Libertà d’informazione e libertà di critica della libera informazione

Il giornalismo e ogni altra forma di libero pensiero e libera informazione sono come la stessa libertà: possono essere usati bene o male, in modo onesto o disonesto, in modo efficace o improduttivo. Questo è un concetto basilare e imprescindibile. Un corollario di questo concetto è che il giornalismo, in virtù della libertà di pensiero e di informazione, nelle sue forme legittime non possa pretendere di esercitare sul potere politico e governativo un controllo superiore a quello che quest’ultimo può e deve esercitare costituzionalmente su di esso. La libertà di parola, di pensiero e di stampa, nei paesi occidentali è ben protetta dalle costituzioni, dalle leggi, dalle istituzioni pubbliche e dalle figure apicali dello Stato non coinvolte, almeno direttamente, in specifici impegni partitici, anzi non di rado è iperprotetta, a voler sottolineare con questo termine la tendenza ad una protezione talvolta ma sempre più spesso patologica anche perché generalmente volta, nelle diverse società di riferimento, a tutelare in modo lecito ed illecito espressioni e orientamenti di un libero pensiero funzionale ad assetti e interessi politico-culturali prevalenti o ancora tenacemente resistenti soprattutto nel caso abbiano subìto ribaltamenti elettorali e un conseguente trasferimento del loro ruolo da posizioni di governo a posizioni di opposizione.

Il caso ora evocato è senz’altro quello in cui oggi versa la situazione politica e culturale italiana dove il raggruppamento politico, a dire il vero oltremodo variegato ed eterogeneo, capitanato da Giorgia Meloni, esercita una funzione di governo, mentre le forze liberalprogressiste sono costrette, loro malgrado, a svolgere una funzione di opposizione. Loro malgrado, perché si erano ormai abituate a governare, per molti a sgovernare, senza più doversi sottoporre, per circa un decennio, a impegnativi e doverosi confronti e verifiche elettorali, e confidavano molto nella possibilità di rimanere in sella alla guida del paese, in virtù della non verificata previsione che molto difficilmente le presunte radici fasciste del partito dei Fratelli d’Italia avrebbero spinto il popolo a premiare quest’ultimo e i suoi alleati sino al punto di consentire loro la conquista del potere.

Invece le cose sono andate diversamente e, dopo quasi due anni di ininterrotto governo Meloni, i cosiddetti democratici non sembrano più reggere l’affronto subìto e, non avendo solide ragioni politiche per contestarne la permanenza, tentano ogni giorno di colpirlo puerilmente con la vecchia e ormai logora polemica antifascista. Non sto qui a ripetere cose che ho già scritto e spiegato in altri libri, ma è un dato di fatto, almeno per persone serie e intelligenti, quello per cui l’odierno stato di tensione, civicamente percepito oggi in Italia, deriva dall’uso esasperatamente strumentale e demagogico che, da posizioni nominali di sinistra, si viene facendo appunto della polemica antifascista. Ma, poiché il fascismo è, da un lato, solo nella testa stordita degli oppositori di oggi, e, dall’altro e paradossalmente nello spirito malato di molti a prescindere dalle loro posizioni politiche1, tant’è vero che le masse popolari non sembrano risentire minimamente delle loro oscene e risibili polemiche continuamente e stolidamente rilanciate da giornali e massmedia, tali oppositori continuano a costruire i loro programmi e progetti politici, se proprio li si voglia così definire, sulla sabbia di un inopportuno e irrazionale livore che ne consentirà la sopravvivenza, non certo la crescita e l’evoluzione, finché le popolazioni europee, negli anni a venire, non saranno così stanche delle contraddittorie e cattive politiche da sempre proposte e, non di rado, realizzate dalle forze democratico-progressiste, da decretarne la definitiva espulsione dai processi politico-decisionali europei se non ancora mondiali. Lo studioso e storico delle dottrine politiche, notoriamente di sinistra, Carlo Galli «sostiene che l’adesione incondizionata all’ideologia mondialista da parte dei partiti progressisti all’indomani della caduta del comunismo li abbia sradicati dai propri modelli di riferimento al punto da far smarrire loro l’identità. Il cortocircuito s’innesca nel momento stesso in cui si volga lo sguardo al passato: “Il PCI, oggi, verrebbe definito sovranista”, osserva giustamente Galli. Egli, infatti, nota come quello di “sovranità” sia “un concetto talmente democratico che è richiamato nel primo articolo della nostra Costituzione. Oggi, invece, chiunque contesti la mondializzazione viene considerato un fascista. Storicamente, però, la sinistra ha sempre avversato il trasferimento del potere fuori dai confini dello Stato, basti pensare alla critica che i comunisti italiani opposero alla NATO e, per molti anni, al Mercato comune europeo”. Il principale errore della Sinistra, sempre secondo Galli, consiste nel “considerare la richiesta di protezione – che c’è nella società – come un istinto razzistico, o xenofobo […]; la sinistra italiana, ha smesso di analizzare la realtà: preferisce nascondersi dietro il vecchissimo copione dell’antifascismo moralistico e considerare più della metà dei cittadini italiani barbari che stanno assaltando le fondamenta della civiltà»!2.

Beninteso, che la sinistra, non questa sinistra, sparisca dal mondo, non è ciò che mi auguro ma è quello che temo, anche perché un mondo globale e complesso come quello attuale non può che necessitare della sensibilità di una sinistra non flaccidamente incentrata su questioni “civili” di molto dubbio spessore morale e non stancamente dedita ad elaborare confuse visioni economico-sociali nel segno del globalprogressismo, anche in considerazione di una destra nazionale ed europea che spesso, ad eccezione di quella meloniana, non appare in grado di percepire con la dovuta lucidità i reali pericoli che si profilano sullo scenario internazionale tanto in relazione a problematiche politiche, economiche e militari, quanto a più complessive problematiche storico-esistenziali. Ora, la questione della libertà di stampa incide profondamente sulla possibilità di un confronto civile e culturale acceso ma non preconcetto e realmente costruttivo e, in una società come quella italiana che non riesce a scrollarsi di dosso il suo atavico provincialismo politico-culturale che è altra cosa da un generico tradizionalismo di idee e di valori, agitare continuamente la questione della libertà in generale solo o prevalentemente per amplificare, su ogni fronte politico, la gravità della altrui violenza, non è certo segno di saggezza e di lungimiranza politica, specialmente se a prestarsi, sia pure in modo solo inconsapevole, ad essere agevolmente e perfidamente utilizzato dalle fazioni contrapposte dell’istituzione parlamentare, sia il Capo dello Stato3.

