Nei testi primotestamentari la giustizia appare costantemente associata alla rettitudine o all’integrità morale di singoli o gruppi, mentre in quelli neotestamentari essa tende a coniugarsi piuttosto con uno spirito di equità o di rettitudine basata sulla giustizia come principio o valore ma non sganciata dalla coscienza di ciò che può ritenersi o valutarsi giusto non in astratto ma sulla base di concreti casi empirici. La giustizia divina è principio o legge ontologicamente inerente l’essenza stessa di Dio, non quindi una legge altra dalla stessa volontà divina e a cui questa debba conformarsi, e tale giustizia è tuttavia relativamente flessibile in relazione ad una notevole pluralità di casi e situazioni che possono accadere o manifestarsi nel corso della complessa e drammatica vicenda storico-umana. In altri termini, la giustizia divina, per quanto sia rigorosa e severa, è altresì una giustizia intrinsecamente misericordiosa o pietosa. La giustizia di Dio è una giustizia secondo verità, che è un altro primario attributo dell’essenza divina, è una giustizia assoluta, oggettiva, imparziale, priva di pregiudizi o di preferenze aprioristiche, anche se non inflessibilmente rigida ma sensibile allo sforzo delle creature di riconciliarsi con il loro unico signore, essendo il peccato ma non il peccatore il suo unico e definitivo nemico. La giustizia di Dio, pertanto, altro non esprime che la santità stessa di Dio.
Tale giustizia, sempre pronta al perdono dei peccatori pentiti o ravveduti, non prevede tuttavia che il colpevole possa essere considerato “innocente” e restare direttamente o indirettamente impunito (Es 34, 7) e anzi condanna il peccatore irreversibilmente recidivo alla morte eterna (Ez 18, 4), perché, come scrive in modo significativo Paolo, «il salario del peccato è la morte» (Rm 6, 23). Da tutto questo emerge che non può darsi uomo realmente religioso e uomo tout court che possa pensare a costruire una giustizia umana deliberatamente difforme da quella divina o fraudolentemente imitativa di quella divina. Certo, la giustizia umana, in quanto soggetta al peccato e nella diversità delle sue forme storiche, avrà carattere di relatività, di parzialità, di mutevolezza, di contro alla giustizia assoluta ed eterna di Dio, anche se, di volta in volta, si tratterà di intendere sempre meglio quest’ultima, di coglierne o scoprirne significati inediti o non ancora emersi nella coscienza religiosa della comunità ecclesiale, ma, ai fini della salvezza, sarà sufficiente fare del proprio meglio per conformarsi il più possibile alla giustizia di Dio e ottenere la sua misericordia. Le opere saranno importanti, ma decisiva ai fini della salvezza saranno solo, per grazia divina, la fede e i comportamenti pratici da essa implicati.
Credere nella risurrezione di Cristo, nelle sue opere e nella sua Parola, è un atto di giustizia oltremodo gradito a Dio e sino al punto di implicare, ai suoi occhi, la nostra giustificazione di esseri peccatori: «Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 5, 1). La giustizia dell’uomo può scaturire solo dalla fede nella giustizia divina, donde, come efficacemente sintetizza Giovanni, chi coerentemente «crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 18-19). Nella fede biblico-evangelica il concetto di giustizia occupa un posto preminente: solo nel vangelo di Matteo, esso ricorre sette volte e, in generale, in tutto il Nuovo Testamento esso è il concetto-chiave che esprime il valore della fedeltà individuale e comunitaria a Dio.
La giustizia divina, nella vita del cristiano, viene assolvendo una duplice funzione: antiseduttiva e orientativa. Antiseduttiva nei confronti delle apparenti e fallaci certezze e delle morbose passioni del mondo, e orientativa in funzione di un percorso quanto più virtuoso e santo possibile di vita morale e spirituale. Come recita Giovanni: «Figlioli, nessuno v’inganni. Chi pratica la giustizia è giusto come egli è giusto» (1 Gv 3, 7), cui si affianca Paolo quando scrive: «Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni» (1 Tm 6, 11-12), e ancora: «Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro» (2 Tm 2, 22).
D’altra parte, sul piano escatologico e soteriologico, la giustizia giudicante di Dio, che incombe costantemente sulla storia dell’umanità individuale e collettiva, non potrà non manifestarsi nella sua pienezza proprio alla fine di quest’ultima, in quanto «Tutti … dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor 5, 10), là dove, peraltro, è significativo che Pietro individui il tratto distintivo del mondo che verrà come un mondo in cui «abita la giustizia» (2 Pt, 3, 13). Va inoltre precisato che, nella complessiva narrazione biblica, l’uomo giusto non è colui che non pecca mai ma colui che, pur soggetto a debolezze ed errori, è capace di riconoscerli e di riconoscersi peccatore, di pentirsi e implorare il perdono di Dio, di rialzarsi con l’aiuto divino dopo ogni sua caduta. Giusto è chi, “timorato di Dio”, si sforza di obbedire totalmente, nello stato di vita in cui si trova, alla sua volontà e ai suoi precetti: come, per esempio, Simeone oppure il centurione Cornelio, oppure Giuseppe di Arimatea membro del sinedrio. Ma il giusto, quali che siano i suoi limiti esistenziali, è principalmente colui che vive «mediante la fede» (Rm 1, 17). E’ stato ben scritto che la ‘giustizia’ talvolta è intesa biblicamente come una qualità etica, ma altre volte, e in modo più frequente, «come espressione dinamica del rapporto con Dio. Giusto è chi si trova in un rapporto positivo con Dio, è chiamato da lui, lo riconosce e lo serve come suo Signore (nonostante le mancanze e le imperfezioni di ogni realizzazione umana)»1 (B. Corsani, Lettera ai Galati, Genova, Marietti, 1990, p. 227).
