti intenzionalmente volta al soddisfacimento delle necessità primarie di sussistenza di tutti gli appartenenti alla stessa comunità, società, impresa o associazione economica9.

Bisogna riflettere attentamente sul fatto che il ricco Epulone evangelicamente non venga considerato uno sventurato e un predestinato alla dannazione eterna in ragione della immensa ricchezza da lui accumulata ma a causa della sua chiusura spirituale ad una prospettiva di ragionevole ed equa condivisione di tale ricchezza con i poveri Lazzaro della storia, ai quali invece non venga concesso di beneficiarne neppure in minima parte. Bisogna anche riflettere sulla circostanza, ben sottolineata da Gesù, che, per meritare il Regno dei cieli, non si tratta di fare solo filantropia, ma dedicarsi al prossimo con spirito di carità, di intima e sincera compartecipazione spirituale alle sue vicende personali. Il dono, la gratuità, sono valori non in quanto semplicemente frutto di umana e pietistica elargizione, le cui motivazioni, senza escludere che essa possa essere anche respinta non per orgoglio ma per dignità, potrebbero essere diverse e non tutte di sicuro e disinteressato segno caritativo, ma in quanto scaturienti dalla consapevolezza della natura moralmente obbligante di ogni atto di libera e partecipe misericordia compiuto a beneficio di un mio simile che merita condizioni di vita che, nel rispetto delle sue convinzioni e dei suoi talenti nascosti, gli consentano almeno di esprimere la sua umanità10.

In linea di principio, mi pare di non essere lontano dalle posizioni di Bruni, benché le sue competenze specialistiche, di gran lunga superiori alle mie, possano consentire un’analisi ben più accurata e articolata di quella che tuttavia non si disdegna, per linee più generali, di proporre qui. In tal senso, non posso certo negare che si diano oggi, fondamentalmente, due grandi modelli di economia: uno individualista e liberale, l’altro personalistico e comunitario, là dove il mercato, come sottolinea giustamente l’economista cattolico, non è neutro ma è sempre diretto e orientato da una precisa intenzionalità umana, che può essere tendenzialmente civile o incivile. L’economia non vive costitutivamente di sola efficienza ma anche di giustizia ed essa è un’economia civile se si preoccupa di giustizia mentre cerca l’efficienza, altrimenti è ingiusta e incivile11.

L’unica precisazione che mi sentirei di proporre è che in ambedue i modelli possono aver luogo, in via empirico-fattuale, anche fenomeni sotterraneamente contraddittori rispetto ai loro presupposti e ai loro pur dichiarati obiettivi, che è ciò che rende provvidenzialmente problematico il tentativo di stabilire aprioristicamente quale dei due modelli possa risultare alla fine più efficiente e produttivo e, insieme, più civile e giusto. Bisogna insistere tuttavia sul punto per cui, a mio avviso,  l’economia non vive solo di misericordia, di pietà verso i ceti popolari in modo particolare, ma vive di misericordia e di pietà popolare, di gratuità e reciprocità, perché è razionale ed è giusto che le attività economico-produttive puntino alla generosa e lungimirante valorizzazione delle capacità di ciascuno e al soddisfacimento delle necessità di ciascuno e di tutti non solo o non tanto sulla base delle ferree leggi della competizione, della concorrenza e del profitto, ma anche e/o soprattutto su quella della cooperazione, della reciprocità, della fiducia scambievole: là dove non si tratterebbe di demonizzare in assoluto la tradizionale economia di mercato, che in molti casi di non perfetta conoscenza e di non sicura affidabilità tra le parti contraenti conserva la sua ragion d’essere, e di contrapporle in modo alternativo un’economia di reciprocità e di fraterna equità, ma di proporre una sorta di coesistenza integrativa e funzionale tra le due forme di economia, in modo che, a seconda dei contesti storico-sociali, ognuna di esse, e sia pure in modi diversi, possa operare nell’interesse dell’umanità, pur senza potersi escludere che, ove o quando risultasse realisticamente possibile, un’economia di reciprocità e di servizio caritatevole, potrebbe senz’altro sostituirsi integralmente alla corrente economia di mercato.

Ma, beninteso, non bisogna forzare il senso dell’amore evangelico al di là del suo reale significato, perché nell’ambito della comunità ecclesiale è o sarebbe certamente doveroso vivere scambiandosi gratuitamente beni di cui ogni suo membro ha bisogno, mentre nell’ambito delle cose temporali e delle relazioni sociali, degli stessi scambi economici e culturali, resta del tutto normale, e legittimata da Dio stesso entro determinati limiti, una certa competitività meritocratica nel perseguimento di determinati ruoli, cariche, posti di responsabilità, qualifiche professionali e retribuzioni salariali, titoli onorifici e via dicendo, a condizione che le dinamiche sottese alla complessa e ordinaria realtà del mondo siano dinamiche valoriali di tipo evangelico, vale a dire dinamiche che veicolino valori di giustizia, di onestà, di lealtà, di disponibilità all’obiettivo e sereno riconoscimento  delle altrui qualità, di comportamento virtuoso nell’esercizio sia delle attività intellettuali di qualsivoglia natura, sia delle attività manuali, tecnologiche e produttive. Il Vangelo non intende scardinare o abbattere qualunque pratica, logica o realtà del mondo reale, ma intende salvare gli uomini e le donne che ne fanno parte, inducendoli a riconsiderare continuamente il loro rapporto con le pratiche, le logiche, le realtà del mondo in cui vivono, oltre che con il proprio io, alla luce di una redentiva etica sacrificale oggi démodé che tuttavia, mentre nobilita l’intenzione e l’atto di prendersi cura, con sincera dedizione, del prossimo, pone le basi di una civiltà non nominale ma sostanziale e rigenerativa dell’amore12.  