Questi, che esprime la massima carica istituzionale dello Stato e che rappresenta l’unità nazionale, ha il compito delicatissimo di fare in modo che, sempre nel rispetto della verità dei fatti della vita politica e sociale, alcun gruppo politico, operante formalmente nel nome e per conto della Repubblica, possa sentirsi minimamente discriminato e sottostimato rispetto a tutti gli altri gruppi concorrenti o rivali, anche se la particolare autorevolezza istituzionale del Capo dello Stato, lungi dal sottrarlo al pubblico giudizio, comporta che il suo operato possa essere soggetto per legge, oltre che ad una ipotetica messa in stato d’accusa da parte del Parlamento, a possibili critiche o censure morali non solo da parte di forze politiche e parlamentari, ma anche della libera stampa e dei comuni cittadini. Già, perché anche Mattarella è un uomo e, come tutti gli uomini, benché investito di un altissimo incarico istituzionale che non può che accrescerne il senso personale di responsabilità, non immune da errori, da valutazioni e giudizi soggettivi non sempre inoppugnabili, da condizionamenti di politica estera o dovuti alle diverse e non sempre convergenti aspettative sociali pur gravitanti intorno alla sua figura, che, talvolta, possono renderne opinabili o discutibili interventi e prese di posizione. D’altra parte, lo stesso Mattarella sa o dovrebbe sapere per esperienza personale e familiare come sia impegnativo e doloroso onorare perfettamente, con imparzialità e onore, i propri compiti istituzionali: alludo, da una parte, alle numerose ma spesso infondate accuse di collusione con la mafia siciliana rivolte a suo padre, l’onorevole Bernardo Mattarella, tra inizi del secondo dopoguerra e tutti gli anni cinquanta4, che lo avrebbero talvolta indotto a reazioni sdegnate e persino incontrollate5, nonché indicative di come nella vita si danno circostanze in cui non sempre, per quanto dediti allo studio ed esercitati nel controllo delle passioni, sia possibile rimanere imperturbabili e razionalmente equilibrati. Peraltro, anche Martelli avrebbe replicato con durezza, leggendo però testualmente la relazione scritta di suo pugno dall’onorevole La Torre: «La Torre spiega “verso quali forze politiche si orientarono le cosche mafiose” dopo il tramonto del separatismo. Una parte, fu la risposta, “si orientò verso la Dc… uomini come Aldisio, Milazzo, Alessi, Scelba, Mattarella … era la doppia anima della politica che la Dc seguirà negli anni successivi: da un lato, un programma di riforme e di sviluppo democratico e dall’altro un compromesso con i ceti parassitari isolani”. All’epoca della polemica o Sergio Mattarella non aveva capito o faceva finta di non capire»6.

Ma alludo anche al fatto che le accuse di collusione con la mafia, rivolte al padre di Sergio Mattarella, non si sarebbero mai spente, benché gli apparati giudiziari dello Stato, a partire dagli anni cinquanta, abbiano reiteratamente fatto quadrato, a difesa dell’onorabilità dell’ex ministro democristiano del commercio estero e del buon nome di suo figlio, ormai proiettato verso la carica di membro inamovibile e autorevole di quegli stessi apparati, contro figure quali quella di Danilo Dolci, “il Gandhi italiano o siciliano”, e del giornalista siciliano Alfio Caruso, giudicandole, insieme alle testimonianze accusatorie di diversi collaboratori di giustizia in epoche diverse, totalmente inattendibili7. Si può dire che la famiglia Mattarella sia rimasta sempre nell’occhio del ciclone fin quasi alla nomina a capo dello Stato di Sergio Mattarella: evento coincidente, si sarebbe potuto pensare, con la definitiva archiviazione del caso qui brevente ricordato, ma in realtà ancora aperto per via dell’opposizione del legale di Alfio Caruso alla chiusura giudiziaria della controversia. Ma quello che non può non apparire strano e non può sfuggire alla sensibilità di tanti osservatori di questo tempo è che il membro di una famiglia così lungamente chiacchierata, anche se tenacemente protetta, a ragione o a torto, dal mondo della giustizia, abbia potuto accedere addirittura alla massima carica dello Stato. In questo caso, pare che tutte quelle ragioni di opportunità politico-istituzionali, spesso invocate anche dal Capo dello Stato per vicende e personalità della vita politica italiana, non siano state ritenute degne di considerazione.

Ora, fino a che punto, d’altra parte, potranno essere recepiti come attendibili gli odierni appelli presidenziali al rispetto della libertà di pensiero sulla base del fatto che essi siano quelli di un uomo che avrebbe di fatto, direttamente o indirettamente, oltraggiato l’onorabilità di un grande, pacifico ed impegnato uomo di pensiero e di lotta sociale, come Danilo Dolci, e la dignità di un giornalista come Alfio Caruso, autore di un documentatissimo libro sul rapporto mafia-politica in Sicilia, e solo colpevole di aver ipotizzato in senso puramente descrittivo il coinvolgimento sotterraneo del padre di Sergio Mattarella in loschi affari di mafia? Una volta condannato da giudici quanto meno discutibili, il giornalista siciliano ebbe a dire: «La cronaca si è arresa alla Ragion di Stato». Suonavano persino irridenti ad un principio di coerenza intellettuale e morale, le parole solennemente utilizzate da Mattarella Sergio, in data 16 marzo 2017, per enunciare il concetto della libertà di pensiero ed espressione e le sue possibili implicazioni socio-relazionali: «il confronto e la diversità di posizione non è incompatibile con il rispetto reciproco, che appartiene, invece, a quel patrimonio comune di fondo, che bisognerebbe coltivare e preservare sempre». Parole oggi integrate dalla sua esortazione a non voler tralasciare la «promozione del pluralismo e della indipendenza dei media in tutta l’Unione, con protezione dei giornalisti e delle loro fonti da ingerenze politiche»8. Ci si chiede se proprio in ossequio a queste solenni parole, per amore e per rispetto della libertà di pensiero, che naturalmente implica la libertà di parola e di opinione, egli non potrebbe tentare, almeno in parte, di fare autocritica sulle prese di posizione della sua famiglia che sarebbero costate la condanna giudiziaria prima a Danilo Dolci e poi, in forma più grave, almeno per il momento, ad Alfio Caruso, trattandosi, in special modo nel primo caso, di figure intellettuali e professionali sempre apprezzate e rispettate da tutti, tranne che dagli ambienti giudiziari che si sarebbero occupati della vicenda di Bernardo Mattarella, con quale attenzione morale e perizia giuridica solo Dio lo sa, e dai giudici che avrebbero comminato le relative condanne.