Si tratta di capire che «vivere nella giustizia vuol dire avere un legame con Dio in cui non esistono vincoli e freni estrinseci»2 (E. Borghi, Giustizia di Dio, giustizia dell’uomo. Lettura della fonte cristiana, Convegno di studi su «Giustizia, solidarietà, globalità. Una lettura teologica di taglio interreligioso», tenutosi a Trento il 22-23 maggio 2002, poi pubblicato, in forma più ampia e articolata, in “Annali di Studi Religiosi”, 2004, n. 5, p. 46), ma vincoli puramente affettivi e intimi, per cui le leggi divine vengono perseguite non per costrizione ma per amore, per un’intima necessità spirituale, così come ci si duole dei propri limiti e delle proprie colpe non tanto per paura di essere puniti quanto per l’interiore afflizione provocata dall’incapacità di onorare pienamente il Signore. Quello della giustizia divina non costituisce solo un tema essenziale della Parola di Dio ma è il tema di gran lunga più ricorrente e rilevante di tutte le Scritture: basti pensare al fatto che tale espressione appare più di cinquecento volte, sia pure in una gamma abbastanza ampia di significati, nel Primo Testamento, e più di duecento volte nel Nuovo Testamento.
Ciò detto, appare tuttavia evidente che la misericordia divina non è biblicamente in posizione subordinata rispetto alla giustizia di Dio né tra l’una e l’altra sussiste un rapporto conflittuale, in quanto la fede non è origine, fondamento e senso, solo della giustizia di Dio, ma anche della sua misericordia3 (A. Fabris, Giustizia e misericordia: tra politica ed etica, in Rivista “Endoxa”, 2024, anno 9, n. 49). La fede è apertura spirituale tanto all’idea di un Dio giusto quanto a quella di un Dio misericordioso. Per gli uomini, naturalmente, consapevoli di come sia complicato su questa terra conciliare il bisogno personale ed esistenziale di essere compresi, amati, aiutati a superare le difficoltà del vivere e del vivere insieme agli altri, con l’esigenza etica e comunitaria, anch’essa di vitale importanza, di regolamentare i rapporti interpersonali e sociali in base a princìpi universali e virtualmente condivisi di giustizia, di rigore, di equità ed equanimità, è ancora più difficile capire in che modo in Dio giustizia e misericordia possano armonicamente e perfettamente fondersi, ma essi sanno per fede che a Dio onnipotente è possibile esercitare la sua giustizia senza minimamente mettere a repentaglio il suo amore, la sua bontà, la sua misericordia. Il fatto è che Dio è assolutamente misericordioso non a prescindere ma a partire dal suo essere ontologicamente verità e giustizia. La misericordia divina è consustanziale con la verità e la giustizia divine, è tutt’uno con esse e ne costituisce un fedele e non arbitrario riflesso.
Dio è amore, è vero, ma nel senso che il suo amore verso le creature nasce e viene alimentato dal suo amore per ciò che è vero e ciò che è giusto, dal senso di verità e giustizia che ogni essere umano venga esprimendo nel quadro delle sue specifiche vicende esistenziali. Dio è visceralmente amore per tutti, perché l’uomo in quanto tale non è autosufficiente, ma l’intensità del suo amore paterno risente evidentemente del modo in cui ogni singolo, per quanto segnato dal peccato e dalla precarietà, si sforza di lottare contro ogni iniquità e di vivere in spirito di verità e giustizia. La misericordia di Dio è per tutti, ma non certo per coloro che ostinatamente non si dispongano a riconoscerne il significato e il valore salvifici: sarebbe forse giusto usare misericordia verso l’empio e il reprobo che si siano compiaciuti di esserlo fino all’ultimo momento di vita, verso coloro che non abbiano mai desiderato e invocato la misericordia divina? Il senso della giustizia divina è mirabilmente preannunciato già in Genesi 18, 25, quando Abramo si rivolge a Dio in questi termini: «Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». E’ un concetto basilare della stessa fede evangelica e cristiana, per la quale la pur travolgente e inarrestabile misericordia divina tende ad esaltare, non a sminuire o a depotenziare, lo splendore della verità e della giustizia di Dio-Padre e Dio-Figlio, sapientemente uniti dallo Spirito Santo in una relazione indissolubile d’amore.
L’amore, già da un punto di vista umano, non può sussistere senza giustizia, così come «senza amore, ovvero senza la capacità di essere misericordiosi, la giustizia è sterile»4 (Ivi). Ciò vale, a maggior ragione, per la realtà divina, in cui tuttavia i due termini sussistono in una loro feconda e perfetta, reciproca integrazione. Dio, che ha la natura incorporata nella sua identità divina, da una parte è padre, amico e salvatore dell’uomo, dall’altra ne è signore e giudice. In quanto padre, amico e salvatore è visceralmente portato a prendersi cura di lui in ogni circostanza della sua esistenza, sino al punto di volersi immolare per la sua salvezza eterna, ma in quanto signore e giudice non può che giudicarlo secondo le sue opere e i suoi pensieri. L’amore infinito di Dio si manifesta principalmente nel fatto che esso è disposto, oltre che a perdonare sempre le colpe delle sue creature, anche e persino ad espiarne i peccati d’origine e attuali, nella persona storica del Figlio unigenito, con l’offerta della propria vita. Ma tale amore non può prescindere dal giudizio divino: Dio è santo, è tre volte santo, e di conseguenza egli può offrire salvezza a chi intenda partecipare, si sforzi di partecipare della sua santità, non certo a chiunque non si mostri minimamente interessato ad usufruire dei suoi insegnamenti salvifici.
