L’etica cristiana tra laicità e professione di fede

Il ricorso a Dio, alla fede in Dio, non può fondare o giustificare alcuna posizione di natura etica. Un’etica laica e non religiosa non può risultare razionalmente plausibile sulla base della Rivelazione o di presupposti specificamente religiosi. L’etica laica può utilizzare solo argomenti razionali o ragionevoli (il riferimento alla persona storica di Gesù, l’esperienza comunitaria bimillenaria, un’intelligenza collettiva espressa dalla Tradizione di autorevoli Padri e di innumerevoli apporti teologici), mentre l’etica religiosa e cattolica è fondata solo in parte su ragioni storico-empiriche verificate e acquisite come tali, basando invece gran parte dei suoi princìpi e delle sue convinzioni su un principio di autorità, come può  essere l’infallibilità del magistero pontificio, sganciato da inoppugnabili prove osservative e dimostrative. Il che lascerebbe concludere, secondo uno studioso cattolico1, che l’etica più vera e più universalmente argomentata non sia quella confessionale cattolica ma quella laica, per gli stessi cattolici, che dovrebbero giudicare le loro convinzioni e credenze per mezzo di autonome argomentazioni razionali e non semplicemente accettate per ubbidienza all’autorità pontificia ed ecclesiastica.

Bisogna tuttavia osservare che, in ultima analisi, l’etica cattolica, pur fondata certo anche, ma pur sempre in modo relativamente subordinato, sul magistero pontificio, ha tuttavia nella Parola stessa di Cristo-Dio, dalla quale l’infallibilità pontificia non può prescindere e sulla quale deve potersene misurare l’attendibilità, la sua fonte primaria, inemendabile e insuperabile. La laicità è indubbiamente principio di razionalità, ma, come in altri scritti ho cercato di spiegare, anche la fede, suscettibile di porsi come oggetto di autonoma e responsabile elaborazione critica, e quindi come tema religioso di un pensare e sentire laici, può assurgere a principio di razionalità, in quanto principio fondato sulla parola e sull’opera plausibili di Cristo che mettono costitutivamente in discussione tutte le verità e i poteri costituiti del mondo, donde appare del tutto comprensibile come non tutto ciò che può essere annoverato nella categoria della religiosità e nello spazio del sacro deve essere necessariamente identificato come probabile espressione di irrazionalità o irragionevolezza.

Non è che, dopo la sconvolgente e, per milioni di credenti, indiscutibile irruzione del Logos divino nella storia degli uomini, tutti i dogmi, i misteri, i precetti meno immediatamente comprensibili che ne fanno farte, possano essere tacciati sic et simpliciter di irrazionalità: perché, in fin dei conti, è proprio questo l’aspetto della fede cattolica che fa storcere il naso a tanti laici atei o agnostici e, per strano che possa sembrare, persino a taluni sedicenti credenti cattolici, che del cattolicesimo vorrebbero considerare razionalmente legittimi solo i temi più immediatamente ragionevoli, ovvero quelli coincidenti con le convinzioni delle forme più radicale di laicità. Il che, però, sarebbe esattamente il contrario di una cultura delle differenze, la quale richiede piuttosto, anche sul piano politico, un’etica appunto culturalmente aperta alle differenze e capace di rendere reciprocamente compatibili le convinzioni religiose dei credenti e quelle puramente immanenti dei non credenti. La convivenza civile è possibile solo se le differenze religiose e culturali non vengano brandite in senso violentemente ideologico ma rispettate e, se necessario, messe a confronto per via democratica2