A voler ripercorrere l’intero iter giudiziario attraverso cui a quest’ultime si sarebbe alla fine pervenuti, si potrebbero forse scoprire ed evidenziare diverse falle, anomalie ed omissioni processuali, ma di certo, non foss’altro che per l’eco mediatico-sociale suscitata dalla storia di quei procedimenti giudiziari, che, se Sergio Mattarella non ricoprisse la carica di Capo dello Stato, potrebbero ancora avere ulteriori sviluppi, una cosa pare non potersi più sostenere: e cioè che Dolci, innanzitutto, ma anche Caruso, abbiano potuto operare in malafede e che non avessero tutto il diritto, giuridico e morale, di manifestare pubblicamente il proprio pensiero, di fare libera e democratica informazione. Né Dolci, né Caruso, probabilmente, né le loro fonti, per riprendere le parole odierne del Capo dello Stato, sarebbero stati “protetti da ingerenze politiche” e anche giudiziarie. Non si può non ricordare, con grande disdoro per i giudici che vollero fare orecchie da mercanti, che Danilo Dolci era un intellettuale e un missionario sociale molto amato da moltissimi intellettuali italiani, tra i quali Piero Calamandrei, Carlo Levi ed Elio Vittorini, e poi La Pira, Guttuso, Moravia, Bobbio, Silone, Capitini, solo per fare solo alcuni nomi, ma anche da insigni intellettuali europei come Bertand Russell, Eric Fromm, Jean Paul Sartre, Aldous Huxley, Jean Piaget. Dinanzi a una così corale e pubblica manifestazione di stima, tributatagli da insigni personalità della cultura nazionale ed europea, persino i giudici più distratti, insensibili e superficiali, per non voler pensare ad altro, avrebbero dovuto sentirsi in obbligo di rileggere con particolare attenzione le pesanti accuse, anche se il più delle volte in forma implicita, indirizzate alla persona di Bernardo Mattarella e loro presentate, tra anni cinquanta e sessanta, per meglio verificare se e fino a che punto fosse legittimo sostenere che quelle accuse fossero completamente infondate.

Naturalmente, la condanna giudiziaria nei riguardi di Dolci fu agevolata anche dal fatto che in Sicilia il sociologo di origine italo-slovena fosse molto odiato. Molto amato nel resto dell’Italia e in Europa, molto odiato in Sicilia, come testimoniano emblematicamente i giudizi sprezzanti su di lui espressi dal cardinale Ernesto Ruffini, per molto tempo arcivescovo di Palermo e successivamente componente della Pontificia Commissione centrale incaricata di preparare il Concilio Vaticano II: Dolci, secondo Ruffini, era un esibizionista, venuto in Sicilia per farsi pubblicità con i suoi digiuni e i suoi scioperi non violenti, e un mistificatore portato a dipingere la Sicilia come una regione interamente dominata e devastata dalla mafia! Tutti, oggi, possono stabilire chi dei due avesse ragione! Il problema era che Dolci aveva ben colto la contiguità esistente non solo tra mafia e politica ma anche tra mafia e Chiesa e Ruffini avrebbe tentato di distruggere in tutti i modi, senza riuscirci, questa nomèa che, insieme a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, anche Dolci aveva attribuito a quell’ampio ed eterogeneo popolo siciliano di possidenti, affaristi e detentori di posti di potere e di comando: «Una propaganda spietata … ha finito per far credere … che i Siciliani, in generale, sono mafiosi, giungendo a denigrare una parte cospicua della nostra Patria, nonostante i pregi che la rendono esimia nelle migliori manifestazioni dello spirito umano»9: Ruffini intendeva difendere e distinguere “l’autentica sicilianità” dal fenomeno mafioso, ma la storia stessa della Sicilia, tra anni cinquanta e fine secolo e oltre, avrebbero dimostrato l’inconsistenza, la vacua genericità di quella difesa. E, d’altra parte, riferendosi a Dolci, non avrebbe esitato a dire «dopo più di dieci anni di pseudo apostolato questa terra non può vantarsi di alcuna opera sociale di rilievo che sia da attribuirsi a lui»10. Lo stesso Giovanni Falcone, in un articolo uscito sull’Unità otto giorni dopo la sua morte, in evidente anche se implicita contrapposizione alla posizione di Ruffini, rilevava come negli anni del dopoguerra il fenomeno mafioso fosse stato totalmente sottovalutato «sia da parte di tutti i mezzi di informazione, sia da parte di tutte le istituzioni dello Stato, politiche e giudiziarie»11.

In questo articolo, non ricorrono espliciti riferimenti all’eventuale ruolo svolto dalla Chiesa siciliana nella storia della mafia insulare, a partire dal secondo dopoguerra sino all’inizio degli anni novanta, ma si dà lo sfortunato e scandaloso caso dell’autorizzazione ecclesiastica palermitana alla recente celebrazione di un venticinquesimo anno di matrimonio tra due noti mafiosi quali Tommaso Lo Presti e Teresa Marino nella chiesa di san Domenico, a Palermo, considerata il Pantheon in cui riposano  i siciliani illustri come Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo insieme a tutti gli agenti uccisi della sua scorta, distintisi per particolari meriti civili come quelli relativi alla lotta contro la mafia. In questa chiesa erano stati celebrati anche i funerali di Stato del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982. Il rettore di tale Chiesa ha cercato di difendersi dalle critiche spiegando che lui non sapesse chi fossero quegli sposi12, ma bastano queste parole per capire che, molto probabilmente, anche a distanza di molte decenni, il giudizio più veritiero non fosse quello del cardinale Ruffini, bensì quello del vituperato Danilo Dolci.

Ora, ritornando al tema della libertà di pensiero, di espressione, di informazione, dal quale solo in apparenza ci si è allontanati, è di tutta evidenza che i giudici siciliani che  condannarono questo campione di intelligenza critica e generoso e pacifico impegno sociale, ritenendolo inattendibile, avrebbero dovuto mostrarsi, con ogni probabilità, molto più riguardosi verso di lui che non verso la famiglia Mattarella, certamente degna di rispetto ma non fino al punto di essere ritenuta intoccabile sulla base di una denuncia formulata da un uomo indubbiamente degno di fede quale Dolci, di una denuncia forse formalmente carente o difettosa qua e là ma non per questo priva di solidità e sostanziale plausibilità. Peraltro, c’è da ritenere che, alla lunga, anche il successivo accanimento della famiglia Mattarella e dello stesso giurista e politico Sergio Mattarella ai danni di Alfio Caruso, il cui avvocato avrebbe richiesto verso la fine del secolo, la revisione del processo che ne aveva decretato la colpevolezza, e la persistente amplificazione massmediatica di vicende non piacevoli per i Mattarella oltre che per i presunti calunniatori e diffamatori, non contribuiscano di certo a salvaguardare e ad immunizzare da futuri sospetti e dicerìe la memoria del padre del Capo dello Stato, il quale però dovrebbe rendersi conto che allora come oggi, per la sua personale esperienza e per l’altrui possibile esperienza, non sempre è particolarmente agevole stabilire se sia o non sia legittimo il diritto ad informare e ad essere informati correttamente, chi possa e come si possa oggettivamente accertare se l’informazione sia o non sia corretta, se e quando, e in che senso, l’informazione assolva «la funzione di anticorpo contro le adulterazioni della realtà»13.