Il vangelo non viene attivando un processo spirituale di disconoscimento del mondo così com’è, ma cerca di individuarne possibilità morali e spirituali inedite o ancora inespresse, che possono emergere solo da un processo personale, comunitario o collettivo, di permanente conversione, che corrisponde ad un processo di continua ricerca in Cristo. Ora, però, tale processo non ha esiti virtuosi o salvifici facilmente riconoscibili persino all’interno della stessa comunità religiosa di appartenenza, la quale invece, a causa di una fede non pensata o mal pensata e di uno spirito di carità solo illusoriamente acquisito, non di rado tende ad ingannarsi nell’assegnare, sia pure quasi sempre in astratto, patenti di bontà o di giustizia evangeliche. Chi opera secondo il vangelo predicato da Cristo sa bene che è molto semplice amare il bene ma è molto più difficile realizzarlo: come si fa a non desiderare il bene, eppure il bene può essere perseguito solo a condizione di essere ragionevolmente certi che i destinatari ne abbiano realmente bisogno e non siano già predisposti ad utilizzarlo male o a volgerlo al male. Il bene non consiste nel fare qualcosa di buono soltanto per mettersi a posto la coscienza, ma in un atto di altruismo illuminato dal giudizio, da un giudizio di verità (perché in un caso mi corre un obbligo veritativo di essere caritatevole e caritatevole in un certo modo mentre nell’altro questo stesso obbligo può trattenermi dall’esserlo?), e sostenuto dall’umiltà preventiva di chi si predispone a trarre profitto, pur senza recriminare, dall’eventuale fallimento della propria azione caritativa. Il bene è legittimo se è conforme a giustizia e a silenziosa anche se meditativa umiltà, quali che siano gli esiti del suo compimento. Ecco perché non sarei molto d’accordo con chi, come lo stesso Bruni, sembrerebbe proporre una revisione della tradizionale teologia o cultura sacrificale: «Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti–sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’ ”agnello di Dio” che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio»13. In tal modo, si cerca di evidenziare gli “equivoci” annidati nel rapporto tra cristianesimo e sacrificio, ma in realtà è comprensibilissimo che, nell’ottica biblico-evangelica, il sacrificio consapevole e responsabile, conseguente ad un’intima, profonda e veritiera conoscenza della giustizia divina e dell’enorme carico di misericordia in essa prevista e contenuta, nonché ad un’umile predisposizione della volontà creaturale a conformarsi a quella del Creatore, il sacrificio rappresenti la più alta e nobile cifra dell’amore umano verso Dio e verso il prossimo. Il fatto che a Dio siano graditi atti misericordiosi, piuttosto che sacrificali in senso estrinseco, cultuale, rituale, non comporta affatto che a Dio non sia altresì gradito, e ancor più gradito, il sacrificio, specie se estremo, come atto reale e sostanziale di misericordia.  

Anche in economia valgono le stesse considerazioni: è bene dare un posto di lavoro a persone note per la loro integrità morale oltre che per il loro stato di necessità, piuttosto che a persone note per la loro volontaria collusione con ambienti corrotti o criminali, perché agire in senso inverso sarebbe ingiusto e il bene non può essere ingiusto, benchè ciò non tolga che, in particolarissime circostanze di vita, si possa fare del bene, in modo apparentemente irragionevole, anche ad un pericoloso ma disperato delinquente (misericordia come negazione di un principio di razionalità e di equità ma anche come disponibilità personale a sacrificare le proprie giuste convinzioni e persino a rischiare in proprio la propria rispettabilità e integrità fisico-sociale al fine di poter donare un’estrema chance di salvezza all’altro). Peraltro, è sempre più facile fare del bene a chi si mostri rispettoso, gentile e obbediente, che non a chi invece abbia un temperamento più rude o più rozzo, un carattere più introverso e un marcato senso della dignità personale, perché non è infrequente che un interlocutore simpatico susciti maggiore benevolenza di un interlocutore per niente simpatico ma oggettivamente degno di stima. Che è un’esemplificazione da cui emerge chiaramente come il bene, anche in ambito economico,  non sia sempre e necessariamente frutto di scelta oculata e giudiziosa anche quando l’imprenditore, a seguito di calcoli laboriosi e di ragionamenti utilitaristicamente sensati, sembrerebbe sicuro di poter trarre dalle sue decisioni, circa il tipo di investimenti, l’ammodernamento tecnologico degli strumenti produttivi, le competenze professionali dei suoi operai e dei suoi dipendenti, la collocazione della sua azienda o fabbrica all’interno di importanti relazioni industriali e commerciali, solo o prevalentemente vantaggi più che cospicui.