Chi non sembra avere consapevolezza del fatto che la religiosità, specificamente quella cattolica, può essere pensata sia in senso confessionale che in senso laico, è, per esempio, Luigi Lombardi Vallauri, dalle cui considerazioni sul tema in oggetto prende spunto il presente articolo. Questi è un filosofo del diritto di fede originariamente cattolica ma poi, a causa delle sue posizioni manifestamente eterodosse (basti pensare alla sua negazione dell’esistenza dell’inferno, in quanto quest’ultimo sarebbe “incostituzionale”), sarebbe stato sospeso e allontanato dall’insegnamento nelle università cattoliche. Tale studioso sostiene che i celeberrimi comandamenti divini, che sono espressione di specifici contenuti normativi, non possono essere attribuiti a Dio, alla sua volontà, perché «Dio è troppo imperscrutabile perché gli si possa leggere dentro», per cui Egli sarebbe anche «eticamente irrilevante»3. Certo, insiste l’arguto professore, perché i casi sono due: «o comanda l’etica vera, quella che la ragione conosce e riconosce per virtù propria, e allora merita obbedienza a; oppure comanda un’etica contraria all’etica vera, e allora è un tiranno etico, cui si dovrebbe disobbedire e si obbedisce, se mai, non-eticamente, per paura. Anche Dio, se esiste, è misurato dal logos, dalla legge eterna (ontologica, logica, etica) valida in sé e non perché lo dice qualcuno. Nell’ambito dell’etica laica-universale non c’è spazio per un positivismo etico, neppure divino»4.

Ma il problema che il nipote del grande predicatore  gesuita Riccardo Lombardi omette completamente di prendere in considerazione è che, proprio perché Dio «è troppo imperscrutabile», la sua misteriosa identità, con annesso e connesso corollario di princìpi normativi e insegnamenti, poteva venire manifestandosi gradualmente nella storia umana solo su sua iniziativa, e infatti cosí sarebbe avvenuto. La Rivelazione è l’ultima, più compiuta e immutabile manifestazione del Logos divino, di cui i comandamenti veterotestamentari sono parte integrante e costitutiva, non foss’altro che per il fatto di essere stati riconosciuti da Cristo, Figlio unigenito di Dio. Lombardi Vallauri disconosce completamente tale imprescindibile verità di fede che la stessa ragione percepisce e riconosce come tale nell’ottica in cui evidentemente nella Rivelazione si voglia trovare il fondamento ontologico dell’umana razionalità, donde poi il disconoscimento di tutti i più impegnativi contenuti normativi racchiusi nella stessa Rivelazione, la quale, certo, “comanda l’etica vera”, che la ragione non può riconoscere per “virtù propria” ma solo se sostenuta dalla grazia divina, giacché, in realtà, la ragione come tale può rettamente conoscere solo se i criteri cui ottempera, i modi in cui si esplica, i dati su cui si fonda o si basa, non sono oggettivamente inesatti, arbitrari, approssimativi, ovvero contrari al dato rivelato, e anzi si può ben dire che, quanto più universalmente validi, ineccepibili, corroborati, sono i princìpi logico-metodologici, gli strumenti e gli orizzonti epistemici della indagine critico-razionale, tanto più plausibili e convincenti appariranno anche i suoi risultati e le sue pur sempre provvisorie verità.  

La ragione cristiana e cattolica, checché vada farfugliando questo pensatore non certo accecato sulla via di Damasco, riconosce nella Rivelazione la fonte storica e spirituale più autorevole e legittima della umana razionalità, di qualunque paradigma di razionalità elaborato nel quadro dello sviluppo storico, civile e culturale del genere umano, per cui ipotizzare “un’etica divina contraria ad un’etica razionale vera” è, in termini di razionalità evangelica e razionalità tout court, un semplice controsenso, in quanto semmai, proprio in sede logica, la difficoltà insormontabile sarebbe quella relativa alla tesi per cui una presunta etica razionale vera sarebbe condizione di validità dell’etica divina, là dove è del tutto evidente che sarebbe molto più semplice e lineare sostenere che l’etica razionale umana non necessiti di alcuna etica divina. E, infatti, Vallauri lo dice chiaramente: «L’etica che interessa tutti, laici e religiosi, è l’etica laica-universale; per riconoscerla, per costruirla, non sono particolarmente rilevanti né il papa né Dio»5. Questa, naturalmente, è la dichiarazione atea, dogmatica, intollerante, di chi disconosce completamente il contributo virtualmente conoscitivo, etico-morale, giuridico e culturale, che la Rivelazione del Verbo divino, il cristianesimo storico, la spiritualità cristiana e cattolica, hanno di fatto arrecato alla storia della civiltà umana. Ed è soprattutto una di quelle dichiarazioni disinvolte che consentono agli spiriti più attenti e sensibili di distinguere il grano dalla zizzania.