Dio è, dunque, infinitamente misericordioso sino al sacrificio di sé, ma è infinitamente giusto, perché non può e non vuole salvare l’uomo contro se stesso e il suo volere. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta: in questa celebre espressione evangelica di Cristo è racchiuso il senso della giustizia e della misericordia divine. Chi confida non nella propria volontà ma in quella di Dio, si mostra consapevole della enorme differenza qualitativa tra giudizio umano e giudizio divino, tra senso soggettivo della giustizia e senso oggettivo della pur imperscrutabile giustizia divina, ma si mostra altresì fiducioso nella natura costitutivamente misericordiosa delle modalità in cui Dio venga esercitando la sua giustizia nei riguardi di situazioni umane e spirituali profondamente diverse. E’ necessario capire che la misericordia divina non può essere una misericordia generica, indiscriminata, al limite umorale o capricciosa, perché una misericordia priva di un criterio oggettivo di riferimento, di precisi princìpi o fondamenti valoriali, di ben definiti presupposti spirituali di natura ontologica, avrebbe a che fare con forme di spontaneismo sentimentalistico, di emotivismo irrazionalistico, più che con forme razionali e ragionevoli, per quanto umanamente inaccessibili, di spiritualità. La misericordia divina non può che essere una misericordia giusta, non indipendente da scelte e atti consapevolmente compiuti dai singoli ma sempre aderente al vissuto reale di ognuno. Non si può, infatti, dimenticare che, tanto sul piano logico-conoscitivo quanto su quello etico-decisionale, il pensiero e la volontà di Dio, per quanto spesso misteriosi o enigmatici, sono pur sempre radicati nel nucleo più profondo e irriducibile della divinità: il Logos, la Ragione, la Sapienza, sintetizzabili nel concetto di Spirito Santo creatore e vivificatore.
Dio non è e non può essere tenero con il peccato. Non può non giudicarci colpevoli per i nostri peccati, ma per il suo amore e la sua misericordia non solo è disposto a perdonarci ma ha voluto dimostrare concretamente quanto egli tenga alla salvezza degli uomini, immolandosi per noi nella persona di suo figlio Gesù Cristo. Attraverso il sacrificio di Gesù sulla croce, Dio si è rivelato giusto e misericordioso allo stesso tempo, giusto nel condannare in modo definitivo le iniquità del mondo, misericordioso nel porsi redentivamente accanto a tutti i sofferenti, gli oppressi e i perseguitati della terra, non meno che ai giusti e ai “poveri in spirito”. Purtroppo, i cattolici di questo tempo appaiono, quasi scaramanticamente, inclini a parlare di Dio più come di un Dio buono e misericordioso che come di un Dio sapiente e giusto, ma la parola ebraica mishpat, corrispondente alla parola italiana giudizio-giustizia, in realtà ha il significato di mettere le cose a posto, di non lasciare che l’andazzo del mondo duri per sempre, e che, in particolare, i miseri siano dimenticati e la speranza dei poveri in spirito vada delusa.
Bisognerebbe, semmai, essere grati a un Dio che promette giustizia per tutti coloro che oggi subiscono ingiustizia, per tutti coloro che oggi sono ingiustamente costretti a vivere in una condizione di povertà e oppressione. Questa giustizia è misericordia e non si dà forma più alta di misericordia al di fuori di una misericordia giusta. In Dio, la giustizia è sinonimo di misericordia, e si sbaglia nel pensare alla giustizia divina come a qualcosa da cui si possa essere schiacciati, piuttosto che liberati e salvati. Invece di essere schiacciati dalla giustizia di Dio, veniamo ad essere liberati attraverso di essa. Ecco perché giustizia e misericordia si incontrano sulla croce di Gesù. Il credente non può concepire la sua vita che alla luce della giustizia di Dio, della giustizia misericordiosa di Dio ma non riducibile a misericordia, bensì implicante uno spirito di verità senza cui non sarebbe possibile, per Dio stesso, stabilire per quali specifiche ragioni, a quali particolari condizioni, la sua giustizia possa o debba venire coniugandosi con la misericordia, la compassione, la pietà, anziché configurarsi come giustizia rigorosa, inflessibile, severa o persino implacabile.
I colori della giustizia divina sono molteplici e diversi, come d’altra parte diversi possono essere i colori di quella umana, in quanto la giustizia e il diritto, che sono cardini imprescindibili del modo divino di giudicare i pensieri e le azioni degli esseri umani, vengono esercitandosi su realtà umane, morali, spirituali, personali o collettive, non sempre simili o uguali, ma spesso, almeno a livello di interiorità, di vissuto intimo non oggettivabile, di radicale e non facilmente comunicabile intenzionalità spirituale, profondamente diverse, differenti, eterogenee i divergenti. In tal senso, non tutti coloro che abbiano commesso uno stesso delitto sulla base di motivazioni apparentemente identiche, dovranno ricevere necessariamente lo stesso trattamento divino, che potrà essere più comprensivo e indulgente o più intransigente e irrevocabile, a seconda delle specifiche esperienze esistenziali e spirituali individuali in cui quel delitto possa essere maturato. La giustizia divina non è sommaria, meramente formale o procedurale, come la giustizia esercitata dagli uomini e da giudici umani. E non infrequentemente può accadere che, persino chi, su questa terra, sia stato condannato alla pena di morte o all’ergastolo o ai lavori forzati, possa poi essere ritenuto innocente e ampiamente remunerato da Dio, così come, al contrario, persino il giudice umano in apparenza più integro e irreprensibile, possa essere poi trattato da Dio come il peggiore dei malfattori.