La domanda centrale anche in relazione ad un’economia di comunione14, altro termine caro a Bruni, resta dunque: non se realizzare o meno una siffatta economia, ma a quali condizioni si possa ritenere anche moralmente legittimi, giusti, convenienti, l’idea e il progetto di perseguirla, giacché una buona idea, solo per un presunto o irriflesso atto di amore, e non realisticamente calata nel concreto o specifico contesto umano e territoriale in cui essa dovrebbe trovare attuazione, può generare solo disastri, appunto perché inopportuna, intempestiva, irrazionale15. Chiara Lubich, che si deve considerare come fondatrice di questo modello economico, si sarebbe ben presto resa conto che la comunione dei beni, alla lunga, non avrebbe potuto offrire una soluzione adeguata ai problemi sociali legati alla povertà, per il semplice motivo che, dove i beni disponibili scarseggiano, non è sufficiente metterli in comunione ma bisogna produrli e, poiché  produrli comporta costi ben più elevati, anche il reperimento di fondi finanziari dovrà risultare necessariamente subordinato a strategie diversificate di investimento e ad una pianificazione economica e produttiva verosimilmente non dovuta in modo esclusivo o prevalente al risparmio e alla condivisione cooperativa delle risorse economiche. E’ noto, tuttavia, che l’economia di comunione sia venuta largamente incrementandosi con l’avvento della globalizzazione, generalmente basata sulla strategia di massimizzazione dei profitti e minimizzazione dei costi, ma, a dire il vero, per quali specifiche ragioni e in che modo tale incremento sia venuto registrandosi proprio in regime di globalizzazione, suscettibile di sviluppi sempre più selvaggi, non pare potersi facilmente spiegare o semplicemente con un impiego della stessa globalizzazione più virtuoso di quello adottato dalla o nella economia di mercato. In ogni caso, bisognerebbe poter disporre, contrariamente a quanto consentono i dati oggettivi oggi disponibili, di un sufficiente numero di elementi informativi per essere in grado di sistenere e giustificare tale tesi.

Anche per questa difficoltà, congiuntamente ad alcuni aspetti di esaltazione mistica o pseudomistica dell’esperienza e del pensiero religiosi della stessa Lubich, sono cresciuti e destinati ancora a crescere i sospetti intorno alla asserita legittimità della sua vocazione e funzione carismatiche, tanto che il teologo belga Ignace Berten, incaricato di studiare la causa di beatificazione proposta per Chiara Lubich, ha affermato con molta chiarezza che «c’è motivo di interrogarsi sul carattere difficilmente accettabile per la fede di alcune espressioni di Chiara Lubich. Le conseguenze di questa spiritualità sul funzionamento pratico del movimento dei Focolari e delle diverse comunità del movimento possono essere considerevoli e molto inquietanti per le persone: l’identificazione diretta del pensiero di Chiara Lubich con la volontà di Dio e la sua auto-istituzione come unica mediazione del rapporto con Dio santificano una forma di obbedienza a tutti i livelli, in cui viene abolita la possibilità di discernimento personale: la rinuncia alla propria personalità viene promossa come virtù. Ciò apre alla manipolazione spirituale, alla negazione della libertà e della responsabilità personale. E tramite ciò apre a certe derive tipicamente settarie. Le testimonianze dei membri dei Focolari che hanno lasciato il movimento mostrano che questo ascendente sulla persona e la sua coscienza ha avuto effetti psicologicamente distruttivi»16. Se ciò fosse vero, non solo il Movimento dei Focolari ma la stessa economia di comunione in quanto modello economico alternativo o integrativo che si voglia ritenere, sarebbe minato gravemente dal tarlo ereticale e peccaminoso sin dalle origini, e già per questo dovrebbe essere qualificata come inattendibile e fortemente equivoca, anche se accolta favorevolmente da papa Bergoglio17.

Bisogna stare attenti a tutte quelle iniziative, di qualunque genere, che muovano da sentimenti eccessivi e incontrollati di autostima, dal culto anche solo inconscio ma fortemente condizionante di sé, da una inavvertita e quotidiana celebrazione di una presunta superiorità morale personale, soprattutto all’interno di forme di religiosità non ben pensate e ancor meno proficuamente vissute. In tal senso, la ricerca inesauribile del sacro nella vita dei credenti cristiani, il desiderio cioè di sacrum facere, ovvero di rendere sacri e graditi a Dio, pensieri, sentimenti e atti della propria esistenza, e quindi il desiderio del sacrificio, coincide sempre, nel suo originale significato, con la domanda su che cosa occorra perdere o a che cosa occorra rinunciare per poter guadagnare qualcosa di più importante, per poter ottenere il consenso e il favore stesso di Dio, costituisce la cifra più significativa del duplice amore verso Dio e verso l’uomo, per cui anche un’economia altruistica, caritatevole, comunitaria, di reciprocità e sussidiarietà, e non per questo necessariamente fallimentare, non può che trovare il suo fulcro insostituibile nel sacrificio, nell’obbligatorietà del sacrificio, di variabile intensità nelle diverse circostanze del convivere, del vivere con gli altri, come mezzo di più potente esplicazione del proprio libero volere morale rispetto ad un’oggettiva istanza di servizio evangelico e comunitario. Pertanto, non concordo con chi, come (tra altri) lo psicologo Massimo Recalcati, sostiene che la concezione religiosa propugnata da Gesù sia “antisacrificale”, perché il problema di Gesù sarebbe stato quello di non costringere l’uomo a vivere nel sacrificio ma di liberarlo «dall’ombra triste del sacrificio»18, che è vero nel senso che la prospettiva salvifica del cristianesimo, in senso escatologico, implica la definitiva rimozione di ogni forma di sacrificio, di sofferenza, di angoscia, ma che è sostanzialmente falso appunto perché tale prospettiva salvifica non può essere a portata di mano dei gaudenti impegnati, né può essere perseguita da chi non sia disposto a soffrire, a rinunciare, a perdersi in funzione del bene altrui, della liberazione materiale e spirituale di un prossimo sofferente e costretto ad una vita di ingiusto sacrificio.