Oltre tutto, è impensabile che un esperto uomo di Stato come Mattarella possa illudersi circa il fatto che una condanna processuale di natura penale possa o debba necessariamente coincidere con un analogo responso sul piano morale, e che, nella fattispecie, uomini come Dolci e Caruso siano destinati inesorabilmente ad essere consegnati alla storia in guisa di malfattori e calunniatori di professione piuttosto che in guisa di generosi e coraggiosi servitori della libertà di pensiero e di corretta informazione. Come si potrebbe essere onestamente certi che la legge Gonella, ricordata nel discorso presidenziale, non sia stata rispettata, diversi decenni or sono, quando la stessa giurisprudenza non era peraltro così evoluta come quella odierna, da Dolci e Caruso, nel punto in cui recita testualmente: «E’ diritto insopprimibile dei   giornalisti   la   libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede»? Siamo certi che si possa dubitare della loro lealtà e della loro buona fede, della loro capacità di rispettare la verità sostanziale dei fatti, di avere essi scientemente inteso violare la dignità altrui? Dall’esposizione contestuale, e necessariamente non analitica, dei fatti qui fornita, non si direbbe, anche perché non possono passare inosservate né le annotazioni critiche di Pio La Torre, che avrebbe definito ufficialmente il padre di Sergio, nella relazione di minoranza presentata dal Pci in Antimafia e da lui firmata, come «il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal separatismo, alla Dc», né le dichiarazioni dell’onorevole Martelli che a quelle annotazioni si sarebbe legittimamente richiamato. A proposito, perché, tra tutti coloro che, nel tempo, avrebbero accusato di collusione mafiosa il padre del Presidente, solo Martelli non sarebbe stato trascinato in tribunale né da Sergio, né da altri familiari della sua famiglia? Resta un mistero!

Peraltro, lo stesso Caruso, in un’intervista rilasciata a Pietro Mancini, figlio di Giacomo, l’onorevole socialista, nel tentativo di conferire al libro per il quale sarebbe stato incriminato e condannato maggiore legittimità di quella che i suoi giudici sarebbero stati disposti a riconoscere, avrebbe affermato: «il mio libro (“Da Cosa nasce Cosa”, pubblicato da Longanesi nel febbraio del 2000 e giunto alla sesta edizione), si basa soltanto su quanto io, all’epoca, trovai nei libri e negli articoli pubblicati. Libri e articoli che, per i fatti riguardanti Bernardo Mattarella, i figli e i nipoti, mai, avevano smentito, rettificato, querelato, citato in giudizio», aggiungendo e perfino specificando, senza tema di essere smentito, che uno dei casi più eclatanti «attiene al saggio “La mafia” del professore tedesco Henner Hess, pubblicato da Laterza nel 1983, prefazione di Leonardo Sciascia (1921-1989), un autentico best seller. Ebbene, a pagina 274, è scritto : “il mafioso Bernardo Mattarella”. Figli e nipoti non hanno mosso un dito. In compenso, si sono scatenati contro di me, che mai ho dato, esplicitamente, del mafioso a Bernardo Mattarella»14. C’è, effettivamente, qualcosa che non quadra, perché l’osservazione di Caruso, insieme ad altre su cui si preferisce ora sorvolare ma che il lettore può facilmente acquisire, appare non solo legittima ma addirittura inquietante, e non c’è dubbio che un sincero amante non solo della libertà di pensiero e della libertà di stampa ma della libertà tout court non possa che sentirsi costretto, da una legge che va oltre i codici senza infrangerli, a evidenziarlo come elemento gravemente contraddittorio rispetto alla linearità di comportamento sempre rivendicata dalla famiglia Mattarella, ivi compreso Sergio.

Non ritengo di dover omettere, invece, la citazione dell’ultima frase pronunciata da Caruso in quell’intervista e completamente favorevole a Danilo Dolci: «Alla luce di quanto è venuto fuori in questo mezzo secolo, oggi, Dolci sarebbe assolto e ringraziato. E’ il motivo per il quale, con l’avvocato Repici, ho chiesto alla Procura di Roma la revisione di quel processo, in cui “due collusi con i clan” (Di Carlo dixit), Calogero Volpe (1910-1976) e Mattarella senior, ottennero la condanna della prima icona dell’antimafia. Ci sembra uno sconcio da cancellare!»15. Ma, venendo all’attualità, il Capo dello Stato ha ricordato incidentalmente l’articolo 21 della Costituzione che recita, tra l’altro, testualmente così: «Tutti», non solo i giornalisti professionisti, «hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ….. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure … Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». Bene, tutti possono dire quello che vogliono nei limiti della legge e, in tal senso, a meno che per legge qualche leguleio di professione non venga proponendo di intendere metafisica della legge, non c’è nulla che debba essere autorizzato o debba essere censurato (sarebbe, peraltro, complicato decidere logicamente e democraticamente sulla base di quali criteri), ad eccezione di tutto ciò che venga manifestandosi in violazione dell’ormai obsoleto ma costituzionalmente ancora vincolante principio del buon costume. Dal capo dello Stato ci si aspetterebbe, anche in ragione della sua fede cattolica, che si presume non costituisca una semplice appendice della sua etica politica e della sua spiritualità, interventi, in realtà mai percepiti ad oggi, tanto autorevoli quanto rigorosi su temi di vita civile attinenti il buon costume, che, come spiega la Fondazione Treccani, è da intendere come «principio generale che riassume i canoni fondamentali di onestà, pudore e onore espressi dalla società in una data epoca, costituendo un limite all’autonomia privata».

In questo nostro paese, nella nostra vita politica, nella nostra vita civile e sessuale così come viene manifestandosi nel dibattito pubblico e nel quadro delle pubbliche relazioni comportamentali, linguistiche, motivazionali e progettuali, si ritiene che lo strettamente soggettivo, il privato, con l’inevitabile corredo di elementi indecorosi o volgari e di eccedenze voluttuarie, sia tenuto sufficientemente a freno sul piano giuridico-istituzionale ed etico-deontologico oppure che la socialità, la mediazione etico-giuridica tra preferenze e pulsioni o esperienze egotistiche, il bene della communitas, siano posti crescentemente a rischio dallo straripamento oggettivo di vissuti individuali carichi di energie incontrollate e prossimi a deflagrare rovinosamente all’interno di un tessuto sociale ormai debole e sempre meno coesivo? In questo secondo caso, ritiene Mattarella di spendere un po’ della sua autorevolezza in un’opera di stigmatizzazione di esorbitanti e innaturali pretese sessuali, di insistenti e parossistiche ma velleitarie e pur sempre opinabili recriminazioni giuridiche ed esistenziali, di pratiche di vita ormai ispirate solo da una arbitraria dilatazione dei confini dei diritti e delle libertà e sostanzialmente scariche di senso personale e collettivo del dovere e del bene comune? Non è troppo limitativo, per un Capo di Stato, andare troppo a ruota della bagare politico-istituzionale e di prevalenti correnti di pensiero, anche a dispetto di una volontà maggioritaria di governo e di popolo, che è componente non unica ma fondamentale e ineludibile di un sistema democratico, per incentrare e concentrare le sue critiche su fenomeni deplorevoli ma ogni volta suscettibili di interpretazioni non tendenziose e unilaterali ma equilibrate e lungimiranti?