Non è affatto vero che un buon giudice di questo mondo non possa e non debba esercitare giustizia e diritto pensando alla legge di Dio, per il semplice fatto che le leggi, i codici giuridici, i capi di accusa, le testimonianze a carico o a discarico degli indagati, possono essere facilmente interpretati in modo prevenuto, ipocrita, tendenzioso, e condurre così ad un’assoluzione o ad una condanna indipendentemente dalla realtà oggettiva dei fatti contestati e solo in virtù di criteri illegittimamente discrezionali o decisamente arbitrari di questo o quel giudice. Che è quel che non può accadere, o può accadere in forme meno gravi, se un giudice si imponga di rispettare non solo il diritto positivo ma anche e soprattutto il diritto divino, la legge e la sapienza divine, o, più esattamente, di rispettare la legge codicistica degli uomini alla luce della legge, anch’essa scritta ma sovraumana di Dio. Quante volte, la fede nella giustizia divina potrebbe fungere da requisitoria nei confronti di giudici umani, corrotti e lontani dalla veridicità della Legge, di quella divina e di quella umana, pure molto più imperfetta della prima. D’altra parte, è sin troppo ovvio che, in questo mondo, non solo la legge spesso non sia uguale per tutti, se non ideologicamente e nominalisticamente, ma venga scientemente utilizzata per favorire i colpevoli e punire o penalizzare gli innocenti. Sono porcherie che non potranno mai accadere dinanzi al supremo giudice celeste.
Sarà, infatti, somma e inappellabile giustizia, e nient’affatto deprecabile giustizia, quella giustizia che infliggerà una pena irreversibile a tutti coloro che avranno rifiutato la salvezza, offerta con infinita misericordia da Dio5 (G. Paolo II, Giudizio e misericordia: due dimensioni del mistero di amore, in Udienza Generale del 7 luglio 1999). Per il credente, la giustizia non può consistere nella semplice accettazione dei princìpi o delle norme del diritto civile, per cui essa possa essere intesa come esercizio dei propri diritti in un rapporto di non prevaricazione rispetto ai diritti altrui. Certo, egli è tenuto a rispettare anche certe norme fondamentali del vivere civile, ma egli sa che l’orizzonte di giustizia in cui è chiamato ad agire è molto diverso, molto più ampio di quello storico-convenzionale stabilito di volta in volta dagli uomini: e per il semplice fatto che le forme umane di giustizia sono pur sempre limitate e imperfette, mentre esemplare, immutabile e perfetta, e quindi meritevole di essere assunta quale modello imprescindibile di ispirazione etica, giuridica e politica, è solo la giustizia divina quale è venuta gradualmente rivelandosi al genere umano nel corso di millenni e secoli. Peraltro, occorre sforzarsi di comprendere che così come, a livello di Dio, la giustizia è sintesi armonica di una pluralità di termini, come amore, misericordia, perdono, castigo, anche per il credente la giustizia non significa niente o significa tutto il peggio possibile senza un suo costitutivo e sempre rinnovato coordinamento con una famiglia di concetti, tra cui quello di amore, fraternità, perdono, spirito di servizio, di uguaglianza e di libertà, a prescindere dai quali la giustizia non potrebbe mai assumere la sua più vera e feconda fisionomia.
La giustizia ha certo a che fare con l’amore, ma l’amore non consiste in un generico e astratto “volersi bene” quanto in un continuo sforzo di accettare l’altro nel suo essere diverso da me, sul piano psicologico, culturale, religioso e via dicendo, senza che questo beninteso debba significare l’annullamento della propria identità individuale nell’altro. Tendere verso l’altro, non significa, in senso cristiano, azzerarsi o lasciarsi azzerare in rapporto all’altro, ma offrire il meglio di sé al fine di aiutare, accogliere, ospitare, integrare l’altro, nei limiti delle proprie possibilità e, più in generale, del realisticamente possibile. La carità cristiana, contrariamente a certa retorica teologica dei giorni nostri, non prevede alcun massimalismo etico, ovvero l’obbligo di non abbandonare al proprio destino il povero, l’immigrato, l’emarginato sociale, il malato, anche dopo aver fatto personalmente del proprio meglio per sollevarli, in determinate circostanze, direttamente o indirettamente, dal proprio stato di miseria, di abbandono, di isolamento e frustrazione, perché, se è doveroso guardarsi dalla carità falsa o ipocrita, quella cioè che serve a mettere a posto la propria coscienza, altrettanto doveroso evangelicamente è guardarsi da usi strumentali e ricattatori, paternalistici e demagogici, dell’amore e della carità cristiani. Alla fine, il Dio giusto giudicherà tutto e tutti, ma, nel frattempo, un gesto d’amore, un comportamento caritatevole, dal più semplice al più appariscente, non può essere etichettato come più valido o meno valido, più significativo o meno significativo, sulla base delle apparenze o di determinati moralistici luoghi comuni. Quel che realmente facciamo o non facciamo a favore del prossimo, degli altri, dei bisognosi, non sempre rientra tra le cose o le certezze di dominio pubblico, e anche, se o quando vi rientri, non è detto che persino le più stabili acquisizioni di dominio pubblico non siano ancora suscettibili di censure divine.