La pretesa di Vallauri è che non l’etica razionale laica abbia il compito di aprirsi all’etica rivelata, ai suoi princìpi, alle sue verità, per tendere ad una universalizzazione quanto più ampia possibile delle sue categorie e dei suoi quadri valoriali, ma sia piuttosto l’etica rivelata, l’etica cattolica, a doversi gradualmente adattare alle paradigmatiche acquisizioni logico-teoretiche dell’etica razionale e non religiosa laica, per potersi «deconfessionalizzare universalizzandosi»6. Ma questo grottesco tentativo di ridurre lo spazio del sacro allo spazio che la ragione umana, molto meno uniforme e molto più complessa e articolata di quel che Vallauri ritenga, sia eventualmente disposta a concedere o a riconoscere, soggettivisticamente, al sacro stesso, potrebbe essere accreditato semplicemente da una comunità non già di esseri razionali ma di stupidi e fanatici imbonitori convinti di poter far breccia nella mente di qualche sprovveduto. Significativa è la conclusione del suo articolo: «La mia conclusione, problematica, sarà un interrogativo rivolto alla coscienza del lettore: serve, “Dio”, in etica?»7. Altrettanto significativa è la risposta, non problematica ma più perentoria e rigorosa, del cattolico in Cristo: nella tua etica non serve, in quella di persone più dubbiose e ragionevoli, forse può servire.

Su che cosa si basano il sentire e l’agire morali se non su una scelta, una decisione, di assumere a fondamento della propria vita spirituale determinati princìpi morali o un determinato ordine di valori morali e religiosi? Naturalmente, la scelta, la decisione, possono essere più o meno conformi a un criterio di razionalità, là dove si tenga tuttavia presente che le possibili forme di razionalità sono molteplici e, almeno in una certa misura, integrabili le une con le altre. Ora, non c’è motivo di ritenere che la decisione di conformare, almeno intenzionalmente, un’intera esistenza di pensiero e di azione alla dottrina evangelico-cristiana, all’etica cristiana, sia meno razionale o ragionevole di scelte diverse o opposte, a loro volta costrette a muovere da determinati presupposti. Da una parte, sussistono elementi storico-culturali che possono indurre plausibilmente ad abbracciare la fede e l’etica cristiane, dall’altra è sempre possibile optare, ma non per motivi di razionalità assolutamente vincolante, per soluzioni completamente diverse. Spesso non è sul terreno della più rigorosa razionalità, ma su quello di una disarmata e disarmante emozionalità, ovvero di un’emozionalità soverchiante la capacità di controllo critico su ciò che esercita attrazione sulla sfera psichica e mentale individuale, che si gioca la partita tra opzioni etiche diverse o antitetiche.

Tuttavia, ogni fine o bene etico, come la famiglia, il mondo economico e produttivo, il mondo giuridico, lo Stato, la scienza, l’arte e, ultima ma non ultima, la religione, ha un suo specifico valore etico, che, pur essendo autonomo rispetto a quello degli altri beni, deve poter coordinarsi con il valore etico di quest’ultimi e, più specificamente con quello del fine religioso, che, non sempre ma generalmente, tra tutti i fini, costituisce il fine supremo8. Ora, quale che sia il bene o fine etico vissuto soggettivamente come prominente, l’affidabilità maggiore o minore dei nostri giudizi, idee, convinzioni, rappresentazioni filosofiche o teologiche della realtà storico-esistenziale in genere, dipenderà, sul piano etico-culturale, dalla chiarezza linguistico-concettuale, dall’interna articolazione argomentativa, dalla consequenzialità logica, dal grado più o meno efficace di bilanciamento tra dimensione emotiva e dimensione raziocinante del ragionamento, dal tasso di organicità contestuale caratterizzante il rapporto tra premesse o assunti-base, passaggi intermedi e conclusioni delle nostre complessive costruzioni teoriche o interpretazioni, anche se, sul più generico piano esistenziale, ognuno conserverà la legittima facoltà di credere in determinati valori anche a prescindere dall’effettivo valore dimostrativo della sua “fede”, etica, scientifica, ideologica o religiosa.