Quando Recalcati, esibendo la sua cultura psichiatrica, afferma che «vivere nel sacrificio è la malattia del nevrotico che si manifesta in molteplici forme», dimostra di non aver capito che il cristiano, ben lungi dal voler vivere nel sacrificio e dal voler rinunciare a tutte le gioie e a tutti i momenti di serenità che la vita venga offrendo, tenta anche di predisporsi a vivere nella disponibilità al sacrificio, perché ha appreso dal suo Maestro che il desiderio di qualunque bene e di qualunque piacere dell’anima e del corpo, per quanto legittimo, non potrà mai essere pienamente esaudito se non sarà comprensivo anche di un desiderio di sacrificio, di abnegazione, di immolazione, per il bene altrui, che può essere quello di un individuo, di una comunità, di una nazione, dell’intero genere umano. Il problema è che, così come è sempre sconsigliabile improvvisarsi psicologi o psichiatri, allo stesso modo occorrerebbe usare molta prudenza prima di improvvisarsi teologi o, più semplicemente, uomini di fede.

Tuttavia, anche il sacrificio rettamente interpretato e momento così centrale e inamovibile nell’economia della salvezza, in sé e per sé non è garanzia di salvezza: per esserlo, occorre che sia un giusto sacrificio ovvero un sacrificio conforme alla giustizia divina, che Cristo conosceva bene ma che gli esseri umani non possono conoscere in modo altrettanto perfetto. Bisogna, questo sì, intendere quanto più correttamente possibile le parole, i precetti, gli insegnamenti divini, per agire di conseguenza secondo giustizia, e anche per comprendere che, analogie suggestive a parte, altro è l’economia divina della salvezza, altro è invece, per quanto a quest’ultima sinceramente ispirata, un’economia umana del lavoro, della produzione di ricchezza, dello scambio di merci, della distribuzione dei beni. La stessa economia di comunione non sarà mai la sicura anticamera del paradiso e della felicità.  

L’alterità tra le due economie non è data dal fatto che in entrambe non si possa agire in spirito di amore e solidarietà, ma dal fatto che il bene della grazia e della salvezza eterne, bene gratuito ma anche da meritare, ingloba in sé tutte le attività terrene, tutti i meriti e i demeriti che ognuno acquisisce in relazione ad esse, mentre il bene dell’occupazione lavorativa e del soddisfacimento di primari bisogni materiali e spirituali, anch’esso ipoteticamente gratuito in una logica della reciprocità comunionale e insieme da meritare con l’esemplarità della propria dedizione al lavoro, non sarà mai spiritualmente e sacramentalmente determinante ai fini di una vita realmente piena e destinata all’immortalità19. Non è pensabile che la più esemplare delle economie del dono, della sussidiarietà, della reciprocità, possa essere sufficiente condizione di salvezza per chi sia capace di attuarla e per chi ne abbia eventualmente usufruito. Anche un laico non credente potrebbe esserne artefice, per motivi filantropici, umanitari o etico-comunitari, ma, com’è noto, senza fede in Dio e nell’elargizione della sua grazia, la vita eterna non potrà essere ancora conseguita. Tant’è vero che, a colui che gli dice di volerlo seguire in modo esclusivo, Gesù non dice di dedicarsi ad attività economico-produttive con spirito altruistico ed egualitario, ma, molto più radicalmente, di vendere tutti i suoi beni per mettere a disposizione dei poveri il ricavato.

Chiunque, non solo gli imprenditori, è chiamato da Gesù a fare del bene al suo prossimo, ma in quale specifica forma, se economica, morale, intellettuale o religiosa, e se per mezzo di un’economia pubblica o privata oppure mista20, se in conformità ad una dichiarata dottrina religiosa o a princìpi di semplice e comune onestà, egli non lo dice, sia perché il valore tanto etico che produttivo dell’agire economico è nei modi concreti e reali in cui viene posto in essere più che nelle definizioni o formule che se ne danno sul piano teorico, sia anche perché è evidente che ognuno, in quanto essere umano e soggetto professionale, potrà conformarsi alla giusta volontà di Dio, nel quadro di particolari esperienze e condizioni di vita, nei limiti della sua coscienza morale e delle sue possibilità esistenziali e in rapporto ad oggettive possibilità operative. C’è chi potrà dare il 30%, il 60% o il 90%: Dio giudicherà chi avrà dato realmente secondo le sue capacità, ma anche se avrà ricevuto dai suoi simili secondo le sue reali necessità. Al riguardo, non c’è altro da dire, anche se la retorica a favore di questo o quel modello economico-produttivo, nella fattispecie di un modello cooperativo, comunitario, di ispirazione cristiana, si può comprendere come supplemento alla promozione ideale di un progetto umanitario e umanizzante, e non tuttavia come garanzia di efficace ed efficiente produzione, organizzazione e distribuzione di beni economici, ovvero come garanzia di sicura giustizia sociale21.  

Beninteso, l’idea di giustizia sociale deve valere principalmente come idea-limite o regolativa dei processi teorico-pratici di elaborazione ed attuazione graduali di forme di giustizia sociale sempre più adeguate a diverse e determinate situazioni storiche. Ma è da escludere che, in virtù di tale logica regolativa, sia mai possibile ottenere un progresso lineare della giustizia sociale, le cui forme sono invece costantemente suscettibili di felici avanzamenti qualitativi oppure di disumani regressi, anche perché il concetto di giustizia sociale, complementare rispetto a quelli di uguaglianza e libertà, funge da correttivo della semplice giustizia legale, e legale o legalistica ancor più che semplicemente giuridica, che viene traducendosi in un’applicazione asettica di norme codificate alle controversie e ai rapporti conflittuali della vita reale senza tener conto del fatto che esse potrebbero non rispecchiare più o rispecchiare solo parzialmente e approssimativamente un determinato e complesso quadro di istanze economico-retributive, di tutele previdenziali e assistenziali, di interventi e servizi sociali di natura non esclusivamente assistenziale (soddisfacimento di bisogni primari o essenziali) ma estesi a garantire una protezione sociale attiva configurantesi come luogo di esercizio della cittadinanza.