Le stesse precisazioni valgono per un concetto così prezioso ma anche così inflazionato come quello di perdono. E’ evidente che un uomo incapace di perdonare persino chi lo abbia gravemente e reiteratamente offeso, non potrà mai essere un uomo giusto, almeno nell’accezione cristiana del termine, ma anche qui necessita un’avvertenza su cui non è possibile sorvolare, nel senso che la concessione evangelica del perdono da parte dell’offeso presuppone la richiesta, esplicita e sincera, del perdono da parte dell’offensore, salvo quei casi in cui oggettivamente non si possa ravvisare nell’offensore una inequivocabile volontà di recare offesa o danno. Purtroppo, anche questo tema, venendo frequentemente malinteso o frainteso, è diventato causa di gravi equivoci di natura morale, spirituale e religiosa, anche perché ormai risulta sempre più difficile, sul piano psicologico-relazionale, stabilire coscienziosamente chi sia l’offeso e chi l’offensore. Ma, a dire il vero, è tutta la dottrina cattolica, e in relazione a qualunque principio o valore morale, che appare ormai barcollante e incerta nell’epoca in cui si registra una massiccia globalizzazione non solo di conoscenze utilissime ma anche e soprattutto di perniciosissime mistificazioni.
Oggi, dall’alto della cattedra di Pietro, si sentono frasi decontestualizzate, ambigue, confuse, come questa: «La giustizia di Dio», rispetto alla giustizia umana del “chi sbaglia paga”, «è molto più grande: “non ha come fine la condanna del colpevole, ma la sua salvezza e la sua rinascita”, il voler rendere in definitiva giusto anche il più ostinato dei peccatori»6 (Francesco, Angelus dell’8 gennaio 2023). A parte il fatto che anche la giustizia del “chi sbaglia paga” ha un suo fondamento etico, oltre che giuridico e sociale, non disconosciuto da Cristo che non avrebbe mai sminuito, magari anche con toni umoristici e burleschi, le colpe o le responsabilità personali, e non avrebbe mai esonerato nessuno dal tentare almeno di porre rimedio al male o ai danni provocati, si deve certo riconoscere che la giustizia divina, lungi dall’essere angusta, abbia «come fine non la condanna ma la redenzione del colpevole e, persino, del peggiore dei peccatori».
Tuttavia, il senso di questo preciso riferimento evangelico si chiarisce solo se esso non rimanga sospeso in se stesso ma venga accompagnato da un doveroso chiarimento di natura altrettanto evangelica, e cioè che la giustizia di Dio, pur non finalizzata alla condanna dei peccatori che si ravvedono delle proprie colpe e si mettono alla sequela di Cristo, al meglio delle proprie possibilità, invocandone continuamente la misericordia e la salvezza, include in sé anche il possibile castigo, l’inesorabile condanna all’eterna dannazione, per coloro che non abbiano mai sentito rimorso per le proprie colpe, né il bisogno di un perdono divino, né desiderio o speranza di vita eterna. Questo un papa lo deve dire, così come deve dire, senza alcuna esitazione, che la giustizia divina è benevola verso i peccatori che si convertono, ma implacabile contro coloro che si cullano incuranti, vita natural durante, nei propri vizi e nelle proprie perversioni, anche all’indomani di eventuali conversioni di facciata. Vizi e perversioni restano tali e ad essi è necessario rinunciare drasticamente ove si voglia essere accolti nella Chiesa di Cristo, e dico di Cristo, non di Francesco. E’ chiaro o sarà necessaria almeno una visita audiometrica a beneficio di chi stenta a sentire e a capire? Non è che la misericordia, da sola, ha la potenza di conquistare chicchessia, credenti o non credenti, cristiani o atei, soggetti virtuosi o soggetti immorali, alla fede e alla Chiesa di Cristo, anche perché la misericordia deve veicolare la verità e non la menzogna, e deve essere mite ma non remissiva o rinunciataria.
La fede è una milizia e il soldato di Cristo è pur sempre un uomo o una donna di lotta e di combattimento. Non c’è figura evangelica più dolce, mite e rassicurante, di quella materna di Maria di Nazaret, ma Maria, nella sua silenziosa scelta di vita, fu una grande lottatrice, fu un’impareggiabile combattente di Dio7 (F. di Maria, Maria combattente di Dio, Romagnano al Monte (SA), BookSprint Edizioni, 2018), sempre pronta a portare sollievo e speranza a chiunque ne avesse bisogno, ma mai disposta a barattare una buona relazione o una relazione inclusiva con qualunque prossimo con la rinuncia a proclamare apertamente le verità della sua fede in Dio e in Cristo. No, la giustizia di Dio non è riducibile a misericordia, checché ne dica il pontefice attuale, non almeno nel senso unilaterale da questi conferito ai suoi interventi su questo tema8 (Se ne veda anche l’intervento dell’Udienza Generale del 3 febbraio 2016). E’ giusto essere caritatevoli, ma non si può essere caritatevoli sino al punto di rinunciare a pensare, a parlare, a vivere, nella ostinata e coraggiosa proclamazione delle verità evangeliche, di tutte le verità evangeliche, sia perché in caso contrario la carità verso gli uomini si convertirebbe in mancanza di carità verso Dio e quindi in insubordinazione rispetto al modo in assoluto più giusto di esercitare la carità, sia anche perché l’amore non nasce dai sensi ma dallo spirito che è innanzitutto spirito di verità e di cui i sensi possono avvalersi o non avvalersi beneficamente.