Va, in ogni caso, precisato che alla base di qualunque concezione etica della vita sociale, politica ed economica, culturale, giuridica e religiosa, dell’umanità, non può che trovarsi un fondamento metafisico, un’intuizione universale, non ulteriormente dimostrabile, del mondo. D’onde anche l’inevitabilità di un rapporto tra l’etica cristiana e l’etica culturale polimorfica del mondo stesso. Quando, come nel caso del credente cristiano o cattolico, la fede religiosa viene convertendosi in esigenza morale, ogni comando o imperativo morale diviene espressione della volontà divina9. Il che significa che l’autonomia morale del cattolico viene esercitandosi all’interno e in stretta connessione con una teonomia, per cui il suo rapporto con i beni e i valori intramondani resta condizionato dalla sua adesione ad una normatività sopramondana, che è altresì una normatività escatologica secondo la quale l’agire morale, pur compiendosi nella quotidianità immanente del mondo, ha il suo fine ultimo in una realtà ulteriore, che inizia nel mondo senza tuttavia esaurirsi nel mondo. In questo senso, tra il senso etico-religioso cristiano e il senso etico immanente si stabilisce una sorta di tensione che non è, in generale, né semplicemente escludente, né semplicemente includente, ma integrativa e selettiva ad un tempo.

Secondo Troeltsch, l’etica cristiana è un’etica sempre oscillante tra contestazione e accettazione, tra rifiuto e accoglienza, ma fondamentalmente tende ad essere un’etica dell’«opposizione includente», in quanto il mondo creato da Dio, per quanto segnato dal peccato originale, conserva pur sempre una sua positività da salvaguardare e valorizzare e, d’altra parte, il mondo non meno del genere umano va salvato, non semplicemente demonizzato e condannato, attraverso un’opera quanto più incisiva e santificante possibile di paziente e virtuoso risanamento. L’etica cristiana, in quanto, unica tra tutte le etiche esistenti, fondata sull’assunto di un Dio salvatore, di un Dio della salvezza eterna, ha tuttavia un valore assoluto e non equiparabile quindi al valore relativo di tutte le altre etiche intramondane e fedi religiose. In essa, spirito religioso e spirito morale tendono a compenetrarsi perfettamente, nel senso che i contenuti religiosi, di per se stessi eteronomi, vengono autonomizzandosi moralmente, risolvendosi in pura interiorità e in puro esercizio di dovere morale, mentre l’interiore attività della coscienza morale ha la sua ragion d’essere in una sua costitutiva finalizzazione religiosa corrispondente alla santificazione della vita in Cristo.

Di conseguenza, essa non è un’etica semplicemente liturgica, cerimoniale, ideologica o fondata su regole esterne alla coscienza, essendo quest’ultima e il suo profondo e continuo travaglio interiore, la sua unica o fondamentale regola. Certo, in tal caso si tratta di una coscienza normata dalla fede e da un doveroso perseguimento del Regno di Dio, ma ad essere normate non sono solo la coscienza e l’etica cristiana bensì qualunque altra forma di etica e di vita morale. Si potrà dire che l’etica intramondana possa essere condizionata da fattori pur sempre immanenti e non trascendenti, ma, alla fine, solo l’etica cristiana, in quanto dichiaratamente fondata su una verità rivelata, assoluta, immutabile, può rivendicare, a ragion veduta, anche il crisma dell’oggettività e dell’universalità corroborate anche da un’esperienza intersoggettiva molto ampia e capace di riprodursi nel corso dei secoli. Tuttavia, tale etica non entra direttamente nel sociale, nel politico o nell’economico, non fornisce modelli economici e sociali predeterminati, essendo piuttosto chiamata ad interagire, sia pure alla luce del fine supremo del Regno di Dio, con contesti storico-politici ed economici già esistenti o consolidati nelle diverse aree del mondo, per trarre da essi il massimo possibile di comunione, di servizio, di fraternità, che sono appunto le parole d’ordine dell’etica cristiana: là dove non sarà mai superfluo precisare che la comunione evangelica non ha niente a che fare con forme di comunismo ideologico e politico, e non solo perché forme ateistiche di comunismo.