La giustizia sociale è sempre più avanti della legge e dello stesso diritto in quanto i suoi tempi di evoluzione sono generalmente più rapidi di quelli, comprensibilmente più lenti o statici, relativi all’aggiornamento di norme, codici, sanzioni e procedure. Ma anche se il diritto fosse molto più evoluto di quanto non sia, i tribunali, spesso distanti anni-luce dalla vita reale e dalle esigenze di giustizia immediata o celere da essa scaturienti, non sarebbero in grado di tradurlo in concreta ed effettiva opportunità di affermazione dei diritti sociali22. I punti di forza e gli anticorpi della giustizia sociale, quelli che possono far sì che essa non venga degenerando in formalismo giuridico-legale privo di vera sostanza etica e quindi in un semplice principio nominale di giustizia preposto a mascherare, anche a fronte di uno sviluppo economico sempre meno equo e sostenibile, l’espandersi o il perpetuarsi di un mondo vessatorio e iniquo del lavoro con un allargamento progressivo del divario tra profitti e salari e tra sfruttamento imprenditoriale e lavoro regolarmente ed equamente retribuito, sono pur sempre di natura endogena più che esogena, interni al principio stesso di giustizia sociale e dunque anche al sapere critico che esso continuamente sollecita e produce, ad una connessa cultura non passiva ma attiva, attenta e combattiva, della vita e dei processi economici, alla conseguente valorizzazione, possibilmente all’interno stesso dell’economia di mercato, di grandi valori civili e spirituali quali la cooperazione, l’inclusività, la reciprocità, la sussidiarietà, lo spirito comunitario23, ma punti di forza e anticorpi, lungi dal poter garantire una marcia trionfale, seppur sofferta e faticosa, verso un’era di perfetta giustizia economica e sociale, potranno solo assolvere una funzione eticamente protettiva di diritti collettivi in qualche modo goduti ma mai definitivamente acquisiti, e di doveri sempre astrattamente riconosciuti ma molto più raramente esaltati in relazione alla qualità delle modalità individuali con cui vengano adempiuti.

Beninteso, gli anticorpi cui si fa qui riferimento, lo si riconosca o meno, sono quelli inseriti nel corpo sociale del genere umano dal cristianesimo, a cominciare dal valore di uguaglianza: tutti gli esseri umani sono uguali per dignità, tutti hanno il diritto e il dovere di procurarsi da vivere secondo le proprie capacità, cooperando al soddisfacimento dei bisogni essenziali dell’intera comunità di appartenenza, così come ad ognuno, in linea di principio e ove sia necessario, devono essere assicurati da parte della comunità i mezzi necessari di sussistenza. Ma da dove nasce l’ingiustizia nel mondo? Nasce «dall’incapacità naturale dell’Uomo di aderire pienamente alla volontà di Dio ed è questa mancata adesione che giustifica il dolore e le sofferenze anche dei più giusti e santi. L’ingiustizia che diventa, paradossalmente, giusta, perché semplicemente la giustizia vera non è di questo mondo, sembra affermare Agostino. E una volta inserito questo elemento ultraterreno, le rivendicazioni della giustizia distributiva su questa terra perdono importanza. La fede in un grande Dio onnisciente e moralizzatore modifica la metrica con la quale misurare il giusto e l’ingiusto»24, anche se la giustizia distributiva (unicuique suum tribuere), resta un fondamentale principio di equo bilanciamento tra responsabilità direttive, prestazioni di lavoro o funzioni esecutive in relazione a determinati compiti sociali, quantificazione retributiva dei meriti, e quindi di funzionamento dell’organismo o organizzazione sociale medesima. Beninteso, un carattere distributivo non è estraneo alla stessa giustizia assoluta di Dio, i cui criteri però sono profondamente differenti da quelli storico-umani e vengono trovando applicazione, più che in termini di omologazione più o meno potenziata o depotenziata di meriti terreni, piuttosto in rapporto alla qualità dei meriti riconoscibili come tali dal giudizio divino. Come è stato opportunamente precisato, «la giustizia diventa un ordine che si dispiega su una scala molto più ampia. Si valuterebbe quindi il dovuto a ciascuno non sulla base delle cose umane ma con riferimento ad un mondo più vasto di cui le realizzazioni umane costituiscono solo una piccola parte»25.

Non c’è nessuno che non vorrebbe un’economia migliore, più giusta e civile di quella esistente. E’ sempre stato così e sarà sempre così. Pochi, però, almeno oggi, sarebbero in grado di spiegare in che senso dovrebbe essere diversa, più giusta e più civile di quella attuale che, nonostante i suoi limiti, le sue anomalie e contraddizioni, è stata comunque in grado di generare un diffuso benessere e un miglioramento delle condizioni almeno materiali di vita anche, non sempre ma in molti casi, per i ceti o i gruppi sociali più poveri e meno protetti di gran parte della popolazione mondiale. C’è, tuttavia, chi pensa che si potrebbe fare molto di più solo che si riuscisse a trovare il modo di rinunciare ad un incondizionato sfruttamento delle risorse naturali e ad una crescita indefinita, alla speculazione finanziaria e alla ricchezza come al mercato monopolistici, e via dicendo, tutte attività e operazioni che, fuoriuscendo dall’economia reale, ne alterano le dinamiche, i prezzi, le normali logiche di mercato. E, di conseguenza, c’è chi pensa che, ritornando all’economia reale, ad una più sana e leale imprenditoria, alla produzione manifatturiera e alla creazione di servizi sociali realmente utili e non fittizi, a banche commerciali e territoriali, congiuntamente all’introduzione di una più stringente regolamentazione nelle transazioni bancarie internazionali, negli scambi commerciali e nell’ambito della concorrenza, si potrebbe verosimilmente ingaggiare una lotta non fallimentare in partenza contro le iniquità, le storture e gli abusi dell’odierno sistema economico26.