La più grande carità non può che inscriversi nella più grande giustizia, la quale a sua volta si regge sul fondamento ontologico dell’immutabile ed eterna verità rivelata da Dio e incarnata nella persona di Cristo. Non si può asserire che l’amore, in quanto espressione di un sentire e di un donarsi senza calcoli o senza condizioni, non abbia a che fare con la giustizia9 (E’ quel che sostiene, tra gli altri, A. Maggi, Se è giusto non è amore …, in “Il Libraio” del 22 marzo 2023), giacché è vero che l’amore divino non segue le regole della giustizia biblicamente codificata, così come l’amore della persona non segue le regole della giustizia umana, civile o religiosa, ma questo non significa che tanto l’amore divino, tanto per riflesso quello umano, non seguano o non debbano seguire, regole diverse, più profonde e ancor più universali, di quelle già acquisite biblicamente o per via di consuetudine. L’amore che non abbia una ratio, suscettibile di darsi in diversi possibili gradi di universalità, e non poggi su una sicura e stabile struttura ontologico-valoriale, è semplicemente un amore spontaneistico e incontrollato, mosso da una emotività sentimentalistica o razionalmente incontrollata. Peraltro, è vero anche il contrario, ovvero che una giustizia senza amore, senza pietà, senza coinvolgimento morale, finisce per essere una giustizia talmente dura, sorda e cieca da risultare disumana e quindi ingiusta.
Ma, questo è il punto, proprio per questo la giustizia come l’amore o la misericordia non possono autocostituirsi ma possono costituirsi legittimamente solo sulla base di un qualche principio, fondamento o criterio logico-epistemico, o se si vuole in una costellazione di precetti o insegnamenti, che, nel caso specifico della giustizia e della misericordia cristiano-cattoliche, sono radicati saldamente in una Rivelazione di origine sovrannaturale, cioè in una struttura veritativa e sapienziale chiara e univoca ma irriducibilmente complessa e articolata. In origine è il Logos: non bisogna dimenticarlo. E’ il Logos, la Ragione, la Verità divina. Dio è essenzialmente e visceralmente Amore ma, in senso specifico, questo Amore, che è amore di bene, si nutre intrinsecamente di verità, di razionalità, di sapienza, senza cui non sarebbe possibile individuare le condizioni di sussistenza della giustizia e, di conseguenza, stabilire a quali condizioni, per quali ragioni, per quali fini e in quale misura, sia giusto, legittimo, lecito, esercitare attivamente, di volta in volta, i propri sentimenti di amore, compassione, partecipazione solidale alle complesse e drammatiche vicende storico-esistenziali dei propri simili.
Allora, lo si voglia o no, la sequenza non può essere che la seguente: verità, giustizia, misericordia, dove la misericordia è sempre e necessariamente governata, implicitamente o esplicitamente, inconsciamente o consciamente, da un principio razionale o etico-razionale di verità e di giustizia. L’amore, nelle sue forme più universali, più piene e legittime, è sempre un prodotto dell’intelligenza, sia pure mediata dal sentimento o dalla voce del cuore o della coscienza morale. Il nostro sentire, i nostri stati d’animo, le nostre emozioni, i nostri affetti, sarebbero vaghi, indistinti, confusi, instabili, se non potessero essere sostenuti, indirizzati, guidati, dalle nostre facoltà intellettive e critico-razionali. Una volta individuata per essi una fonte presumibilmente sicura di legittimazione razionale, potranno espandersi autonomamente, in forme e gradi diversi, in forza e profondità emotive, ma il processo di estrinsecazione affettiva, lungi dal poter aver origine dal nulla, ha sempre un qualche movente primario nell’attività raziocinante e coscienziale del proprio io. Persino la fede, che è apertura fiduciosa ad una realtà radicalmente altra da noi, non è mai un fatto semplicemente emotivo, essendo anch’essa, in misura più o meno accentuata, il portato di elaborazioni intuitive e concettuali, talvolta di tipo abbastanza primitivo, talvolta di tipo più sofisticato.
Si ama perché si sa, si conosce, o si ritiene di sapere e conoscere: altrimenti ogni atto di presunto amore verso qualcuno o qualcosa non sarebbe solo un rischio, giacchè non c’è atto d’amore che non comporti determinati rischi, ma sarebbe un vero e proprio azzardo, un vero e proprio atto di autolesionismo. Il problema, per chi ancora fosse dubbioso, non è, in altri termini, la spontaneità dell’amare, del donarsi, del comunicare caritatevolmente con altri, ma il modo in cui, i motivi e gli scopi per cui, possa ritenersi legittimo, giusto, sensato, ragionevole o doveroso, esercitare le proprie facoltà affettive ed etico-relazionali. Nella fenomenologia, pur complessa e differenziata, del sentire affettivo, sentimentale ed etico, questo passaggio non può essere saltato. D’altra parte, resterebbe sempre da dimostrare che le possibili forme di “amore cieco” siano di certo più utili e produttive, in qualsiasi ambito di vita spirituale, di forme almeno sufficientemente pensate o meditate d’amore.