Ci si aspetterebbe, non in qualità di faziosi fascisti ma di sinceri e anticonformisti democratici, che il Capo dello Stato non assecondasse unilateralmente certa opposizione politica tirando le orecchie alla seconda carica dello Stato, ma, ponendo sullo stesso piano le violenze di qualunque parte politica, a danno di giornalisti o di altri e diversi soggetti umani e sociali, le ritenesse ugualmente lesive della dignità e integrità personali e umane: notando anche, possibilmente, da ottimo giurista, che un giornalista non ha il diritto di introdursi furtivamente in casa mia o in una riunione di condominio o in un gruppo privato di persone, per realizzare la sua inchiesta verosimilmente scandalistica e diffamatoria, anche se in casa mia, in una determinata circostanza, dovesse aver luogo un’orgia, e in una riunione di condominio dovessero essere pronunciate parole sconvenienti e lesive della dignità di questa o quella categoria o figura professionale, e in un gruppo circoscritto e consensuale di individui si dovessero celebrare, in una particolare dinamica psico-neurotica appunto di gruppo, anche con toni esasperati, i fasti del Terzo Reich o le icone più spietate del comunismo sovietico e cinese, perché in casa mia faccio quel che voglio e tu giornalista non hai diritto di esserne clandestinamente partecipe, per cui se ti scopro sono legittimato a sbatterti fuori anche avvalendomi della forza pubblica, e lo stesso ragionamento vale in tutte le altre possibili esemplificazioni. E’ chiaro? Non solo la logica comune, ma anche e soprattutto il dispositivo dell’art. 614 del Codice Penale, dice esattamente questo: «Chiunque s’introduce nell’abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce clandestinamente o con l’inganno, è punito con la reclusione da uno a quattro anni». A mio avviso, quel giovane giornalista di Torino che è stato malmenato da simpatizzanti fascisti tra cui non poteva intrufolarsi con l’inganno, ha diritto a rivalersi contro di essi civilmente perché malmenato e danneggiato come persona, ma è insieme passibile di denuncia per aver violato un articolo del codice penale. Se poi mi sbaglio, vuol dire che l’articolo appena citato è stato scritto decisamente male16. Né, a vanificare il richiamo a tale articolo del Codice Penale, può essere utile ed efficace, contrariamente a quanto fatto da alcuni idioti, il richiamo all’art. 16 della Costituzione che si riferisce al diritto di libera circolazione e di soggiorno sul territorio nazionale: tema completamente distinto e diverso da quello relativo alla illiceità di introdursi abusivamente in casa altrui o in gruppi associativi privati o formati privatamente a scopi associativi privati di qualsivoglia natura. 

Dopodiché, come mai Mattarella non è intervenuto anche per difendere la dignità personale ed istituzionale del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del suo stesso gruppo politico, allorché due docenti universitari, quali Luciano Canfora e Donatella Di Cesare, non si preoccuparono minimamente di violarla in pieno? Difendere le istituzioni non dovrebbe costituire il compito specifico del Presidente della Repubblica? Come mai Mattarella, senza batter ciglio, ha consentito al presidente francese Macron, in occasione dell’ultimo G7 tenutosi in Puglia e in presenza della premier Meloni, di esprimere allusioni offensive nei riguardi di quest’ultima? Come mai Mattarella, notoriamente filoisraeliano a differenza di molti cittadini del mondo tra cui io, non censura severamente le violenze e i disordini provocati da gruppi sociali di sinistra, rivolgendo in pari tempo parole di disapprovazione ai governanti di Tel Aviv per l’oltranzismo militarista e bellicista che, ancora una volta, sta decimando il debole popolo palestinese? Come mai Mattarella, così doverosamente pronto a condannare la devastazione dei locali romani della CGIL, si mostra ben più lento a condannare gli attentati dinamitardi compiuti contro alcune sedi provinciali di Fratelli d’Italia? Come mai non ha avuto niente da dire contro quei soggetti politici che rivendicano apertamente la legittimità dell’occupazione della proprietà altrui, ovvero pretendono di depenalizzare l’odioso reato di furto? Perché evita di rivolgersi con toni critici espliciti alle forze di destra o di sinistra che vorrebbero negare il sostegno militare al popolo ucraino? Se sbaglio chiedo scusa, ma questo è quel che percepisco e continuo ininterrottamente a percepire.

Ancora: perché sembra tornargli così ostico il concetto per cui la difesa degli interessi nazionali e di connessi valori etico-civili, non possono mai essere messi in discussione da “superiori” ragioni di politica e di politica economica internazionali, né riesce a comprendere, in qualità di giurista, capo di stato e cattolico, che l’Europa ha una sua ragion d’essere e un suo senso etico-politico universale non in quanto i popoli e gli Stati che ne fanno parte vengano annullando la loro identità nazionale e le loro tradizionali e attuali specificità economiche, sociali e culturali, magari anche con cessione di sovranità a prescindere dall’uso che se ne faccia, ma, al contrario, in quanto essa sappia configurarsi come governo non sovranazionale ma federativo e capace di potenziare le peculiarità e le risorse di ognuno di essi e di vivere del loro stesso sviluppo economico e tecnologico come del loro progresso civile in funzione di un forte e solidale progetto unitario di umanizzazione e fortificazione complessiva dello stesso mondo europeo? E’ risibile, peraltro, l’ennesimo tentativo della cultura e del giornalismo burocratico europei di interferire nel libero svolgimento della vita politica italiana e sulle decisioni governative in materia di politica e pluralismo culturali17. Si attende ancora una doverosa replica del Capo dello Stato, a questa e ad altre provocazioni autoritarie, ma soprattutto il suo solenne monito a non voler confondere l’Unione Europea con un feudo in cui vigano rapporti di vassallaggio e i cui missi dominici assolvano una funzione ministeriale di rigido e spesso pretestuoso controllo nelle diverse regioni del territorio di loro competenza. Non è inopportuno ricordare, in un’epoca di sostanziale servilismo giornalistico e culturale, che Antonio Gramsci, in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell’ottobre 1931, affermava: «Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale»18.