Ma, il libero mercato si chiama così anche per via di una potente inventiva che, nel bene o nel male, comporta periodicamente la creazione di sensazionali novità sia nel campo della produzione che nelle forme di commercializzazione e nel mondo dell’innovazione come quella relativa all’escogitazione di meccanismi tecnologici e finanziari intrinsecamente preposti a generare profitti altissimi e ai limiti della legalità. Da questo punto di vista, si può concordare con lo studioso appena citato, propenso a ritenere che l’economia del futuro o sarà più giusta di quella attuale o non potrà più essere un’economia libera e di mercato. Tuttavia, anche nel caso in cui, di ripensamento in ripensamento27, l’umanità potesse disporre in futuro di un’economia più giusta nel quadro dell’economia libera di mercato o di forme miste o, infine, più comunitarie di mercato, avrà pur sempre da riflettere e lavorare, forse da pregare molto, per potersi finalmente e gioiosamente avvalere di un’economia giusta.

Francesco di Maria

NOTE   

1 Clara E. Mattei, L’economia è politica, Milano, Fuoriscena, 2023.

2 Cfr., tra altri, Richard H. Thaler, Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale, Torino, Einaudi, 2018; F. Saraceno, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia, Roma, Luiss University Press, 2018. In una interessante recensione di Marcello Gualtieri su quest’ultimo libro (Economia: non è scienza ma non è certo inutile, in “Italiaoggi”, n. 228 del 27 settembre 2018, p. 2) si trovano considerazioni chiare e convincenti: «l’economia è una scienza? Sicuramente no, se abbiamo in mente un concetto di scienza esatta, come può essere la chimica o la fisica; sicuramente sì, se la consideriamo come una scienza sociale, cioè che una disciplina che studia il comportamento umano e l’interazione tra i vari soggetti. Deve essere invece sicuramente scientifico il metodo da applicare quando si tratta di argomenti economici: partendo dalla formulazione di ipotesi, cui far seguire con un processo privo di vizi logici, una serie di deduzioni, da sottoporre, queste ultime, a verifica empirica. … Esistono le leggi in economia? L’esperienza empirica dice di no: ciò che è risultato vero e verificato in un determinato contesto ed in una determinata epoca, non è mai risultato vero in altro contesto o epoca. Ogni caso è un unicum. Dobbiamo a questo punto chiederci se l’economia è una scienza inutile o serve a qualcosa, e, se si, a cosa serve. Non credo che sia una scienza inutile: l’osservazione oggettiva dei fatti ci dice che l’applicazione dei principi economici e soprattutto del metodo scientifico applicato all’economia, ha contribuito a risolvere problemi ignoti fino al loro manifestarsi, ed, in ultima analisi, ha contribuito a migliorare, e di molto, la qualità della vita degli esseri umani. Quindi, se non è una scienza esatta, se non è in grado di elaborare leggi o teorie valide sempre ed in ogni luogo, ma nel contempo non è una scienza inutile, a cosa serve l’economia? Risponderò con le parole di straordinario spessore, dell’economista inglese Joan Robinson che nel 1978 scriveva, provocatoriamente: “L’economia serve per evitare di essere ingannati dagli economisti”».

3 J. M. Keynes, Povertà nell’abbondanza, in J. M. Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, a cura di G. Lunghini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 107.

4 D. Palma, L’eresia keynesiana e la società giusta, in Rivista “Etica Economia”, 11 maggio 2011.

5 Cfr. M. Turco, La strada giusta. Idee a cinque stelle per un’economia al servizio dei cittadini, con prefazione di G. Conte, Milano, Piemme, 2024. L’autore è un senatore della Repubblica e vicepresidente del Movimento 5 Stelle: il suo libro, qui citato perché utile solo sotto l’aspetto teorico-descrittivo, è in realtà molto demagogico e strumentale perché fondamentalmente finalizzato ad una pregiudiziale demonizzazione del governo Meloni. Vi viene rilanciato il consueto tema polemico di un ripensamento del ruolo dello Stato che, al solito e diversamente da quello starebbe accadendo, dovrebbe meglio tutelare i beni pubblici e assicurare un’equa distribuzione della ricchezza, evitando di svolgere una vieta funzione assistenziale per contrastare al meglio precarietà del lavoro, diseguaglianze e povertà, le turbolenze del mercato globale, e per incoraggiare concretamente innovazione tecnologica e transizione ecologica e, in collaborazione con il settore privato, sappia infine orientare l’economia nazionale all’interesse generale, dove si dà per scontato che il governo attuale stia operando in modo totalmente antitetico a quello qui indicato. Più equilibrato, analitico e chiaro, il sintetico ma preciso articolo di A. D. Signorelli, La finanziarizzazione dell’esistenza. Tra bitcoin, blockchain e NFT, cause e effetti della criptospeculazione selvaggia, in sito on line “IlTascabile.com”, 24 febbraio 2022.