Lo stesso vangelo non dice semplicemente di amare, ma come amare, in che modo e per che cosa amare. Quando i cattolici, ivi compresi illustri porporati e cosiddetti principi della Chiesa, parlano a vanvera di amore, dimostrano per l’appunto di non conoscere o di conoscere molto epidermicamente o di voler scientemente deturpare i significati e i sensi più profondi e originali della lezione evangelica. Nella stessa tradizione cristiana, per quanto la componente affettiva e sentimentale della fede appaia molto sviluppata, non c’è dubbio che ancor più preponderante sia la dimensione intellettuale dello stesso concetto di fede. Non è un caso che Gesù si lamenti non tanto del fatto che i suoi discepoli non credano abbastanza, non ripongano in lui la loro fiducia, quanto del fatto che siano tardi di mente o di intelletto, che non riescano a capire esattamente il senso di certe parole da lui proferite o di certi discorsi da lui fatti.
L’amore non vive di vita propria, ma è sempre il riflesso, più o meno radioso, di determinati modi di pensare o non pensare la fede stessa e l’amore universale che essa veicola. E non è da pensare che esso possa contrarsi o dilatarsi a proprio piacimento, senza che su esso non incida ogni volta, sia pure impercettibilmente, una determinata motivazione di natura intellettuale. In questo senso, forse, il pur pregevole volume di recente pubblicato da Sequeri10 (Cfr. P. A. Sequeri, Opere, L’affidamento dell’io, vol. III, Milano, Vita e Pensiero, 2024. Si veda anche P. A. Sequeri, Senza amore si contrae anche l’intelligenza, in Rivista “Vita e Pensiero” del 5 aprile 2024), su alcuni punti andrebbe rivisto, nel senso che il pericolo da lui segnalato, quello di un’eccessiva intellettualizzazione e sclerotizzazione della fede a scapito della freschezza e della spontaneità dell’amore comunitario, può nascere sia da una esasperata clericalizzazione autoreferenziale della fede, sia anche da indebite e opportunistiche rivisitazioni teologiche oggi corrivamente proposte dalle più alte gerarchie ecclesiastiche nel nome di una ortoprassi religiosa che dovrebbe essere più motivata affettivamente e rendere la fede cattolica ben più appassionata di quanto non sia, ma che in troppi punti appare dotata di un molto dubbio senso cattolico.
Pertanto, benché restino sempre in agguato possibili interpretazioni intellettualistiche o legalistiche, che sono evidentemente da scongiurare ma che non sono conseguenza del ragionamento fin qui svolto, il problema di fondo è dato dalla direzione che si voglia conferire all’intenzionalità noetica con cui ci si accosta alle Sritture, alla Parola di Dio, alle narrazioni evangeliche. Duplice è infatti la possibilità: studiare e meditare la Bibbia con la convinzione intellettuale che il multiforme e granitico Logos in essa racchiuso possa continuare ad assolvere una essenziale e rigorosa funzione di critica inattuale, e quindi anche una funzione direttiva, regolativa, integrativa e selettiva, nei confronti della liquida e frammentata multiformità dei saperi storici, pur dotati di una loro intrinseca densità teorico-ermeneutica, oppure limitarsi ad assegnare al sapere biblico-religioso una funzione non più che ancillare o strumentale in rapporto ad una più generale e pressante istanza culturale di comprensione critico-analitica dei possibili sensi di marcia emergenti dalla complessiva evoluzione in atto dell’umanità contemporanea. Va da sé che, in questo secondo caso, la prospettiva religiosa, trascendente e sovrannaturale, ne uscirebbe fortemente impoverita e semplicemente relegata nell’ordine delle cose da tollerare per il rispetto democratico dovuto persino alle convinzioni più anacronistiche e fantasiose. Il timore è, soprattutto, che principalmente la Chiesa, per valorizzare a tutti i costi le realtà mondane senza volerle santificare, venga invertendo la sua tradizionale attività apostolica e missionaria, nel senso di non intenderla più come legittimazione dell’umano in funzione del sacro ma, al contrario, come legittimazione strumentale del sacro in funzione dell’umano, donde l’inevitabile scivolamento verso un’immagine e un uso decisamente idolatrici della fede cristiana. Potrebbe avere la storia dell’umanità un esito religioso e spirituale più esiziale e ingiusto di questo?
Ma tutto ciò chiarito e precisato, l’uomo di fede non resterà mai privo della certezza che il suo Dio di giustizia non consentirà mai, né ad uomini né a popoli o nazioni, di estirpare dalla faccia della terra la sua croce, il simbolo della sua infinita misericordia, e di vanificare il suo universale sacrificio salvifico. Per quanto oggetto di continuo chiacchiericcio esegetico e teologico, la giustizia di Dio verrà progressivamente manifestandosi in tutta la sua potenza d’amore e di liberazione e, insieme, di annientamento e di condanna. Come ispirarsi, in questi tempi difficili, al giusto per antonomasia? Oggi come ieri il giusto di fede cristiana è sempre in lotta con la concupiscenza della carne (passioni e desideri smodati e contrari alla volontà divina), con la concupiscenza degli occhi (non solo il desiderio di avere ciò che Dio non ha dato e non dà, ma anche e soprattutto l’artefatta tendenza a darsi uno sguardo contegnoso e sussiegoso deliberatamente volto ad attirare gli sguardi altrui su se stessi), e con la superbia della vita, che, come è stato ben scritto da uno studioso gesuita, «è il vizio dei “perfetti”…di coloro che si credono tali e presumono di essere autosufficienti…di coloro che, consci dei loro punti “forti”, non fanno nulla per respingere la tentazione di sentirsi importanti e superiori agli altri e non coltivano, se non a parole, quell’atteggiamento di consapevolezza interiore che il vangelo chiama “vigilanza”… e in definitiva di coloro che, forse anche senza badarci, si servono delle proprie presunte o reali capacità per dominare gli altri»11 (G. Cucci, La superbia. L’illusione di essere Dio, Città del Vaticano, Apostolato della preghiera, 2012; Cfr. Gv 2, 15-16).