Anche la politica richiede spirito critico e non semplice e passivo adattamento a multiformi e contraddittorie istanze di crescita economica e di astratta unificazione giuridico-culturale che prima o poi, peraltro, potrebbero anche esplosivamente collidere con gli eterni valori della fede in Cristo e nel suo regno di fraterna condivisione materiale e spirituale. Ecco: sto concretamente esercitando la mia libertà di pensiero, di critica e di informazione al servizio della mia comunità nazionale di appartenenza e di un’umanità politica internazionale più rispettosa dei diritti e dei valori di tutti e, in pari tempo, sto tentando di esercitare il mio diritto di critica nei confronti di una libertà laica e pluralistica di informazione che, in troppi casi, appare ottusamente condizionata da feroci pregiudizi di parte e da uno spirito di crociata non solo contro scelte governative ma soprattutto contro un popolo elettoralmente e istituzionalmente maggioritario che, ormai stanco di palesi e irresponsabili incompetenze governative del passato e di una ancora imperversante e nichilista cultura progressista della chiacchiera, quelle stesse scelte, in massima parte, ha legittimamente autorizzato a fare. Le minoranze devono essere certo rispettate e protette in un sistema democratico ma non fino al punto di tollerarne una volontà totalitaria che, democraticamente, merita invece di essere scoraggiata e repressa. Pensarla diversamente, al riguardo, comporta solo l’assunzione di un atteggiamento demagogico e strumentale.

Quel che manca totalmente, almeno in Italia, nella odierna cultura democratico-progressista oltre che in una larghissima parte della cultura di destra o della stessa cultura cattolica, è quella «conoscenza di se stessi» che, come si legge nella famosa “Gazzetta Renana” su cui Marx, nel 1842, avrebbe scritto sei o sette articoli sulla libertà di stampa, è «la prima condizione necessaria per godere la libertà, e tale auto-conoscenza è impossibile senza l’auto-confessione». Ma capire questo, capirne il senso, specialmente a sinistra, è oggi molto difficile da parte di una moltitudine incolta di individui che ha sempre citato e continua a citare Marx senza averlo letto e, soprattutto, senza averlo mai inteso e compreso. John Stuart Mill, che fu un grande teorico di libertà e di libertà di stampa, si chiedeva in quale caso è razionalmente possibile affermare che un paese sia completamente privo di libertà intellettuale, e la risposta che forniva era, all’incirca, di questo tipo: «quando gli uomini arrivano a nutrire sentimenti e opinioni ostili nei confronti di chi non aderisce al pensiero convenzionale, fino all’instaurarsi di un clima da condanna ereticale, con una società che impone un “marchio d’infamia” che intimidisce i cittadini…  il danno più grave in un’atmosfera di questo tipo non lo subiscono i presunti eretici, o le menti più illuminate, ma gli intelletti di coloro che eretici non sono, i quali risulteranno intimiditi da questo clima e non riusciranno o non avranno il coraggio di sfruttare a pieno le loro capacità mentali. La libertà di pensiero è indispensabile soprattutto agli “uomini normali”, come li chiama Mill, per poter sviluppare senza timori o impedimenti le loro piene facoltà. Dove la libertà di espressione viene conculcata, può sorgere isolatamente qualche intelletto di grande spessore, ma che vi sia un popolo intellettualmente attivo è da escludere ….. Se qualcuno avesse la stravaganza di voler riesaminare un’opinione generalmente accettata o mettere in dubbio una dottrina che, almeno in quel momento, è prevalente ed è accolta quasi dogmaticamente, non guardiamolo con riprovazione né consideriamolo degno di ostracismo. Al contrario, ringraziamolo e “rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò che altrimenti dovremmo fare da soli”»19.

Chiunque voglia essere, sulla base delle sue libere e responsabili convinzioni, sincero e coerente fautore di libertà e democrazia, deve pertanto sapere che persino la sua più accesa militanza intellettuale e politica non potrà indurlo ad abbassare l’asticella né della tolleranza, né della sana resistenza dialettica e civile nei confronti di chicchessia, pur naturalmente sforzandosi di contribuire, sul piano specificamente politico o governativo, al successo e all’affermarsi delle idee e dei valori che ritenga più giusti in un determinato momento storico. Chi vuole intendere, intenda! Se infatti la tutela del diritto alla libertà di espressione e informazione è resa illimitata dall’art. 21 della Costituzione, va da sé che il concetto di limite sia insito nel concetto stesso di diritto: se tutti, nessuno escluso, sono liberi e liberi di pensare, e anzi per certi aspetti hanno il dovere, di partecipare alla vita dello Stato, d’altra parte questo comporta che ogni forma individuale di libertà di pensiero debba riconoscersi implicitamente condizionata o condizionabile, in vario grado e in relazione alle diverse finalità della vita sociale, dalla esplicazione della libertà altrui, donde il configurarsi del pluralismo come valore centrale nel processo di formazione della pubblica opinione, in quanto condizione della molteplicità delle fonti di informazione e delle opinioni e, al tempo stesso, in quanto «argine necessario al dilagare di pericolosi fenomeni di propaganda»20, là dove però un ulteriore problema, ai fini di un reale esercizio di vita democratica, viene ad essere costituito, nell’epoca dei social networks spesso impersonali e meccanizzati, dalla qualità del flusso di dati informativi, dalla controllabilità della loro veridicità conoscitiva.

Ne deriva altresì, spesso non sempre, una sorta di incomunicabilità tra cittadini portatori di visioni preconcette e parziali del mondo, tra cittadini che vengono quindi confrontandosi e scontrandosi, anche in sede politico-elettorale, più sulla base di semplici, generiche e non di rado errate opinioni che non sulla base di dati sufficientemente oggettivi e verificabili e quindi suscettibili di assumere un significato propriamente significativo. Il confronto democratico, pertanto, e i relativi, periodici esiti elettorali, hanno luogo necessariamente nel contesto di un sapere impuro, di un sapere in gran parte fondato su una generica e approssimativa doxa, e in minima anche se significativa parte, grazie all’apporto diretto o indiretto di uomini di studio e di ragione, sufficientemente riconoscibili come tali, che alla chiarezza e alla scorrevolezza della comunicazione vengano abbinando felicemente l’attendibilità e la profondità dei contenuti. Non si può, tuttavia, negare che il problema di distinguere tra doxa ed epistème, tra falsità e verità, tra semplice opinione e conoscenza rigorosa, tra genericità informativa e informazione basata su solidi riferimenti logico-culturali e storico-ermeneutici, e al limite tra la dicerìa e la notizia certa, è antichissimo e, sia pure in contesti storici sempre diversi, ha sempre fortemente condizionato il progresso della cultura e della stessa vita politica e democratica, e c’è quindi da ritenere che anche l’umanità democratica contemporanea non abbia possibili scelte alternative a quella di convivere nel modo più prudente e saggio possibile con un pensiero e una cultura che vengano nutrendosi, per una molteplicità di fattori che qui non possono essere presi in considerazione, più di menzogna che di verità, più di mistificazione che di laboriosa, onesta e fedele ricostruzione conoscitiva della realtà, ma anche, comunque, di pur sofferta verità e tendenzialmente oggettiva interpretazione delle reali dinamiche del mondo.. 