6 Un punto di riferimento obbligato resta sempre A. K. Sen, Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 2002; Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2003;  Scelta, benessere, equità, Bologna, Il Mulino, 2006; La ricchezza della ragione. Denaro, valori, identità, Bologna, Il Mulino, 2011. Sull’economista indiano, si veda C. Caltagirone, Amartya K. Sen. Tra economia ed etica, Roma, Studium, 2017.

7 Per una libertà responsabile nell’agire economico, si può vedere utilmente: P. Carlotti, Etica cristiana, società ed economia, Roma, Edizioni LAS, 2000 e, soprattutto, W. Röpke, Etica cristiana e libertà economica, Torino, Istituto Bruno Leoni, 2016; per niente invecchiato ma ancora attuale è: V. Tangorra, Economia ed etica, Venezia, Marcianum Press, 2023, e sul versante laico: A. Volpi, I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2024; E. D’Amico, Etica, economia, impresa. Oltre l’homo oeconomicus, Torino, Editore Giappichelli, 2021. Non si può non segnalare la monumentale opera in tre corposissimi tomi del cattolico Oscar Nuccio, Il pensiero economico italiano, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1984-1987. A proposito di etica, non mi è possibile tacere sul fatto che questo insigne economista e storico del pensiero economico internazionale, autore di 200 pubblicazioni scientifiche di grande pregio e, dopo aver insegnato ininterrottamente nelle Università di Pisa, Teramo e Roma (La Sapienza), non si sia mai visto riconoscere e assegnare la cattedra.

8 L. Bruni, Il capitalismo e il sacro, Milano, Vita e Pensiero, 2019, dove si evidenzia che il sacrificio non è altro che una moneta, una forma di scambio mercantile in cui l’uomo primitivo sarebbe stato il primo commerciante e Dio il primo creditore: L. Bruni- Paolo Santori- Stefano Zamagni, Lezioni di storia del pensiero economico. Un percorso dall’antichità al Novecento, Roma, Città Nuova, 2021; L. Bruni, L’arte della gratuità. Come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha tradito, Milano, Vita e Pensiero, 2021; L. Bruni, L’ethos del mercato. Un’introduzione ai fondamenti antropologici e relazionali dell’economia, Milano, Bruno Mondadori, 2010.

9  Questo sostengo con qualche perplessità sul pur apprezzabile, benché troppo sintetico articolo, di L. Bruni, «Vi racconto l’economia secondo Francesco», in “Famiglia Cristiana” del 13 settembre 2020.

10 S. Zamagni, Il principio della gratuità e la logica del dono, a cura di Congregazione Poveri Servi della Divina Provvidenza,  Casa di San Zeno in Monte (Verona), maggio 2018, pp. 3-14.

11 Cfr. anche l’intervento in video di L. Bruni, L’economia che ci piace: civile e giusta!, tenuto a Montelupo Fiorentino in data 22 giugno 2011. Questa stessa posizione era stata espressa, quantunque non alla luce di presupposti e argomentazioni di carattere religioso da John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia, Milano, Rizzoli, 1990. Ma l’ideale di un’economia giusta sarebbe stato condiviso, sia pure in una prospettiva laica di emacipazione del mondo del lavoro, da un valoroso socialista indipendente (né riformista, né massimalista) non violento come Osvaldo Gnocchi Viani, nato nel 1837 e morto nel 1917. Di lui ha scritto Walter Galbusera, Presidente della Fondazione Anna Kuliscioff  di Milano: «La sua imparzialità, come ebbe ad osservare con accenno critico Filippo Turati, in realtà giustificava tutte le variegate scuole del socialismo partendo dal presupposto, tutto da dimostrare, che integrandosi a vicenda esse avrebbero naturalmente corretto errori ed eccessi dando vita ad un organismo sociale nuovo e perfetto. Gnocchi Viani esprimeva valori di un socialismo utopico, ma pochi più di lui affrontarono con successo gli aspetti concreti di un modello di economia sociale alternativo a quello capitalista. Le sue idee, sempre frutto di ragionamenti articolati ma resi in termini semplici per farsi comprendere dai più umili, riflettevano un rigore morale e una intransigenza culturale prima che ideologica, che lo portava a descrivere il progredire inarrestabile, al di là dei confini di Stati, di una società futura di liberi ed uguali, dove i mezzi di produzione sarebbero divenuti proprietà collettiva, la donna e i fanciulli avrebbero costituito un patrimonio inestimabile da riconoscere e valorizzare per far vivere un nuovo concetto di famiglia, contrapposto a quella borghese fondata sugli interessi ereditari», (A cura della Fondazione Anna Kuliscioff), L’utopia concreta di Osvaldo Gnocchi Viani, Milano, Fondazione A. Kuliscioff e Società Umanitaria, 2017, p. 9.

12 Scrive Bruni: «Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla – una delle leggi sociali più antiche –, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi» (L. Bruni, Ambiguo il sacrificio, in “Avvenire” del 14 marzo 2020), che però si sofferma anche sugli aspetti oscuri del sacrificio, in vero attinenti, più che al sacrificio in sé come atto costoso e prezioso  d’amore, alla variegata e contraddittoria realtà storico-fenomenologica del sacrificio, per cui, certo può spesso accadere, com’egli scrive, che «ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità» (Ivi). Non c’è dubbio che le forme degenerative dell’idea-valore di sacrificio siano facilmente riscontrabili nel mondo economico. Osserva acutamente l’economista cattolico: «Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi. Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda)» (Ivi).

13 Ivi. Cfr. anche A. Cavazzini, Capitalismo, sacrificio, equivalenza. Su Luigino Bruni, Il capitalismo e il sacro e L’arte della gratuità, in Rivista on line del Centro Franco Fortini “L’ospite ingrato”, 7 settembre 2023.