In ogni caso, resta questa dicotomia strutturale dell’etica cristiana, da una parte volta a svalutare il mondo e la storia rispetto alla promessa escatologica del Regno di Dio, ma dall’altra doverosamente ed energicamente finalizzata a fungere da lievito di libertà e liberazione evangeliche da tutte le strutture personali e sociali di peccato e di morte, anche attraverso una relativa valorizzazione di realtà istituzionali legittimate da Dio, come, in primis, quella dello Stato, ove esso non si sia già trasformato in uno strumento di potere volto ad assecondare lo spirito maligno del mondo, le forze più perverse e irrazionali della storia degli uomini.

Non è che il mondo, con i suoi paradigmi culturali e i suoi ordini istituzionali, non produca, al di là di tante pure oggettive mostruosità, anche forme di verità, di uguaglianza, giustizia, solidarietà, sebbene in modi ogni volta parziali, incompleti, imperfetti. Ma si tratta poi di mettere a disposizione del mondo degli strumenti utili di conoscenza, di analisi, di riorientamento critico, che aiutino a correggere gli errori, i difetti, le imperfezioni più o meno vistose in esso radicati e diffusi e, in questo senso, non è pensabile che si possa prescindere da quell’imponente sistema di conoscenza umana che è la Rivelazione cristiana, indipendentemente dal fatto che qualcuno, coltivando idee molto semplificate di evidenza e accertamento empirico e sottovalutando forse il ruolo che, persino nei processi di più sicura o elevata acquisizione epistemica, vengono costantemente giocando, anche al di là di quest’ultima, il dubbio o la scepsi, lo spirito critico, ovvero esattamente l’opposto della certezza di cui consta il sapere scientifico,  possa ritenerla basata su «evidenze insufficienti»10.

Le evidenze scientifiche sono o dovrebbero il risultato di una combinazione ben dosata ed equilibrata di elementi diversi e costitutivi della ricerca: quali dati possano o debbano ritenersi pertinenti ai fini di una determinata indagine, in che modo essi possano o debbano essere integrati, quale possa essere il perimetro logico-metodologico di apertura euristica non solo nel senso della prevedibilità di un dato risultato o del possibile grado di plausibilità che questo potrebbe possedere ma anche nel senso che uno stesso oggetto d’indagine potrebbe essere valutato da punti di vista diversi e non esattamente quantificabili, la continua verifica del fatto che nessuna fase del procedimento scientifico sia stata trascurata o sottovalutata e, soprattutto, che tale procedimento non necessiti di ulteriori fasi di controllo e di approfondimento. Ora, come si possa asserire ciò che un ricercatore o uno scienziato solo istintivamente e sulla base di un inconscio retroterra ideologico potrebbe essere indotto a sostenere, ovvero che le strutture etico-conoscitive portanti della Rivelazione siano basate su «evidenze insufficienti», è qualcosa di oggettivamente molto impegnativo da sostenere e da dimostrare, non solo per l’alone di sovrannaturalità da cui la figura di Cristo è sempre stata circondata nel corso dei secoli, ma anche perché nessun intelletto umano individuale o collettivo, nessuna comunità scientifica, potrebbero mai prevedere, nella più feconda delle possibili vie ipotetiche o congetturali, quali e quante siano in assoluto le evidenze scientifiche sufficienti e, come tali, acquisibili nel corso di una illimitata evoluzione storico-scientifica.

In fondo, un’etica finalmente svincolata, non meno delle forme più avanzate di razionalità, da qualsiasi riferimento ad un ordine metafisico di sacralità e religiosità, rappresenta l’antico sogno prometeico del sempre più secolarizzato uomo moderno e contemporaneo di radicale affrancamento dall’ancestrale paura dell’ignoto e del nulla, ciò che, entro determinati limiti, peraltro sempre mutevoli, è consentito anche all’homo religiosus e, più segnatamente, al seguace di Cristo. Ma il problema è che, nonostante il multiforme e rapido mutamento delle forme della religiosità e il connesso decadimento del costume religioso nelle pratiche quotidiane, l’esperienza del sacro non sembra ancora prossima a dissolversi nell’ambito della più accreditata riflessione critico-culturale di questo tempo. E’ pur vero che pensare il sacro senza viverlo, senza esercitarlo nelle scelte e negli atti della complessa e drammatica esperienza esistenziale, non costituisca ancora un fenomeno eticamente significativo, ma è pur sempre un segno, una spia, eticamente non irrilevante, della tenace persistenza di profondi, variegati e non scontati, pur se talvolta eccentrici e stravaganti, processi psichici umani nell’immaginario spirituale individuale e collettivo11