Certo, la libertà di espressione, pur essendo un diritto fondamentale, e un vero e proprio pilastro della democrazia, non è un diritto assoluto, anche perché di assoluto in questo mondo non c’è nulla. Il fatto stesso che, come si è detto, ogni individuo è totalmente libero di manifestare e comunicare il suo pensiero, anche se non di fare tutto quel che vuole perché questo porterebbe all’anarchia sociale, significa che tutti sono ugualmente liberi di pensare senza costrizioni di sorta, e per ciò stesso di condizionare e limitare tuttavia, in qualche modo, l’assoluto potere espansivo della libertà di ciascuno. Ma riconoscerlo realisticamente non è motivo di virtuale distensione o pacificazione sociale, giacché, anche in questo caso, il pacifico riconoscimento di una verità non si sottrae a possibili e inevitabili usi strumentali di esso. Solo per esemplificare, sempre più numerosi sono coloro che sostengono che l’omofobia sia un crimine, non “una questione di opinione”. Il pensiero che ritenga legittimo il giudizio omofobico, lungi dall’essere un pensiero libero, sarebbe un pensiero criminale: non un pensiero confutabile ma criminale. E perché mai? Perché non dovrei avere le mie idee, le mie convinzioni, i miei gusti in materia sessuale come su mille altre cose? Perché mi si dovrebbe impedire di pensare, non necessariamente in qualità di credente ma di semplice laico, agnostico e persino laico, che l’omosessualità sia una malattia, o almeno una anomalia di natura, allo stesso modo di come lo sono la zoppìa, la sordità, la cecità o la follia? In che cosa consisterebbe il crimine? Anzi, da un siffatto giudizio non potrebbe che derivare la massima simpatia e solidarietà umana per chi fosse affetto da quella come da qualunque altra patologia, mentre non mi tratterrei affatto dal considerare riprovevole la pratica omosessuale o qualunque altra pratica sessuale deviante anche in relazione a comportamenti eterosessuali. Si può concedere che potrei anche sbagliare, esprimere un’opinione errata o non condivisibile, mi si potrebbe ritenere un bigotto o un represso, ma perché il crimine, in cosa consisterebbe il mio atteggiamento criminoso? Se dico che gli uomini sono cattivi, commetto forse un crimine? Certo, verrò esprimendo un giudizio molto soggettivo, discutibile, ma in che cosa avrò arrecato danno al genere umano di cui io stesso faccio e sono parte? Anche se dico, come sto dicendo, che l’aborto non è un diritto ma un delitto, penso di aver fatto solo il mio dovere di uomo e cittadino.

Un cattolico potrebbe affermare che vivere in opposizione al vangelo di Cristo sia il più orrendo dei crimini umani, e infatti io stesso lo penso: ma mi verrà mai in mente di considerare un ateo, e persino un ateo che goda di pessima fama, un criminale degno di essere punito e privato della libertà di vivere come crede? Ma è pur vero che la via della libertà democratica sia una via irta di difficoltà, di trabocchetti, di insidie di ogni genere, di contraddizioni laceranti: qualcuno potrebbe anche pensare che, siccome non si dà libertà senza senso di responsabilità, non avrei dovuto neppure scrivere questo articolo, che invece ho voluto scrivere assumendomene ogni responsabilità. La via della libertà democratica non è solo una via di libertà formale e legale, ma anche e soprattutto una via di libertà morale e sostanziale, cioè di libertà di coscienza. Se ritengo che quel che penso, dico e trasmetto ad altri, non sia sgradito al Dio di giustizia e misericordia in cui credo, mi sento pienamente legittimato a testimoniare di conseguenza, con la speranza di non incontrare l’ostile resistenza della società civile e dello Stato. Non posso immaginare che il presidente Mattarella non capisca il senso delle considerazioni fatte sulle vicende della sua famiglia in relazione al problema della libertà di pensiero e informazione, né che fraintenda il senso dell’approccio critico e problematico alla questione relativa ai modi in cui quella libertà possa e debba legittimamente e democraticamente esercitarsi, o non intenda infine che la libertà di informazione comprenda e non escluda la critica razionale e ragionevole della stessa libertà di informazione, anche se non capisco come non riesca neppure ad ipotizzare che, in questo momento, quei giornalisti che attaccano il governo Meloni sulla libertà di stampa, rivendicando cialtronescamente a se stessi quasi un diritto di vita o di morte, in realtà stiano non solo tramando contro gli interessi nazionali ma contro una libertà di stampa in Italia non più assoggettata a pochi padroni e a ben noti soggetti parassitari dell’economia italiana. Non posso immaginarlo, ma, anche se al posto di Mattarella ci fosse un tiranno, sarei pronto a rispondere delle mie idee a Dio e agli uomini di questo tempo. D’altra parte, ho solo cercato di essere utile, gramscianamente, alla collettività: «La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo fatale estraneo ai singoli»21.

Francesco di Maria

NOTE

1 Dovrebbe essere ormai agevolmente riconoscere che esiste un fascismo nero, un fascismo rosso e persino un fascismo bianco. Quanto al secondo, esso è quello impersonato dai “puri di sinistra” che sono stato oggetto della critica implacabilmente veritiera di Andrea Di Consoli, Puri, sempre più puri: i fascisti di sinistra che ostracizzano i riformisti e i garantisti, in “Il Riformista” del 24 aprile 2024. Qui si legge che «sono furbi e in malafede, i “puri” di sinistra. Perché pensano che le storture del mondo siano risolvibili con qualche parola d’ordine, con degli slogan, con degli anatemi, con le manette. Per loro la difficile partita con la realtà si risolve dividendo il mondo in buoni e cattivi, e così si sentono a posto con la coscienza. Ma se c’è una cosa che rende veramente adulto un essere umano è proprio il realismo, il saper governare la complessità, il praticare l’esercizio del dubbio, il capire e gestire le contraddizioni, le ambiguità, le storture della vita. Mi sembrano degli adolescenti, ecco. Quando ascolto leaders politici come Conte e Schlein io penso sempre ai tempi della mia adolescenza, quando ci bastava dire: siamo contro la guerra, siamo contro lo sfruttamento, siamo contro i ricchi e contro il capitalismo. E ce ne tornavamo a casa felici e soddisfatti di aver rimarcato ancora una volta di stare dalla parte giusta della storia, senza esserci sporcati minimamente le mani con la vita reale. I “puri” di sinistra non accettano – ipocritamente – che l’essere umano sia un legno storto». Si può segnalare anche lo scritto di uno studioso anarchico russo, noto come Volin, antibolscevico e nella tarda maturità anche massone, nonché autore di un testo significativo tradotto in italiano nei primi anni cinquanta: Volin, Il fascismo rosso, Reggio Calabria, Edizioni Anarchiche, 1953.