Il giusto non disprezza, né per sé né per gli altri, “la correzione del Signore” e non si perde d’animo quando è “ripreso da Lui”, perché sa bene che “il Signore corregge colui che egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio” (Ebrei 12, 5-6). D’altra parte, non dubita che come Egli strazia cosí guarisce, come Egli percuote cosí medica le ferite e risana (Osea 6, 1). Il giusto smaschera ogni tipo di inganno e di violenza, ma non odia nessuno o riesce a far prevalere, con l’aiuto di Dio, un sentimento di amore su un sentimento di odio. E’ sempre in guerra col mondo ma solo perché il mondo abbia pace nella verità e nella giustizia, e pur predicando carità e condivisione di beni materiali oltre che spirituali con indigenti, esclusi ed oppressi, non si dà particolare pensiero per se stesso di cose pure essenziali alla vita come il mangiare, il bere o il vestirsi, mentre le sue maggiori preoccupazioni riguardano “il regno di Dio e la sua giustizia”, ben sapendo che il Signore è molto munifico verso coloro che al centro della loro agenda spirituale hanno posto e pongono la ricerca del suo regno e della sua giustizia (Mt 6, 30-34). Il giusto è sempre grato al Signore per i doni, piccoli o grandi, che gli ha elargito e si riconosce nelle parole di san Pietro: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1Pt 4, 10-11).
Tuttavia, molto o poco istruito che sia, non esita a domandare a Dio la sapienza con fede, essendo cosciente del fatto che “chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento” e che “un uomo cosí” non può pensare “di ricevere qualcosa dal Signore” perché “è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (Gc 1, 1-11). Al tempo stesso, ai giudici del suo tempo, nei diversi ambiti del giudizio legislativo, giudiziario e comunitario, il giusto non si stanca di ricordare che devono ascoltare le cause dei fratelli e giudicare con vera e non falsa giustizia le questioni che si possono avere con connazionali o stranieri, con persone potenti o deboli: infatti, come recita l’Antico Testamento, “nei vostri giudizi non avrete riguardi personali”, là dove bisogna “dare ascolto al piccolo come al grande”, per cui “non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio” (Dt 1, 16-17). Il giusto, per rendere efficace la sua testimonianza religiosa, non è necessario che disponga di un consenso o di un seguito molto ampio di persone, anche se ha sempre il dovere di annunciare “opportune et importune”, e sia pure umilmente e rispettosamente, la parola divina.
Da una parte, non è necessario che le sue iniziative di fede siano condivise da grandi masse di persone, anche perché se si mette molto sale nella zuppa, essa sarà immangiabile. Per insaporirla, ce ne vuole quanto basta ad insaporirla, il che, fuor di metafora, significa che anche pochi uomini, a volte persino un solo uomo (come è stato ed è nel caso dei profeti di ogni epoca), possono rendere davvero significativi e coinvolgenti gli insegnamenti di Dio, dove importanti non sono solo i contenuti trasmessi (che sono non un possesso privato di chi annuncia ma un dono che bisogna partecipare ad altri con umiltà e rispetto) ma anche e soprattutto i modi in cui vengono trasmessi. Dall’altra, la sua opera non può limitarsi all’annuncio ma deve estendersi alla messa in opera dell’annuncio stesso nei limiti delle sue possibilità e capacità operative, per cui dovrà farsi carico delle altrui debolezze, pur senza rinunciare a cercare di far valere le ragioni del vero e del bene, senza essere troppo preoccupato di imporsi o, peggio, di perseguire scopi e interessi personali anche solo di natura psicologica, e dovrà essere sempre vicino ai soggetti più deboli, più sensibili e più bisognosi di solidarietà e di sostegno materiale e spirituale.
Ognuno di noi è chiamato ad essere un giusto, in proporzione ai carismi ricevuti da Dio, e quindi ad essere “sale della terra e luce del mondo”: quanto più sincera e disinteressata è la capacità di fare nostre le miserie e le angosce dei sofferenti e di stare tangibilmente dalla loro parte, quanto più elevata e saggiamente comunicativa è la qualità dell’annuncio, tanto più degno sarà ognuno di noi della fiducia riposta da Cristo in ogni suo discepolo: “voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-16). Il giusto è chi conserva la sua sapidità di fronte alla corruzione, ad ogni forma di corruzione: se la gente dice male di lui proprio a motivo della sua resistenza al male, egli se ne deve solo rallegrare perché questo è l’effetto prodotto dal sale “che morde e punge le piaghe”, come commenta Giovanni Crisostomo, mentre se “il timore delle calunnie” gli “farà perdere il vigore che gli è indispensabile”, allora per lui “vi saranno conseguenze ben peggiori” perché “sarà coperto dalle ingiurie e dal disprezzo di tutti”. Identico è il ragionamento per il giusto come “luce del mondo”12 (Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova, 2003, 2 voll., vol. II, omelia 15, 6. 7; PG 57, pp. 231-232).
Francesco di Maria