Ma cosa accadrebbe alla religiosità ancora resiliente della contemporaneità se finisse per disperdersi in mille rivoli di debole soggettivismo etico o in manifestazioni diversificate di un’etica ormai puramente civile? A quel punto cosa sarebbe della religione istituzionale, incarnata soprattutto dalla Chiesa cattolica, cioè del suo tradizionale universalismo spirituale? In particolare, sarebbe esso ancora capace di fungere da “principio unificante” delle diverse forme secolarizzate di soggettività e moralità umane? E’ molto difficile rispondere ma i casi sarebbero due: nel caso in cui lo fosse, la gloriosa etica universalistica della Chiesa cattolica potrebbe confermarsi, al di là delle sue pur numerose e crescenti crisi storiche, fonte paradigmatica di riflessione, approfondimento e confronto critico, per tutte le etiche laiche variamente secolarizzate di diversa ispirazione e finalità valoriale, così come era accaduto agli albori della civiltà europea allorché il cristianesimo aveva attivamente concorso a formarne strutture universalistiche di pensiero e di vita morale e comunitaria, pur nel quadro di oggettivi movimenti storico-sociali e di dinamiche economiche spesso collidenti con l’ordine normativo dei grandi valori evangelici. Nel caso in cui invece l’etica cattolica dovesse svuotarsi in modo irreversibile della sua dimensione religiosa, il suo destino non potrebbe essere semplicemente quello di ridursi ad essere un’etica tra tante, ma a sparire, a disintegrarsi letteralmente come etica, non potendo conservare alcun reale valore etico, né assolvere alcuna reale funzione emancipativa, un’etica cattolica decapitata di Dio e della divina rivelazione.

L’etica cattolica è un’etica religiosa che, pur suscettibile di essere pensata in modo più laico e non clericale o più confessionale e conformistico, e al pari di tutte le altre etiche religiose, esercita ancora, anche se meno che in passato, una certa influenza sulla dimensione politica della vita associata o comunitaria. Essa esprime una razionalità in parte laica, perché aperta criticamente ma non indiscriminatamente a specifiche istanze storico-mondane oltre che agli stessi problemi interni alla fede, e in parte passionale, ovvero intimamente e intensamente partecipe degli avvenimenti intramondani nel segno della propria professione di fede o confessione religiosa. Bisogna che, senza dimenticare che Cristo era un laico privo di qualsivoglia investitura istituzionale di tipo sacerdotale e che laiche furono le origini della Chiesa, l’anima laica e l’anima confessionale del cattolicesimo lavorino di conserva in un rapporto di reciproca integrazione che consenta alla morale cattolica di confrontarsi con l’etica sociale dei vari periodi storici senza rigettarla aprioristicamente ma anche senza rinunciare ad innestarvi e farvi valere, in forme adeguate, il buon lievito della Parola evangelica.

E’ questa una tematica ben presente nel filosofo statunitense di origine ebraica Michael Walzer, che ha posto bene in rilievo come la fede o la passione religiosa non possa essere che funzionale anche all’impegno politico, non possa essere segregata nel privato ma essere di grande utilità anche in rapporto alla dimensione pubblica12. Per Walzer, una politica democratica  fondata sulla pura ragione, su una razionalità priva di implicazioni emozionalmente rilevanti, non è possibile, perché la vita associata riposa su un intreccio inestricabile di fattori emozionali, passionali e quindi anche religiosi, e di esigenze logiche e razionali. Per lui, la religione ebraico-cristiana ha una dimensione politica che non ne inficia la trascendenza e, d’altra parte, anche le promesse messianiche e salvifiche di Dio contengono non solo un significato spirituale ma un preciso significato politico di rifiuto dell’oppressione, dello sfruttamento e della tirannia. Ragione politica e passione religiosa devono, dunque, poter coesistere quanto più armonicamente possibile, anche se l’armonia tra esse non è né facile, né scontata, ma molto difficile o problematica, a causa delle ambiguità intrinseche ad ognuno di questi due momenti. Della razionalità politica e della passione o fede religiosa si possono fare, infatti, usi molto diversi e, spesso, ugualmente dannosi sia umanamente che eticamente e politicamente.