2 P. Zanotto, Oltre Destra e Sinistra. La crisi della democrazia e il revival del populismo, in Rivista di Teoria e Pratica “Il Merito”, 4 ottobre 2018.

3 La questione della libertà di stampa presuppone la questione della libertà come valore, come capacità e responsabilità nell’esercizio di un voler libero, e per questo è questione particolarmente complessa e irriducibile ad usi strumentali di qualunque genere: cfr. (A cura di G. Limone), La responsabilità di essere liberi, la libertà di essere responsabili, Milano, Franco Angeli, 2012.

4 Tuttavia, una di queste accuse è quella mai realmente inficiata da prove inoppugnabili dell’ex ministro della giustizia, onorevole Claudio Martelli, che, con parole ferme e sostenute dal riferimento a documenti e circostanze storiche su cui mai si volle compiutamente indagare, avrebbe dichiarato: «Bernardo Mattarella, secondo gli atti della commissione antimafia e secondo Pio La Torre, fu il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal fascismo, dalla monarchia e dal separatismo, verso la Dc. Può darsi, come molti affermano, che il figlio Piersanti si sia riscattato da quella storia familiare e che per questo sia caduto», F. Viviano, I Mattarella contro Martelli: “ci insulta”, in “La Repubblica” del 17 marzo 1992.

5 Nell’articolo citato, viene riferito che Sergio Mattarella avrebbe dato del “miserabile” al ministro socialista e nei suoi riguardi avrebbe usato la seguente espressione, priva di “garbo istituzionale”: “visto che, purtroppo, è ministro della Giustizia”.

6 E. Fierro, Mattarella presidente, Claudio Martelli: “Merita rispetto, ma no santificazione”, in “Il Fatto Quotidiano” del 2 febbraio 2015. Uomo da rispettare, ma non da santificare: questo disse Castelli di Mattarella, non senza ricordare che «Sergio Mattarella è stato un uomo di partito, di corrente, di polemiche aspre. È stato l’uomo che all’indomani del ribaltone che defenestra Romano Prodi diventa il vicepresidente del Consiglio con D’Alema. E anche quelle dimissioni dal governo sulla legge Mammì, aspetterei a leggerle come una scelta ideale, diciamo che furono ordini di corrente ai quali Mattarella e altri ministri ubbidirono». Insomma, l’attuale Capo dello Stato, alla luce di questa pur risentita testimonianza, non sembra essere certo un santino della politica repubblicana in grado di dare oggi, a destra e a manca, mi correggo per dire quasi esclusivamente a destra, patenti di particolare affidabilità e rispettabilità istituzionali.

7 Cfr., al riguardo, il puntuale resoconto di G. Pipitone, I 100 anni dalla nascita di Danilo Dolci, quell’omissione sulle accuse al padre di Mattarella e la condanna per diffamazione,  in “Il Fatto Quotidiano” dell’1 luglio 2024.

8 S. Mattarella, Discorso alla stampa, Palazzo del Quirinale, 24 luglio 2024.

9 Cardinal Ernesto Ruffini, Il vero volto della Sicilia, Lettera pastorale, Palermo, 1964.

10 Ivi.

11 G. Falcone, Io, Falcone, vi spiego cos’è la mafia, in l’Unità del 31 maggio 1992, p. 8.

12 Cfr. R. Chifari, L’ultimo sfregio: la festa del boss mafioso nella chiesa dove riposa Falcone, in “Il Giornale” del 26 aprile 2024.

13 S. Mattarella, Discorso alla stampa, cit.

14 Intervista di P. Mancini ad Alfio Caruso, Ombre sul padre di Sergio Mattarella, in “Affari italiani.it”, 22 settembre 2016.

15 Ivi. Interessante anche la dichiarazione dell’avv. Fabio Repici, legale di A. Caruso, riportata col titolo Bernardo Mattarella, l’attendibilità del pentito e le conoscenze siciliane, in “Il Fatto Quotidiano”, 2 aprile 2016. Da vedere anche R. Chinnici, L’illegalità protetta. Le parole e le intuizioni del magistrato che credeva nei giovani, Palermo, Glifo Edizioni, 2017.

16 Tuttavia, ho ben presente la complessa casistica nazionale d’intonazione sofistica e anzi eristica, della materia giuridica cui si è fatto riferimento: si veda solo, a titolo esemplificativo, Privacy e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell’Ordine dei giornalisti – 6 maggio 2004, in sito del “Garante della protezione dei dati personali”.

17 Cfr. D. Di Sanzo, Nordio “indignato” per il report dell’Ue. La stampa europea: “L’Italia è illiberale”, in “Il Giornale” del 26 luglio 2024.

18 Nella postfazione del volume A. Gramsci, Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell’Unità, a cura di Gian Luca Corradi, Firenze, Tessere, 2017, ha annotato significativamente Giorgio Frasca Polara: «Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia». E’ altrettanto indicativo dell’assoluta libertà di pensiero del combattente sardo il fatto che egli non esitasse a difendere uomini di cultura estranei al suo credo politico-culturale e tuttavia, a suo giudizio, meritevoli di stima e di solidarietà nel caso in cui avessero ricevuto critiche gratuite o ingiuste, come avvenne nel caso del maestro Toscanini, nel maggio del 1916, allorché venne fortemente contestato dal pubblico, in un momento in cui l’Italia era entrata in guerra contro gli Imperi centrali, per aver deciso di eseguire una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, oppure nel caso di Luigi Pirandello di cui pure conosceva le tendenze politiche ma di cui volle ugualmente riconoscere il merito di creare “immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione”: G. Cedrone, Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli “contro”, rivendicati fino al tribunale fascista, in “la Repubblica” del 6 aprile 2017. Oggi forse avrebbe difeso anche il maestro Beatrice Venezi dalle contestazioni di un pubblico cafone e abusivo della democrazia oppure persino un filosofo spesso incomprensibile ma “spesso indispensabile” come Giorgio Agamben. Il virgolettato, riferito ad Agamben, è tratto da C. Langone, La cultura di destra in Italia? Eccola qua, in “Il Foglio”, 20 marzo 2023. Beninteso, Agamben, originariamente di sinistra, può essere considerato di destra in senso fattuale: per esempio, egli condivide tipiche posizioni di destra sull’opposizione alla vaccinazione obbligatoria anti-covid oppure sulla non condivisione della concessione ai migranti dello jus soli.

19 S. Rapaccini, Libertà di espressione, fino a che punto? La lezione di Mill, in “Il Pensiero Storico”, rivista internazionale di storia delle idee, 26 maggio 2022. L’opera di riferimento del grande pensatore inglese è naturalmente: J. S. Mill, Saggio sulla libertà, Milano, Il Saggiatore, 2023.

20 Redazione della Rivista giuridica on line “Ius in itinere”, La libertà di espressione: aspetti problematici nell’era di internet, 21 gennaio 2020.

21 A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949, pp. 136-137.

 

 

 

 

 

 

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