14 A cura di V. Moramarco-L. Bruni, L’economia di comunione. Verso un agire economico a «Misura di persona», Milano, Vita e Pensiero, 2000; A cura di L. Bruni-V. Pelligra, Economia come impegno civile. Relazionalità, ben-essere ed economia di comunione, Roma, Città Nuova, 2002; L. Bruni-L. Crivelli, Per una economia di comunione. Un approccio multidisciplinare, Roma, Città Nuova, 2004; in un’ottica non carica di significati etico-religiosi ma solo di significati psicologici ed esistenziali, si può vedere: N. Hertz, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni, Milano, Il Saggiatore, 2021.

15 Pertanto, è più che pertinente la domanda, né dubitativa né assertiva, che una laureanda ha posto nella sua tesi di laurea: «può il modello economico dell’Economia civile di comunione rappresentare un’opportunità per l’implementazione dell’approccio del Social Investment?», (Alessia Miotello, Economia di comunione. Un possibile modello economico per il Social Investment, presso Università Ca’ Foscari di Venezia, Anno Accademico 2016/2017, p. 76).

16 P. Ignace Berten, Chiara Lubich non è modello da imitare, in “Adista Documenti”, n° 41 del 20 novembre 2021.

17 Il giudizio negativo su Lubich e il suo movimento religioso viene ulteriormente appesantito dal libro-testimonianza di una donna che ne ha fatto parte per oltre quarant’anni, ovvero Renata Patti, Io e il Movimento dei Focolari. Storia di un inganno e di una liberazione, 2012-2019, in blog “https://focolareabusi.altervista.org/, che larghi settori della Chiesa ufficiale hanno cercato di ostracizzare in tutti i modi possibili e immaginabili

18 M. Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017, e anche F. Gnagni, L’etica cristiana è legge del sacrificio o del desiderio? La versione dello psicologo Recalcati, in sito on line “Formiche.net”, 1 gennaio 2018. Ma lo stesso Bruni indulge spesso a questa critica della teologia del sacrificio, come nel breve articolo Non esiste prezzo per la salvezza, nel sito dello stesso autore, 15 luglio 2024. E’ sorprendente, quasi grottesca oltre che superficiale e inutile la puntualizzazione per cui «Il Dio biblico non ama i sacrifici, perché ci ama e fa di tutto per toglierci dalle croci».

19 Questo non significa che, in diverse esperienze storiche, specialmente tra età medievale ed età moderna, non si diano casi significativi di un così stretto ed essenziale legame tra spirito di carità ed etica del profitto da renderli quasi indistinguibili ed equivalenti, come nel caso emblematico della «fondazione dei primi Monti di Pietà» sul finire del Medioevo: Clément Lenoble, Carità, salvezza e profitto terreno. Alcune riflessioni sull’economia della povertà tratte dall’esempio dei Pazzi di Avignone (XIV-XV secolo), in “Quaderni Storici”, 2019, Carità, 162 (3), 2019, pp. 619-637, in particolare p. 626.

20 Può essere utile la lettura di M. Mazzucato, Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo, Roma-Bari, Laterza, 2021. Di economia mista si trattava in modo intelligente anche in un libro di diversi decenni or sono: James E. Meade, L’economia mista. Guida alla politica economica per il radicale intelligente, Napoli, Liguori, 1982.

21 Sull’annosa questione di come assicurare una maggiore giustizia sociale in un mondo economico perennemente convulso e soggetto a pressioni irrazionali, si possono trovare acute e incoraggianti osservazioni in Anthony B. Atkinson, Inequality: What Can Be Done?, Harvard Univ Pr, 2015.

22 Molto istruttivo, al riguardo, anche se all’interno di un contesto teorico molto più ampio, appare il libro di Paolo Di Lucia e Lorenzo Passerini Glazel, Hans Kelsen. Giustizia, diritto e realtà sociale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2024. Che il diritto, pur essendo un indispensabile strumento di giustizia, non sempre sia capace di assicurare né la giustizia sociale, né la giustizia in generale, è ciò di cui si occupa in modo specifico P. Lucci, Il diritto tra legge e giustizia, Villa Verucchio (Rimini), Pazzini, 2022. D’altra parte, il libro curato da B. Giovanola, Etica pubblica, giustizia sociale, diseguaglianze, Roma, Carocci, 2016, dimostra come il significato di termini quali etica pubblica, giustizia sociale, diseguaglianze, lungi dall’essere ovvio o scontato o comunque sufficientemente acquisito in termini di univocità, sia ben più complesso e problematico: tra l’altro, ci si chiede se le diseguaglianze, in quanto tali, siano sempre e comunque ingiuste, o se invece possano sussistere anche diseguaglianze giuste.

23 Come è stato giustamente osservato, «la cooperazione, per la sua natura intrinsecamente inclusiva, ha un forte potenziale come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale», Per un’economia più giusta. La cooperazione come argine delle disuguaglianze e abilitatore di giustizia sociale. Documento, Bologna, Fondazione Unipolis, luglio 2022, p. 14.

24 V. Pelligra, Agostino di Ippona e la giustizia come Imago Dei, in “IlSole24Ore” del 19 marzo 2023.

25 Mathias Risse, On Justice. Philosophy, History, Foundations, Cambridge University Press, 2020.

26 Cfr. D. Reina, Per un’economia giusta, Torino, Lindau, 2013.

27 Lo dico alludendo qui al libro di Kaushik Basu, Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta, Roma-Bari, Laterza, 2013.

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