Per fede si possono fare non solo opere di carità e di umanizzazione dei rapporti interpersonali e comunitari, ma anche crociate spesso efferate contro masse di “infedeli”, roghi o inquisizioni violente contro gli eretici, e anche oggi per fede si può dare luogo a vere e proprie campagne di odio su molti temi oltre che a conflitti etnico-religiosi piuttosto esasperati. Ma anche la ragione, in particolare la ragione strumentale e tecnocratica, come tutta l’esperienza storica insegna, può essere facilmente utilizzata per il perseguimento di scopi abominevoli e disumani. Dunque, in fin dei conti, occorre riformulare la domanda: quale ragione e quale passione o fede religiosa? Il cristianesimo risponde a questa duplice domanda, anche se non garantisce che la libertà umana possa essere sempre impiegata nel modo migliore, che la fede religiosa possa essere adoperata sempre in modo ragionevole o razionale e la ragione laica possa preservare da forme di cecità e respingimento dogmatici e ostili le legittime istanze ed aspettative etiche e spirituali della fede religiosa e, segnatamente, della fede per antonomasia più diffusa e universale, ovvero quella cattolica.

NOTE

1 L. Lombardi Vallauri, Serve, “Dio”, in etica?, in “Biblioteca della libertà”, XXXV (2000), settembre-ottobre, n. 156, pp. 69-79.

2 Da questo punto di vista, può essere utile il confronto proposto congiuntamente da un cattedratico ateo di filosofia come Eugenio Lecaldano e da un teologo cattolico come Elmar Salmann: Etica con Dio, etica senza Dio, Udine, Edizioni  Forum, 2009.     

3 L. Lombardi Vallauri, Serve, “Dio”, in etica?, cit., p. 71.     

4  Ivi, p. 72.

5 Ivi 

6 Ivi, p. 73.

7 Ivi, p. 79   

8 Cfr. G. Cantillo, Etica generale ed etica cristiana nel pensiero di Ernst Troeltsch, in AA.VV., “Etica trascendentale e intersoggettività”, a cura di C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2002, poi riproposto, con diverso titolo e in forma leggermente mutata: Etica cristiana e mondo, in “Etica & Politica”, 2012, XIV, n. 2, pp. 103-117. 

9 E’ un concetto centrale nell’analisi di Ernst Troeltsch, Etica, religione, filosofia della storia, Napoli, Guida, 1974. Sempre sull’etica di Troeltsch si era già  soffermato in un lavoro monografico ancora G. Cantillo, Ernst Troeltsch, Napoli, Guida, 1979, per ritornarvi nuovamente in Introduzione a Troeltsch, Roma-Bari, Laterza, 2004. 

10 Per esempio, W. Clifford, Etica scienza e fede, Torino, Boringhieri, 2013. 

11 Al riguardo, utili punti di riferimento sono studi come M. Gauchet, Le désenchantement du monde, Paris, Gallimard, 1983; R. Lapointe, Socio-antropologie du religieux. Le cercle anchanté de la croyance, Genève, Librairie Droz, 1989. Si può vedere anche: L. Tornasi, L’interpretazione sociologica dei nuovi movimenti religiosi nelle società moderne, in AA.VV. Immagini della religiosità in Italia (a cura di S. Burgalassi, C. Prandi, S. Martelli), Milano, Franco Angeli, 1993, pp. 239-254. 

12 Cfr. D. Gianola, Religione ed etica pubblica in Michael Walzer, Milano, Vita & Pensiero, 2006, p. 16. Di Walzer, si possono vedere: Interpretazione e critica sociale, Roma. Edizioni Lavoro, 1990; Ragione e passione. Per una critica del liberalismo, Milano, Feltrinelli, 2001; L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2004.

Francesco di Maria

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